Nell’episodio precedente di Nintendo Unplugged, abbiamo visto gli albori ottocenteschi di Nintendo, quando Fusajiro Yamauchi fondò la compagnia sotto il nome di Nintendo Koppai per produrre artigianalmente un tipo di carte da gioco chiamate Hanafuda. Il secondo gestore, suo genero Sekiryo, affidò al proprio nipote Hiroshi la gestione di Nintendo in punto di morte. Ci siamo interrotti definendo controversa la gestione di Hiroshi Yamauchi, ma anche lungimirante. Ripartiamo da questo punto per scoprire le implicazioni di questo ossimoro.
Il re è morto, viva il re
Proviamo ad immaginare un ragazzo giovane, di belle speranze, ritrovarsi al volo a capo di un impero prima di quando si sarebbe mai ritenuto pronto. Come avrebbe mai potuto, questo giovane principe, ottenere il rispetto, per non dire la venerazione, che il vecchio sovrano aveva saputo costruirsi col tempo? Nel caso di Hiroshi, non lo fece. Licenziare chiunque non avrebbe visto di buon occhio la sua gestione si rivelò più semplice, per poi bissare il successo con i collaboratori del nonno e istituire una regola interna all’azienda: solo uno Yamauchi per volta avrebbe lavorato per Nintendo, onde troncare sul nascere ogni nepotismo.
Il prossimo cambiamento sarebbe arrivato cambiando il nome della neonata Marufuku Co. in Nintendo Playing Cards Co., per poi fondere le due compagnie e trasferire gli uffici. L’aria era indubbiamente cambiata, ma l’approccio in stile Dolores Umbridge avrebbe anche avuto bisogno di fortunate intuizioni imprenditoriali per stare in piedi. Intuizioni che, per fortuna, non tardarono ad arrivare, partendo dalle carte stesse.
Al tempo, in occidente le carte erano ormai plastificate di default: che esempio avrebbe dato Nintendo se non avesse fatto lo stesso? Ecco dunque che, nel 1953, l’impero degli Yamauchi si ritrovò pioniere nella creazione di carte plastificate, ma la vera svolta ludica avvenne con un’illuminazione tre anni dopo, in seguito a una visita da parte di Hiroshi alla U.S. Playing Cards, la più grande casa produttrice di carte da gioco in America.
Lo scopo del viaggio era quello di apprendere un po’ di rudimenti di imprenditoria occidentale, ma a colpire Yamauchi fu la natura minuta, ridotta, a tratti quasi umile degli uffici della compagnia d’oltreoceano. Non c’erano dubbi in merito: Nintendo, per quanto potente nel suo ambito, non avrebbe avuto chissà quali potenziali di espansione. Fu questo a convincere l’ambizioso neopresidente ad alzare il tiro nel 1959, quando Hiroshi decise di mettersi in affari con il principale colosso dell’intrattenimento occidentale: nientemeno che Disney.
Un po’ per discostarsi dall’immagine associata alla malavita, e un po’ per coinvolgere un nuovo target di giovanissimi, Nintendo iniziò a produrre carte hanafuda recanti le effigi dei personaggi Disney. Con l’aiuto dell’appeal universale di questi ultimi, una campagna pubblicitaria intelligente e il supporto mediatico della TV, ecco che Nintendo riuscì ad accaparrarsi oltre seicentomila vendite di carte in un anno; l’equivalente di come, a fine anni duemila, Nintendo riuscì ad espandere la sua clientela videoludica a un pubblico di genitori e persino di nonni. Due anni dopo, la partnership con Disney valse a Nintendo la sua effettiva entrata in borsa. Non male, per un’azienda originariamente votata alla nicchia del gioco d’azzardo.
Di certo, il concetto di nicchia andava stretto a Hiroshi Yamauchi, tanto da sbarazzarsi in seguito del sottotitolo “Playing Cards” di Nintendo che, a sua volta, si ritrovò di colpo ad avere il nome con cui la conosciamo oggi. Le strade più disparate e tortuose vennero tentate negli anni sessanta, tra il riso istantaneo e la compagnia di taxi chiamata Daiya. Nel 1969, però, venne la svolta.
“For a century, they grew and planned to discover just what sells / making vacuums and Ultra Hand and love testers and love hotels”
I tanti investimenti Nintendo di questi anni mostrano quasi una “crisi d’identità” durante la gestione di Hiroshi Yamauchi: è stata persino battuta, a inizio anni sessanta, la strada dei “love hotel”. Ci dilungheremmo volentieri sulle questioni di semantica non del tutto dissimili a quelle che separano il concetto di geisha dal grezzo significato che noi occidentali attribuiamo alla parola, ma gli hotel dell’amore servivano esattamente a ciò che implica il nome: si trattava di alberghi ad ore.
La parte “divertente” dell’ingresso in borsa da parte della Grande N consistette nel guadagnarsi un nuovo pubblico di potenziali detrattori: gli investitori. Tralasciando il sarcasmo che i più maliziosi tra questi ultimi avrebbero potuto dispensare nei confronti degli investimenti di Nintendo in una catena di motel, quelli meno intenti a ridacchiare alludevano al fatto che i dirigenti dell’azienda leader nel settore delle carte da gioco trovassero un tornaconto nel poter alloggiare a sbafo all’interno delle strutture. Non che Hiroshi Yamauchi fosse il tipo da farsi abbattere da due o tre malelingue in giacca e cravatta, sia chiaro.
Nel 1963 – arriveremo anche alla svolta sopra citata – Nintendo aprì il suo primo dipartimento di ricerca e sviluppo, battezzato con un laconico “games”. Non si tratta di quel tipo di “games”, o almeno non ancora, ma ci siamo quasi: stiamo parlando di giocattoli. A fare da apripista a questo nuovo tipo di prodotto fu il Rabbit Coaster, una pista per macchinine su rotaia, nella quale figuravano mostri sulla falsariga di King Kong e Godzilla. My Car Race, secondo giocattolo creato da Nintendo, riprendeva la stessa idea, applicandole però la stessa elettricità che oggi consideriamo inscindibile dalle macchinine su rotaie.
E poi, nel 1969, avvenne uno storico incontro nell’ufficio di Hiroshi Yamauchi, quando quest’ultimo convocò al proprio cospetto uno dei pionieri dell’industria videoludica nipponica, sebbene nessuno dei due, al tempo, lo sapesse. La giovane promessa era un semplice addetto alla manutenzione dei macchinari, ma con il pallino dei gadget e dei giocattoli: parliamo di Gunpei Yokoi. Se dovessi dire che Yokoi fa rima con Game Boy, non è solo per un gioco di parole, ma è un autentico dato di fatto. Questo incontro fu il germoglio creativo a cui dobbiamo la fioritura dell’industria videoludica portatile in toto.
A catturare l’attenzione di Yamauchi fu l’estro creativo di Yokoi e, con esso, l’utilizzo di un braccio meccanico per scopi più ricreativi, tant’è che Gunpei Yokoi venne sorpreso spesso a giocarci durante le pause pranzo. Lo scopo della convocazione divenne presto lampante: questo braccio meccanico avrebbe dovuto trasformarsi in un giocattolo a tutti gli effetti. Hiroshi Yamauchi ebbe l’intuizione, o per meglio dire, la sensazione che questo tipo di prodotto avrebbe avuto un ottimo potenziale nel mercato ludico. Il presidente di Nintendo non aveva idea che, a dargli ragione, nel 1970 sarebbero arrivati i proventi di ben un milione di vendite del neonato giocattolo.
L’Ultra Hand si basava su un concetto semplice: un braccio allungabile in plastica con cui afferrare oggetti da lontano. Oggigiorno, questo piacevole ricordo dell’era “videoludica senza video” di questa Nintendo in salsa “unplugged” fa parte di un passato glorioso in cui Nintendo ama crogiolarsi in ogni episodio di WarioWare. Eppure, nella sua semplicità, l’Ultra Hand seppe farsi accogliere a braccia aperte dal pubblico nipponico, salvando prontamente Nintendo dalla crisi finanziaria dovuta agli investimenti più sfortunati. La parentesi dei motel era definitivamente chiusa.
Ma al di fuori dei suoi cameo in Mario Power Tennis, in Mario Kart 8 e nella serie Animal Crossing, l’Ultra Hand era solo l’inizio. Il titolo di questa tappa del nostro viaggio allude anche ai Love Tester, il secondo grande successo targato Gunpei Yokoi. A rendere significativi i consensi riscossi sul mercato era la natura del “giocattolo” di fare da catalizzatore per i costumi schivi e pudici della terra del Sol Levante: per usare il Love Tester era infatti necessario tenersi per mano.
Nel 1972 anche le carte da gioco della compagnia ricevettero un po’ di pepe, con un mazzo di carte francesi recante una pin-up diversa su ogni combinazione tra numeri e semi. Non sarebbe stato il primo né l’ultimo caso di mazzi di carte in stile Playboy, ma vedere questo tipo di prodotto provenire dalla stessa azienda oggi meglio nota per essere la più “fanciullesca” delle tre colonne portanti dell’industria sorprende tuttora. L’umorismo, a chi aveva congegnato il mazzo, di certo non mancava: aprendo la confezione, la ragazza vestita raffigurata all’esterno si sarebbe ritrovata, nello strato sottostante, di colpo “desnuda”.
La “storia di giocattoli” che venne prima dello “spaccatutto” videoludico
Così come abbiamo spezzato un po’ il ritmo con la parentesi bellica qualche paragrafo fa, credo sia doveroso parlare di alcuni dei giocattoli creati da Nintendo negli anni sessanta e settanta, partendo dalla loro versione dei LEGO.
Ebbene sì, nel 1969 inaugurò una linea di mattoncini ad incastro chiamati N&B ed ebbe particolare successo nella decade successiva. Non c’è molto da dire, si tratta a grandi linee di un’idea del tutto analoga a quella dietro al famoso giocattolo danese, ma a livello storico le confezioni della linea N&B presentavano una chicca per gli appassionati Nintendo: una variante esagonale del logo dell’azienda, prima che questo cedesse il passo alla versione che tutti noi conosciamo oggi.
Nel 1970 la Grande N produsse una sorta di versione preliminare del Dolce Forno, anche se di stampo più monotematico. Trattasi della Candy Machine, mirata unicamente alla creazione in casa dello zucchero filato. Rimane tuttora un prodotto reperibile ovunque. Sappiamo tutti il funzionamento delle macchine per lo zucchero filato, ma non tutti sanno che l’invenzione in sé fu attribuita al dentista William James Morrison (fine ottocento); Gunpei Yokoi ebbe solo l’intuizione di renderla un giocattolo.
Il 1971 vide l’introduzione di ben tre giocattoli, il primo dei quali, il Light Telephone, si rifà ad un’invenzione altrui tanto quanto la Candy Machine. Nello specifico, il fotofono di Alexander Graham Bell, la cui idea di base sfrutta un raggio di luce per trasportare il suono, per quanto strano sembri. Il raggio di luce in questione viene poi a sua volta captato da un microfono montato su una torcia. Al di fuori del suo funzionamento, si trattava praticamente di un walkie talkie, il cui costo elevato lo rese un flop: un vero peccato, perché anche qui Yokoi aveva tra le mani qualcosa di potenzialmente divertente.
Il secondo giocattolo risalente al 1971 fu l’Automatic Ultra Scope, un piccolo periscopio estensibile contenente un piccolo motore elettrico. Non ebbe lo stesso successo dell’Ultra Hand del 1966, ma di certo seppe accattivarsi una nicchia fatta di bambini (sia per la sensazione di “giocare alle spie” sia per il fatto di poter estendere il proprio campo visivo oltre la folla, qualora ce ne fosse il bisogno ovviamente) e di genitori intrigati da un’idea tanto complessa per un semplice giocattolo.
L’ultima tappa del 1971 consiste in Space Ball, nato dalla mania per lo spazio che l’allunaggio innescò due anni prima. Si trattava di una sorta di trottola antigravitazionale: con il martello contenuto nella confezione, si poteva lanciare – appunto – una trottola in aria per poi farla ricadere in uno dei fori dell’apposita base di sostegno. Nulla di eclatante, ma l’idea è stata ripresa anche in seguito da altri giocattoli similari.
Il 1972 segnò il debutto dei bonghi giocattolo, trentuno anni prima che Nintendo rivisitasse la stessa idea con Donkey Konga. Il risultato fu Ele-conga, frutto stavolta di un’idea di Yamauchi più che di Yokoi. La superficie di ogni tamburo comprendeva cinque pulsanti, corrispondenti ad altrettanti strumenti (tamburo rullante, maracas, battito di mani, conga “alte” e conga “basse”), mentre il manuale conteneva veri e propri spartiti. In aggiunta a questo, una base montabile permetteva la lettura di dischi forati e, con essi, anche dei brani preimpostati. Con la sua compatibilità con gli amplificatori mediante un jack, questo giocattolo poteva essere usato anche come strumento musicale vero e proprio, ma così come Donkey Konga anni dopo, l’Ele-conga non si rivelò ispirato come altre intuizioni di Yamauchi.
Nel 1974 invece ebbe inizio la tradizione del modellismo che Nintendo, nella sua patria almeno, continua a tenere in auge ancora oggi. Così come Ele-conga fu un precursore concettuale di Donkey Konga, la serie Paper Model anticipava sui tempi Nintendo Labo: si trattava di modellini automobilistici di cartone. La loro linea contemplava quaranta esemplari, ed ebbe un seguito nei modellini radiocomandati come Mach Rider (il cui radiocomando aveva una leva del cambio), da cui avrebbe in futuro preso il nome l’omonimo titolo per NES, e Lefty RX.
Due anni dopo fu il turno di Duck Hunt. No, non sto parlando del titolo incluso con i bundle del NES insieme a Super Mario Bros.: si trattava proprio di una versione preliminare del simulatore di caccia all’anatra. Il funzionamento prevedeva l’uso di un proiettore per visualizzare le anatre su una parete, mentre una pistola alimentata con una batteria riusciva a captare i colpi andati a segno. Qualcosa di impressionante, visto che stiamo parlando del 1976.
Il giocattolo più famoso di Nintendo prevideoludica però è indubbiamente Chiritorie, classe 1979. Si trattava di una specie di robot aspirapolvere come se ne vedono ovunque oggigiorno, con l’aggiunta però di un meccanismo di rotazione non appena l’aspirapolvere circolare veniva acceso. Con un telecomando, poi, si poteva sostituire il moto rotatorio con uno slancio in avanti: un’idea concettualmente identica ai barili cannone rotanti visti nei vari Donkey Kong Country. Il risultato fu un gioco divertente, ma se usato come aspirapolvere vero e proprio richiedeva la pazienza di un santo. Il Chiritorie avrebbe fatto una comparsata, come molti altri prodotti di quest’era di Nintendo, nella serie WarioWare.
L’ultimo giocattolo tradizionale di Nintendo sarebbe arrivato nel 1983 con Crossover, l’ultima idea di Gunpei Yokoi prima di dedicarsi anima e corpo all’allora imminente futuro videoludico della compagnia. Crossover era un puzzle meccanico piazzato in una griglia di sedici caselle divise in quattro righe e quattro colonne: ai giocatori veniva dato il compito di scorrere le tessere del puzzle avanti e indietro.
Dopo questo catalogo di giocattoli anni ’70, però, il nostro viaggio si ferma di nuovo: l’appuntamento è per la terza puntata, dove il fattore elettronico si legherà indissolubilmente alla Nintendo puramente “ludica” una volta per tutte. Alla prossima!
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