Negli ultimi anni alcuni videogiochi si sono letteralmente impossessati di alcune tecniche registiche e drammaturgiche proprie del cinema, arrivando a creare prodotti perfettamente a metà tra cinema e videogame. Prodotti che, nel giro di poco tempo, potrebbero moltiplicarsi a dismisura rinnovando l’home entertainment.
Era il 1967, e all’expo di Montreal veniva proiettato il primo film interattivo (se così possiamo dire): “Kineautomat”, del regista ceco Radúz Činčera. In determinati punti del film, la pellicola veniva interrotta e si chiedeva agli spettatori di scegliere una tra due scene per continuare. La più votata veniva proiettata, dando così modo al pubblico di poter influire sulla trama. È il primo esperimento di “interactive movie”.
Anni dopo nacquero i videogame, e furono molti i tentativi di farli coesistere con il cinema, ricorrendo alle più svariate tecnologie. Per molto tempo fu utilizzato il LaserDisc, il “padre” dei DVD, che forniva un’ottima qualità video per l’epoca, al quale venivano sovrapposte delle sequenze di gioco oppure permetteva al giocatore di effettuare delle scelte all’interno dei film per definirne lo sviluppo. Col passare degli anni fu inoltre sviluppato il Motion Capture (mocap), che ancora adesso è ampiamente usato.
Sul mocap è necessario spendere due parole: è una tecnica che sfrutta dei marcatori posizionati su tutto il corpo (e sul volto, all’occasione) di attori o atleti. Questi marcatori vengono ripresi da delle telecamere apposite che registrano i movimenti della persona e li digitalizzano, permettendo di sovrapporli ad un personaggio computerizzato. Volete degli esempi? Gollum, del signore degli anelli, è stato interamente realizzato così, esattamente come i movimenti dei giocatori di Fifa, e ce ne sarebbero tanti altri da citare.
Ma per quanto potessero essere all’avanguardia i supporti, per quanto potessero essere visionari gli sviluppatori, i mezzi tecnici erano semplicemente troppo poco potenti per poter davvero far dimenticare ai player di avere un joystick tra le mani. Cinema e videogame erano, ancora, molto distanti tra loro.
Bisogna arrivare a poco meno di dieci anni fa per trovare il primo gioco che riesce a trasportare per tutta la sua durata il giocatore nei panni del personaggio: Heavy Rain.
Per chi non conoscesse Heavy Rain, dei francesi di Quantic Dream, un riassunto velocissimo: il figlio di un architetto scompare misteriosamente in un parco giochi. Lui, una giornalista, un detective privato e un agente di polizia si mobilitano per ritrovarlo. Detta così la storia è banale e davvero viene da chiedersi come si possa svilupparci intorno un gioco. Sarebbe più un tema da film, e nemmeno dei più riusciti. Eppure è qui che parte la magia.
In Heavy Rain ci fu un lavoro eccezionale sul mocap facciale, specie nelle scene più “intime”, per poter riprodurre fedelmente le microespressioni che gli esseri umani fanno involontariamente quando provano un’emozione. Addirittura i movimenti degli occhi furono minuziosamente riprodotti, inclusi i cambi di dimensione della pupilla. A tratti il gameplay era un po’ macchinoso e lento, ma era paradossalmente un aspetto secondario.
Grazie al lavoro certosino fatto sui volti dei protagonisti, il giocatore era catapultato dentro alle emozioni dei personaggi. Ne provava il dolore e la paura, e prendere anche la più insignificante delle decisioni al loro posto era un’esperienza straziante.
Fu questa la forza che fece vendere più di quattro milioni e mezzo di copie in tutto il mondo e che fece fare man bassa di voti altissimi nelle recensioni. Si era finalmente riusciti a portare per la prima volta una peculiarità del cinema, forse la più importante, nei videogiochi: l‘immedesimazione totale.
Di lì a poco, nel 2011, uscì L.A. Noir, openworld noir ambientato nella Città degli Angeli nel 1947, sviluppato da Team Bondi e distribuito nientemeno che da Rockstar. E se anche qui le espressioni facciali avevano un gran peso, era nella regia complessiva che si trovava pane per cineasti. Un aspetto su tutti: i colori erano volutamente saturati durante le ore diurne, mentre di notte erano molto forzate le ombre e il color seppia. Chicca finale: si poteva scegliere di giocare interamente in bianco e nero, come se fossimo immersi in una pellicola proprio degli anni ’40.
Anche le inquadrature ricordavano molto i film di quegli anni, con una cura maniacale degli NPC che s’incontravano lungo la strada, trattati come vere e proprie comparse e vestiti fin nei minimi dettagli con costumi d’epoca.
Anche qui parliamo di più di cinque milioni di copie vendute.
Fu poi la volta di Beyond: Two Souls, sempre di Quantic Dream. Di nuovo mocap facciale, di nuovo emozioni intense, ma questa volta con un piccolo aiuto in più.
Beyond: Two Souls propone nei panni dei protagonisti la bellezza di due candidati agli Oscar, Willem Dafoe e Ellen Page.
Sono dei due attori, infatti, le voci, i volti e i corpi con cui interagiamo. Ai comandi di Jodie Holmes (Ellen Page) il giocatore è nuovamente gettato volta per volta in pasto alle sensazioni e alle emozioni che l’attrice restituisce meravigliosamente, immersa in una storia fantascientifica ma al contempo molto personale e umana.
Le inquadrature sono curate nei minimi dettagli, spesso tagliate in maniera tale da restituire la profondità di pensiero dei personaggi.
Un’altra cosa molto interessante di Beyond: Two Souls è la tipologia di scelte che spesso ci troviamo a fare. Sono scelte d’impulso, dettate da uno stato di stress della protagonista, e questo ci permette di percepire queste scelte non come “giuste o sbagliate”, “buone o cattive”, ma ci invita invece a percepirle come le scelte di una ragazza (o bambina) fragile e spaventata, dandoci la chiave per poterla comprendere ed entrare nei suoi panni fino in fondo.
A questi capisaldi moderni si vanno poi ad aggiungere altri giochi usciti in seguito. Per citarne uno, Detroit: Become Human (di nuovo di Quantic Dream, ormai specializzata nel settore).
Nel tempo si sono aggiunte varie figure professionali che possiamo trovare contemporaneamente nelle industrie di cinema e videogame, a tal punto che molti aspetti ormai sono trattati negli stessi modi.
Scenografia, luci, suoni, addirittura la coregrafia e la “gestione” delle comparse sono campi affrontati ormai con la stessa cura sia in un campo che nell’altro.
Prova ne è (o meglio dire sarà, se dovesse mantenere le aspettative) Afterlife, il primo Live Action interattivo per VR in uscita nel 2019 che abbiamo trattato più nel dettaglio in un precedente articolo, che promette di alzare ulteriormente l’asticella dello stato dell’arte.
Negli anni si sono susseguiti tantissimi tentativi di far coincidere cinema e videogame. Per molto tempo sono stati i mezzi tecnici a porre delle limitazioni, poi non si è riusciti a capire quale fosse la chiave di volta per riuscire a mescolare i confini nella mente dei giocatori. Finalmente anche questa chiave è stata trovata e siamo sicuri sia solo l’inizio di un’ascesa vertiginosa di questo genere, complici anche il perfezionamento della realtà virtuale e del 3D.
Chissà, forse in un futuro non molto lontano tutti i film saranno interattivi, facendoci vivere le esperienze dei protagonisti in prima persona. Una prospettiva interessante… o inquietante?