Recensire Outward è difficile tanto quanto approcciarsi al gioco per la prima volta. Durante le mie due partite ho rivalutato diverse volte il titolo prima di arrivare al giudizio di questa recensione. Apparentemente, infatti, siamo di fronte ad un prodotto spigoloso, macchinoso e frustrante.
Dopo qualche ora di gioco, invece, si comincia a interiorizzare le meccaniche di Outward; comprendendo la filosofia di gioco e il modo di approcciarsi alle diverse situazioni. Durante le nostre esplorazioni, infatti, non ci ritroviamo ad affrontare solo mostri e briganti, ma anche un mondo ostile e punitivo, in cui l’ambiente stesso può essere letale quanto un insetto gigante.
In poche parole, siamo di fronte ad un gioco di ruolo impegnativo, realizzato soprattutto per gli appasionati hardcore del genere. Le meccaniche sono difficili da capire, l’equipaggiamento può essere perso e il nostro eroe non è invincibile. Se pensi che il masochismo intrinseco in queste caratteristiche sia fantastico (come me, d’altronde), allora potresti aver trovato il gioco dei tuoi sogni.
Il viaggio dell’eroe?
Nella storia di Outward il giocatore veste i panni di una normalissima persona, condannata a pagare un “debito di sangue” dalla comunità del suo villaggio natale. Infatti, i suoi antenati hanno commesso un atto atroce, causando la morte di molte persone. Questo ha fatto ricadere un debito enorme sulla stirpe del protagonista, il quale si ritrova a dover pagare diverse migliaia di monete d’argento per un crimine avvenuto prima della sua nascita.
Cercando di racimolare la somma necessaria, il nostro eroe si imbarca in una spedizione in cerca di fortuna. Tuttavia, durante il viaggio di ritorno la nave si schianta contro gli scogli, naufragando. Questo causa la perdita di tutto il carico, costringendo il protagonista a ripartire da zero.
Il giocatore, quindi, prende il controllo del personaggio nei momenti successivi il naufragio. Dopo essere tornati a casa, una folla inferocita minaccia di toglierci l’abitazione, qualora non riuscissimo a pagare le monete d’argento arretrate accumulate durante il viaggio. Per questo motivo, abbiamo soltanto cinque giorni per racimolare la somma necessaria.
Con queste premesse, la trama di Outward ci lascia assoluta libertà. Abbiamo tantissimi modi per recuperare i soldi necessari: dalle classiche quest, alla ricerca di oggetti da vendere, passando per il loot reperibile in un accampamento di banditi. In ogni caso, una volta ottenuta la somma necessaria, la trama si dirama in ben tre direzioni differenti, scandite con chiarezza da altrettante fazioni di gioco.
Da qui, il giocatore può restare nella sua tribù, unirsi ad una crociata religiosa, oppure andare in una città-stato utopica, in cui la meritocrazia del singolo individuo viene prima di tutto il resto. Unirsi ad una fazione significa seguire una linea di quest completamente diversa dalle altre, con incarichi che seguono l’ideologia del nostro gruppo.
In ogni caso, la componente narrativa di Outward non è mai preponderante, ma resta sempre marginale. Completare una missione significa viaggiare per lunghe distanze e, in questi frangenti, possiamo imbatterci in rovine, incarichi, banditi, altre città e così via. Il mondo di gioco è pieno di stimoli e difficilmente si riesce a seguire una missione senza deviazioni. Che sia semplice curiosità data da una torre isolata, o vere e proprie quest secondarie, non importa: ci sarà sempre qualcosa da fare.
Proprio durante lo svolgimento delle side quest vediamo il primo difetto della produzione: il diario di viaggio non riporta tutte le indicazioni che possiamo ascoltare dai dialoghi con i PNG, ma solo una piccola parte di esse. Questo risulta in alcune descrizioni che, a volte, non ci consentono di capire con chiarezza dove dirigerci. Normalmente non sarebbe un grande difetto, ma in un gioco privo di indicatori, in cui orientarsi è fondamentale, questo tipo di descrizioni diventano vitali.
Inoltre, nonostante la libertà iniziale possa essere vista come un pregio, per alcuni giocatori questa caratteristicha può risultare in un mondo di gioco dispersivo in cui è difficile orientarsi e sapere dove andare. In sintesi: anche scegliere la prossima destinazione è una sfida. Questo può piacere tantissimo oppure essere odiato a morte, a seconda del tipo di giocatore che si approccia ad gioco.
Un viaggio pericoloso
Quando parliamo del gameplay vero e proprio, potremmo definire Outward un GDR vecchia scuola (dimenticati indicatori e punti esclamativi e prepara un taccuino per scrivere le indicazioni dei personaggi), con una pesante componente survival al suo interno. L’unione di quesi due generi ha portato ad una struttura di gioco punitiva e spietata, che non lascia spazio agli errori. Ogni azione deve essere ponderata per non incorrere nell’ennesimo svenimento del protagonista. Andiamo con ordine.
Come ho accennato poco fa, una volta usciti dal villaggio iniziale, ci ritroviamo in un mondo selvaggio esplorabile liberamente. La world map è divisa in diverse regioni, ognuna con le proprie peculiarità ambientali e climatiche e con alcune risorse sparse per la mappa. Ecco la componente survival di Outward. Il nostro avatar, infatti, è un normalissimo essere umano con un corpo che reagisce al clima, alla fatica e alle ferite. Per questo motivo, quando esploriamo occorre prestare attenzione elle necessità del personaggio.
Per esempio, camminare in mezzo alla neve senza un vestito adatto a proteggerci dal freddo, porta un malus dovuto alle basse temperature, il quale potrebbe portare a un raffreddore o, nel peggiore dei casi, allo svenimento. Lo stesso dicasi per un deserto rovente: indossare un’armatura di piastre quando ci sono temperature eccessivamente alte, significa subire gli effetti negativi del calore e, anche in questo caso, si potrebbe perdere conoscenza. Lo stesso concetto si applica per le zone umide, e così via.
A questo si aggiungono una lunga serie di possibili influenze esterne: essere morsi da una iena durante un combattimento potrebbe generare un’infezione da curare o il colpo di una spada potrebbe farci sanguinare. Tutti questi status sono curabili con appositi oggetti, oppure eliminabili riposando.
La componente survival non finisce qui: la necessità di bere, mangiare e riposare è sempre presente. Svolgere attività faticose, infatti, riduce progressivamente la stamina massima a nostra disposizione (necessaria per correre, attaccare e schivare) ed elimina gli effetti positivi di un buon pasto. Al contrario, dormire in un posto sicuro, mangiare e bere acqua potabile, portano a dei bonus estremamente utili e da tenere in considerazione. Trascurare tutto ciò, invece, ci farà essere meno efficienti in tutto e, come avrai già capito, nel peggiore dei casi porterà ad uno svenimento.
Quindi, come possiamo procurarci ciò che serve per non soccombere?
Con l’ottimo sistema di crafting presente nel gioco. Outward, infatti, offre al giocatore la possibilità di creare indumenti, armi e pietanze. Raccogliendo le risorse necessarie è possibile ottenere l’equipaggiamento più disparato o modificare quello in nostro possesso. Inizialmente il tutto è abbastanza semplice: per un vestito di pelle basta uccidere un animale qualsiasi. Allo stesso modo, per creare un bastone basta raccogliere il legno dagli alberi. Andando avanti, però si reperiscono formule più complesse, con ingredienti particolari. Inoltre, è possibile anche svolgere il procedimento contrario, smontando armi e oggetti per arrivare alle loro risorse basilari, da impiegare come meglio crediamo. In poche parole, possiamo ottenere del ferro grezzo da una spada corta, del legno da un bastone e così via.
Le formule citate poc’anzi, peraltro, sono necessarie per la creazione di ogni oggetto, dato che indicano le risorse da utilizzare. Lo stesso dicasi per le ricette da cucina.
Con un fuoco da campo, infatti, è possibile cuocere i cibi crudi reperiti nella natura per migliorarne gli effetti positivi o eliminarne determinati malus. Allo stesso modo, è possibile far bollire l’acqua non potabile per darci la possibilità di berla senza incorrere in malattie varie. Tutto ciò diventa più interessante quando si ha a disposizione una pentola o una cucina in piena regola. In questi casi è possibile combinare fino a quattro ingredienti contemporanemante (il fuoco permette di cucinarne solo uno per volta), creando pietanze più complesse e con effetti migliori.
Sia per la cucina, che per il crafting, è possibile combinare gli ingredienti in modo libero per cercare di scoprire in autonomia nuove formule. In caso di errore, tuttavia, le risorse utilizzate andranno perdute per sempre.
Come ogni buon survival che si rispetti, anche Outward ha un inventario. Che si tratti del fuoco da campo, di un’arma o degli ingredienti, non fa alcuna differenza: tutto va messo nello zaino o in tasca. Ogni oggetto che troviamo durante le nostre esplorazioni ha un peso specifico (chiaramente un’armatura di piastre pesa molto più di un semplice fungo). Per questo motivo, possiamo portare con noi un numero estremamente limitato di oggetti (dimenticati l’inventario senza fondo di giochi come Skyrim).
Lo zaino in cui riponiano l’equipaggiamento, tuttavia, può essere migliorato acquistando dei modelli migliori in grado di ospitare un peso maggiore. Inizialmente abbiamo solo una semplice borsa di pelle, ma andando avanti troveremo degli zaini professionali molto più capienti. Questo viene ad un prezzo: con uno zaino grande, le schivate diventano lente come la famosa Fat Roll di Dark Souls. Il modo più semplice per ovviare a tutto ciò è quello di buttare la nostra borsa a terra poco prima di un combattimento (c’è un tasto apposito per farlo), per poi raccoglierla dopo la fine.
Una volta lasciato lo zaino a terra, tuttavia, non avremo accesso a tutti gli oggetti contenuti al suo interno. Ecco che ci viene in aiuto il secondo inventario che ho citato poco fa: la tasca. Quest’ultima è sempre accessibile, ma può ospitare un peso estremamente minore rispetto alla borsa. Per questo motivo, è molto meglio inserire gli oggetti chiave al suo interno. Questa divisione tra i due tipi di inventario contribuisce a rendere Outward più realistico, imponendo al giocatore una pianificazione persino per quanto riguarda i suoi stessi oggetti.
Combattere per sopravvivere
Ecco che arriviamo ad una parte centrale di molte esperienze ruolistiche: il combattimento. In Outward combattere è estremamente rischioso e una nostra sconfitta può portare alla perdita di tutti i nostri oggetti. Proprio per questo motivo, ogni battaglia va pianificata e, in moltissimi casi, persino evitata. Di fatto, anche uno scontro vinto può concludersi con il nostro eroe in pessimo stato; magari per un’infezione da morso o per una lacerazione sanguinante.
Qualora dovessimo essere sconfitti, inoltre, il nostro alter ego si accascerà al suolo, portando ad uno svenimento. Successivamente, possono accadere le cose più disparate: una cacciatrice potrebbe salvarci e portarci in un posto sicuro, un dio misericordioso potrebbe decidere che non è ancora il nostro momento, oppure potremmo essere catturati da schiavisti e perdere tutto ciò che abbiamo addosso. In ogni caso, morire è pericoloso, dato che non sappiamo cosa ci aspetterà. Soprattutto, subito dopo essere respawnati avremo nuovamente bisogno di orientarci, data l’assenza di qualsiasi tipo di indicatore sulla mappa.
In ogni caso, ci sono momenti in cui le battaglie sono inevitabili. In questi casi abbiamo di fronte un combat system molto simile a quello sperimentato nei Souls, seppur meno rifinito. Con la pressione di un tasto possiamo agganciare un nemico per girarci intorno senza perderlo di vista. Per attaccare abbiamo a disposizione colpi leggeri e pesanti, combinabili tra loro in modi diversi. Tutto questo è relativamente lento, costringendoci a ponderare le nostre offensive per non restare esposti dopo un fendente andato a vuoto. Ogni azione consuma stamina: schivare, parare, correre, attaccare e utilizzare le abilità attive.
Queste ultime sono spesso legate ad una particolare arma (ad esempio, l’affondo può essere utilizzato solo con la spada e non con l’ascia o il bastone) e possono infliggere un numero ingente di danni in poco tempo o persino dei malus al nemico. Il loro utilizzo, tuttavia, richiede spesso animazioni lunghe, lasciandoci vulnerabili in caso dovessi mancare il colpo.
Oltre all’arma principale, il nostro eroe è in grado di impugnare un accessorio nella mano secondaria. Quest’ultimo può essere uno scudo, un pugnale o una torcia. Inoltre, le armi a due mani infliggono più danni ma occupano, appunto, entrambi gli arti. Proprio come nei Souls, poi, ogni arma può vantare un moveset specifico per la sua categoria, pertanto sta a noi scegliere quella che si addice maggiormente al nostro stile di gioco. Inoltre, nonostante inizialmente il protagonista sia sprovvisto di mana, è possibile ottenere quest’ultimo presso la cima di una montagna. In questo caso, tra le abilità attive vanno annoverate anche diversi tipi di magie, le quali vanno dalla classica palla di fuoco, fino a effetti più fantasiosi. Anche per quanto riguarda il loro casting occorre utilizzare degli oggetti particolari, al fine di amplificarne o modificarne gli effetti con dei sigilli posizionabili sul terreno. Qualunque sia l’approccio che scegliamo di utilizzare, il nostro posizionamento sul campo di battaglia farà sempre la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
Proprio durante le battaglie cominciamo a vedere i limiti di questo ambizioso progetto. Il sistema di combattimeno è davvero poco rifinito, risultando in situazioni che possono diventare frustranti. A differenza dei Souls, infatti, le hitbox dei nemici non sono sempre chiare come dovrebbero, portando il giocatore a colpire il vuoto (restando esposto un attimo dopo), quando invece dovrebbe danneggiare l’avversario.
A questo si aggiungono le animazioni legnose che caratterizzano tutta la produzione, le quali diventano deleterie quando si cerca di leggere le intenzioni dei nemici. Molto spesso risulta difficile capire se chi abbiamo di fronte stia per sferrare un attacco, data la poca cura riposta in questo frangente.
Sempre parlando dei combattimenti, occorre citare l’IA deficitaria riscontrabile in moltissime occasioni. I nemici, infatti, si limitano ad inseguirci in linea retta, senza considerare eventuali ostacoli in mezzo. Capita, quindi, di vedere un avvarsario correre imperterrito contro un muro o una roccia, nell’inutile tentativo di raggiungerci da quella direzione.
La parte ruolistica
In tutto questo si inserisce il sistema di miglioramento del nostro personaggio. Quest’ultimo costituisce l’intera componente ruolistica del titolo, insieme alla progressione data da oggetti sempre migliori. Nel gioco non abbiamo nessun tipo barra esperienza e di level up. Ciò significa che uccidere nemici e completare quest non ci porta nessun miglioramento personale. Questa scelta si sposa benissimo con la natura survival del titolo, dato che non impone di combattere per progredire: ogni battaglia è un rischio che il giocatore sceglie di prendere in base alla situazione e non per la pressione di dover “livellare” in qualche modo. Un’ottima idea, dato l’enorme rischio derivante da ogni combattimento.
Quindi, come si progredisce in Outward? Essendo una persona normalissima, il nostro personaggio deve addestrarsi dai maestri sparsi per il mondo. Questi ultimi ci propongono dei veri e propri alberi di abilità legati ad una particolare arma. Possiamo trovare le già citate abilità attive oppure delle passive estremamente utili e varie, che vanno dal classico aumento di stamina e salute, fino alla possibilità di portare lo zaino senza malus di schivata. La personalizzazione e progressione del protagonista, quindi, risiede qui. Il giocatore deve scegliere quale abilità acquistare, dato il costo estremamente oneroso di ognuna di esse. A questo si aggiungono i diversi tipi di armature, armi ed oggetti vari, i quali sono tutti fattori che definiscono un certo stile di gioco al posto di un altro.
La realizzazione tecnica
Ecco l’altro punto debole di Outward. La realizzazione tecnica del titolo, senza mezzi termini, è pessima. I modelli poligonali sono poco dettagliati, le texture sono sgranate, gli ambienti sono spogli e le animazioni legnose. L’unica parte decente del comparto tecnico è il sistema di illuminazione, il quale riesce a regalare qualche dungeon davvero bello da vedere e qualche panorama degno di nota.
Per fortuna, il comparto artistico riesce a risollevare l’esplorazione del mondo di gioco, proponendo un design dei nemici vario ed originale, nonchè delle ambientazioni belle da vedere.
Il comparto sonoro è altalenante: alcuni effetti audio ascoltabili durante le fasi di gameplay sono migliorabili. Dall’altra parte, abbiamo delle musiche superlative che riescono a donare maestosità alle diverse ambientazioni esplorabili.
Per concludere
Outward è un titolo creato appositamente per gli appassionati dei giochi di ruolo hardcore vecchia scuola, in cui per seguire una missione occorre scrivere a mano le indicazioni fornite dai PNG. Le meccaniche survival sono punitive e intransigenti, la gestione dell’inventario è poco permissiva e i combattimenti sono difficili da padroneggiare.
Nonostante queste premesse semplicemente incredibili, però, il titolo subisce il peso di una realizzazione tecnica non eccelsa. I combattimenti, già rischiosi, possono diventare frustranti a causa delle pessime animazioni e delle hitbox non sempre precise. A questo si aggiunge un’IA deficitaria che rovina l’immersione e un comparto grafico troppo datato, che risulta in un mondo di gioco spoglio e in alcuni rallentamenti sporadici.
In ultimo, la difficoltà estremamente ripida potrebbe scoraggiare moltissimi giocatori, abituati ormai a videogiochi più accessibili e meno impegnativi. Tuttavia, se cerchi un titolo hardcore molto profondo e sei disposto a ignorare i difetti citati, allora Outward potrebbe essere il gioco dei tuoi sogni.