Per capire cosa siano effettivamente remaster, remake e reboot, dobbiamo iniziare con uno scenario prettamente analogico: immagina un’enorme, smisurata biblioteca, di quelle che si trovano in una delle miriadi di capitali dell’universo sparse in giro per il mondo. New York, Washington, Torino, Barcellona, Praga. Sapete per certo che i libri resteranno lì, immobili, con l’unico turbamento che viene dalla trama che li compone, finché qualcuno non li muoverà. Di dubitare di questo dato di fatto non c’è motivo alcuno, ipotizzare diversamente sarebbe illogico, irreale, finanche ridicolo da immaginare. Un libro non può riscriversi da solo. Non può modernizzarsi, riadattarsi, censurarsi, ampliarsi o ridursi di sua autonomia. Anche questo rende un libro un capolavoro, nella sua mediocrità: è immutabile come una vita umana che giunge al termine.
I videogiochi, d’altro canto, sono una diversa faccenda: col passare delle decadi, sono giunti a uno stato attuale per cui vivono quasi spontaneamente, continuamente riconnessi alla rete mondiale, crescendo e sviluppandosi con un affanno più simile a quello di piante che di semplici prodotti d’intrattenimento.
Ne consegue forse che gli unici capolavori possono essere trovati nei libri? Assolutamente no.
Nei miei trent’anni di vita, nei miei cinque anni d’università e in quelli di erudizione precedenti, ho avuto modo di leggere un gran numero di libri e giocare un numero, se possibile, ancor più grande di videogiochi.
Da un simile pozzo di esperienza, posso affermare, con una dose sostanziosa di immodestia e senza tema di smentita, che così come ci sono libri orribili, scritti solo per riempire pagine che forse avrebbero reso meglio se bianche, esistono videogiochi che rasentano lo stato dell’arte per trama, gameplay o che, semplicemente, sono capolavori e basta, impossibili da smantellare nelle loro parti minime per analizzarne che cosa, effettivamente, li renda tali.
Del resto, non avrebbe senso smontare una Corvette per ammirare la bellezza di un singolo bullone, o staccare La flagellazione di Cristo di Piero della Francesca dalla cornice per contemplare l’intelaiatura di legno dietro il dipinto: la somma dei singoli elementi è ciò che contribuisce al successo di un libro, di un’auto, di un dipinto, di un videogioco. Il videogioco, però, ha avuto il vantaggio evolutivo di poter essere cambiato, migliorato, arricchito e, in certi casi, ribaltato completamente. Le software house, ovviamente, hanno ogni interesse a farlo, per rendere il loro prodotto più accattivante e vendibile.
Ma cosa succede quando si parla di uno di quei masterpiece degli anni Novanta, in cui la connessione internet integrata alle console era una risibile chimera? Quelli non possono aggiornarsi. Non possono accrescersi. Non possono riadattarsi al mercato. Ed è qui che le grandi major si appigliano, per accarezzare e spremere dolcemente quella parte di cuore che transita dal portafoglio degli ormai invecchiati videogiocatori.
Nostalgia: la quintessenziale speranza dell’uomo e al tempo stesso il fulcro della sua distruzione, lei sola guida le mani del marketing nella Sacra Trinità della riedizione: remaster, remake e reboot.
Ma cosa sono esattamente? E che differenze ci sono?
Il remaster può essere inteso come un semplice ritocco alla grafica e agli effetti di un gioco, e di solito non è qualcosa che possano permettersi tutti i titoli: solo i migliori, quelli che hanno tirato fuori il meglio del videoludismo prettamente inteso – per gameplay, per suggestioni, o anche solo per la trama – possono permettersi quel “ritocchino” che li rende rispendibili sul mercato delle nuove console. Emblematico è il caso di The last of Us, che dopo aver rastrellato premi su premi nella categoria per PlayStation 3, ha subito giusto un anno dopo quel tocco di belletto digitale necessario a farlo sbarcare verso la generazione successiva. Un altro caso ancora più eclatante è quello di un mostro sacro come Shadow of the Colossus, che è partito dalla generazione ancora precedente.
Il remake, più ancora che nella veste grafica, è una rivalutazione dell’intera sovrastruttura: è una revisione del concept stesso che sfrutta la rielaborazione della grafica per offrire spunti innovativi nel gameplay, nel design e più in generale nella concezione del gioco in sé, apportando anche, qualora in principio mancasse, la dimensione multimediale data dalla connessione internet. Un po’ come un incrocio tra un innesto di bioingegneria e un iniezione di acido ialuronico. La sacra triade degli anni Novanta, ossia le saghe di Crash Bandicoot, Spyro the Dragon e dell’imminente MediEvil appartengono a questa categoria, per non parlare di tutte le rielaborazioni date dalle varie generazioni dei Pokémon.
Il reboot, infine, è l’equivalente videoludico di un colpo di spugna, dove l’opera viene demolita e ricostruita in toto, stravolgendo ogni elemento: trama, gameplay, ambientazioni e via dicendo. Di solito viene fatto per venire incontro ai nuovi gusti in materia, in modo non solo da poter accattivarsi le simpatie del nuovo pubblico, ma anche quelle di un pubblico che è maturato, e che nelle sue peregrinazioni videoludiche cerca qualcosa che trascenda il mero intrattenimento fine a se stesso, o ancora può dipendere da un radicato cambio di prospettiva della società odierna. Gli esempi più lampanti vengono da saghe come quella di Tomb Raider, dove troviamo una nuova Lara Croft, più giovane, più insicura, più…modesta (dai che avete capito), adatta ai nuovi gusti del millennio e al sempre maggiore avvicinarsi al mercato del pubblico femminile, o da quella di God of War, il cui ultimo episodio, ambientato tra le divinità nordiche, mostra un Kratos in costante evoluzione, strutturato, mai piatto nella sua formazione interiore, il cui cammino è complicato dall’essere diventato un padre, e per giunta vedovo, costretto a confrontarsi non solo con mostri e dei, ma anche con i problemi dati dalla crescita di un preadolescente.
Questo vuol forse dire, come molti videogiocatori auspicano, che i mostri sacri restano tali solo e soltanto se confinati alla loro dimensione storica, privi di evoluzione data dal confronto con il Tempo che avanza? Ni. Si può innegabilmente ammettere che in certi casi le software house non fanno molto più che imbellettare cadaveri, avendo gli attori sul palco esaurito l’estro e gli autori dietro le quinte rinunciato all’inventiva, ma non è una corrispondenza univoca. Cambiare si può, cambiare si deve, prescindendo da quanto ciò sia fatto in nome dell’economia di mercato. Siamo in una società che vende, è una realtà, è la Realtà, ma non vuol dire che non si possano vendere prodotti di qualità, o anche solo far conoscere ciò che fu alle nuove generazioni, rendendo giustizia a mezzi tecnici che all’epoca mancavano.
E in fondo, non è possibile amare qualcosa come si faceva un tempo, se lasciamo che quella parte di noi che riusciva ancora a stupirsi resti sepolta sotto una bella grafica rispetto a una bella storia.
Nessuno vede quanto è brutta la penna che scrive un buon libro.