Forse definire Gun Gun Pixies come una sorta di Mega Man di Alvaro Vitali non è del tutto onesto: sono stato un po’ cattivo ad insultare indirettamente delle avventure iconiche come quelle di Pierino. Quel che è certo è che vedere nel proprio pedigree, tra i tanti team di sviluppo coinvolti (che di solito non è un buon segno), fare capolino il nome di Compile Heart alza parecchio le aspettative, e non solo quelle visto il tipo di gioco che andiamo a recensire. Ma mentre la geniale satira sulle console wars donataci da Compile Heart con la serie Neptunia era un gioco di ruolo, questa volta il genere è diverso: uno sparatutto che, se fosse stato edito anch’esso da Sega, sarebbe risultato in un gioco di parole capace di farmi perdere al volo il mio posto di redattore.
Diario del capitano, data stellare 6 settembre 1969
La trama, se così la si può definire, consiste in un duo di ragazze venute dal lontano pianeta Pandemo per studiare gli usi e i costumi – soprattutto i costumi – della società terrestre in seguito all’apparente collasso della loro. I valori dei pandemoniani di amicizia e cooperazione sembrano aver ceduto il posto all’individualismo. Questa disastrosa apatia, per farla breve, porta le due peggiori nuove leve delle forze dell’ordine di Pandemo, la dipendente da endorfine Bee-tan e la relativamente sana di mente Kane-pon, a venire “punite” con una ricognizione sul pianeta Terra, dove a quanto pare siamo tutti degli stinchi di santo da cui prendere esempio. Si vede proprio che è finzione.
Giunte sul pianeta raggiungono il dormitorio tutto al femminile (ovviamente) di Lilypad e le sue tre coinquiline, ovvero le sorelle dai nomi citazionisti Kira e Misa e la perennemente insicura Amayo. Unico dettaglio… i terrestri sono grandi dieci volte i pandemoniani, così starà a noi farci strada tra i giganteschi mobili del dormitorio senza farci vedere. In pieno stile Star Trek, ogni interazione con forme di vita di un altro mondo è strettamente proibita, ma qualcuno dovrà pur risolvere i piccoli problemi di ogni giorno, no? In mezzo alle sciocchezze quotidiane, ci sono anche accenni a una trama più seria con il disturbo alimentare di Amayo, che però stonano con lo stile altrimenti scanzonato della trama, come spiegherò alla fine. Tu avrai il compito di stimolare il rilascio di endorfine per ogni ragazza (ovviamente, di nuovo) per farle dimenticare i propri problemi. E come si fa? Se la risposta che ti viene in mente è quella che ti sta facendo ridacchiare in questo istante, sei fuori strada: è peggio.
Dritti dritti nell’azione!
Veniamo subito sbattuti in mezzo all’azione con una sorta di tutorial: un esordio dove siamo subito alle prese con Amayo mentre sta facendo yoga, in intimo, per qualche motivo. Sullo schermo vediamo il nostro personaggio, Bee-tan, impugnare una pistola. Probabilmente stai immaginando uno scenario à la Shadow Of The Colossus, ma di nuovo, sei fuori strada.
Quello che sparano le nostre protagoniste sono gli “Happy Bullets”, ovvero una sorta di concentrato di estrogeni con cui… stimolare, diciamo, le varie gigantesse che ci si parano davanti, fino a raggiungere un climax (narrativo, come sempre) che pone fine a questa fase. Si scoprirà più avanti che il gameplay non consiste solo in questo, quando lo stesso scenario ci riproporrà questo bizzarro scontro nel contesto di una boss fight di fine capitolo.
Le conversazioni del gioco vengono gestite con un carismatico stile da visual novel, presentando talvolta anche dialoghi ramificati come in questo genere oltre ai consueti, e graziosamente animati, ritratti. Da questo punto di vista, il gioco trasuda uno stile squisitamente nipponico. Il fascino che ne deriva, purtroppo, va inevitabilmente a perdersi quando i dialoghi, che trovano sempre il modo più lungo di ribadire lo stesso concetto, vengono ripetuti a ogni nostro fallimento, ma ne riparleremo più avanti. Il problema immediatamente evidente è il gameplay, in quanto la prima missione successiva al tutorial da noi affrontato mette in mostra l’esplorazione, accompagnata da una telecamera pietosa (regolabile nelle opzioni ma ingestibile nelle strettoie), insieme alla componente stealth precedentemente implicata dall’obbligo delle due pixies di non farsi vedere nella trama.
Il “Maiden Sensor” è sempre pronto a metterci all’erta non appena veniamo captati dalle titaniche coinquiline con le sue due barre: una a sinistra, se finiamo nel campo visivo delle ragazze, e una a destra, se invece facciamo troppo rumore. Abbiamo inoltre l’opzione di premere un tasto direzionale per metterci in una posa plastica, e un altro con il quale gattonare, con un’assolutamente accidentale primo piano dei cosmici fondoschiena delle protagoniste. A completare il tutto, la possibilità di saltare apre la strada a un platforming a cui l’arredamento della casa è naturalmente predisposto, ma che si traduce in salti goffi e imprecisi che a più riprese si traducono in rovinose cadute sul pavimento, riportandoti al punto di partenza più volte di quanto non vorresti. Per fortuna, almeno i danni da caduta non sono presenti.
Ogni volta che si viene colpiti, in seguito a un’animazione di rito (gemiti e rossore facciale inclusi) ci si ritrova prima con i vestiti strappati, poi in intimo, e infine in uno stato di salute critica che corrisponde a mutandine e reggiseni convenientemente sostituiti da luce. Ognuna delle tre stanze presenta punti dove curarsi a piacimento, dove una volta che il comando “cura” ci fa il sacrosanto piacere di comparire si torna in maniera abbastanza rapida al proprio stato di salute (e di vestiario) naturale.
Ognuno di questi elementi, come armi, mirino a distanza, vestiti e, chiaramente, intimo, si può personalizzare tramite un negozio in cui spendere i gettoni sparsi per i vari livelli. In seguito alle tediose fasi di esplorazione, in cui i bersagli si alternano tra le inquiline ed improbabili polipi (mancavano solo i tentacoli, no?) come nemici di base.
Abbiamo i già citati boss, dove però l’azione si traduce in interminabili scontri dove i vari spari, intervallati a noiosi caricamenti dell’arma e alle consuete ricerche di munizioni, lasciano spesso il posto alla fuga dagli attacchi che le ragazze terrestri sferrano involontariamente compiendo le più semplici azioni quotidiane, come fare yoga o gustarsi un calippo mentre si cavalca un toro meccanico (non farti domande). Il “gioco bonus” che conclude ogni capitolo consiste in una classica “scena del bagno caldo” in puro stile anime, dove sparare alle ragazze – quanto accidenti suona male questa frase – fa comparire tante monete extra a bordo vasca, da raccogliere entro lo scadere del tempo.
Il menù della “base operativa” delle protagoniste comprende, oltre al negozio menzionato prima, anche la possibilità di rigiocare i livelli già completati nel “free play”, se proprio lo si ritiene opportuno; questa modalità include anche sfide extra che alzano il livello di difficoltà. Le armi aggiuntive possono cambiare la velocità con cui sparerai i proiettili, ma visto il già zoppicante ritmo del gioco mi chiedo a cosa possa servire qualsiasi arma da fuoco che sostituisca le raffiche con gli spari singoli.
Uno degli elementi che castra completamente questo gioco tutto pepe è il padding: ogni cosa che può venire tirata per le lunghe, lo fa. Non a caso ho parlato di “problemi ingigantiti” e di “interminabili scontri”: nel primo caso, i dialoghi sfoggiano con fierezza una fastidiosa tendenza a ribadire ogni singola sfaccettatura di un dato argomento, mentre nel secondo ogni punto del corpo delle donzelle ha una sua barra dei danni che richiede fin troppi colpi per riempirsi. Le mie divertite risatine, mentre lo giocavo, hanno ben presto lasciato il posto agli sbadigli.
“Son of a glitch”: il culmine della recensione
Tecnicamente, il gioco non presenta chissà quali problemi: il motore grafico regge bene, lo sforzo (non eccelso) che il titolo richiede e le tre stanze principali del dormitorio mostrano un level design quantomeno interessante, mentre le texture talvolta sfocate possono rievocare piacevoli ricordi dal gioco di Toy Story 2 per PlayStation e Nintendo 64 o stonare rovinosamente con il resto del gioco, a seconda di come le guardi tu.
L’occasionale glitch (soprattutto con gli hitbox dei muri invisibili del tutorial, programmati in modo dozzinale) può saltare fuori di tanto in tanto, ma nulla per cui mettersi le mani nei capelli. Così come le finestre di dialogo, anche la colonna sonora mostra un ispirato stile cyberpunk nipponico à la Mega Man Zero, tant’è che in alcuni casi sembra di avere un titolo Inti Creates tra le mani. Ci pensa il resto a ricordarci che non abbiamo questa fortuna.
La noiosa logorrea del gioco influisce disastrosamente sul resto di Gun Gun Pixies grazie al fatto che ogni fallimento, sia esso dovuto al farsi cogliere in flagrante o al finire “a culinaria” con la salute, ci riporta a doverci sorbire gli eterni dialoghi del gioco ogni. Santa. Volta. Capisco che l’aggettivo “palloso” si dimostri adatto al contesto osé del titolo, ma ogni singolo difetto che sto elencando, per quanto piccolo, è un mattoncino che dà forma a un monumento dedicato al cattivo game design. Non che sia un problema, per un titolo scaricabile dall’eShop che si aggira sulla fascia di prezzo dalle venti cucuzze in giù, se non fosse che questo port di un titolo per PlayStation Vita è invece un titolo retail venduto intorno ai cinquanta euro: un rapporto qualità/prezzo di questo tipo scaraventerebbe il voto di qualsiasi gioco sotto la soglia della sufficienza. Ops.
Il fatto che il gioco presenti tematiche serie come il toccante disturbo alimentare di Amayo e delle sue cicche dietetiche, con una morale anti-anoressica di fondo, è tristemente emblematico del quadro d’insieme: il gioco non sa da che parte stare nel tono con cui si pone. Sta facendo del fanservice squisitamente becero, oppure intende farci affezionare alle ragazze e non alle loro curve? Non sto dicendo che fare entrambe le cose sia impossibile, ma richiede un tatto e una sapienza sia nel game design che nella sceneggiatura (Catherine esiste, ma non tutti hanno l’estro di Atlus), e questo gioco pecca clamorosamente in entrambe le categorie.
Molte altre recensioni hanno stroncato Gun Gun Pixies, basandosi però anche su una pudicizia e su pregiudizi capaci di distorcere l’imparzialità del recensore. Io sono italiano, e come tale non dispongo di questo handicap, ma non per questo posso lodare un gioco così appesantito da troppi altri difetti. Di certo, più umorismo autoreferenziale in stile film di Edwige Fenech e meno sindrome da “foto profilo sexy accompagnata da citazione colta” avrebbe giovato a questo titolo abbastanza da farlo arrivare quasi al “sei politico”; al di fuori di un doveroso sconto, però, questo titolo tutto in inglese non può che crollare come un castello di carte – prova a usarle per giocare a strip poker, potresti divertirti di più – .