La nostalgia è un’arma potente. Ce lo sta dimostrando quella che passerà alla storia come l’era dei remake e dei remaster, oltre che degli indie a 8-bit. In realtà, però, quest’ultima veste di “gioco per NES fuori tempo massimo” è paragonabile all’effetto che il compianto Robin Williams sortiva nei film in cui appariva: quelli buoni venivano avvalorati dalla sua presenza, quelli pessimi invece peggioravano.
Ed è qui che entra in gioco Sydney Hunter and the Curse Of The Mayan, un platformer vecchio stampo in ogni accezione del termine. Piombato sul Nintendo eShop come un fulmine a ciel sereno, questo platformer, tenendo fede al tema precolombiano, si presenta come un reperto di un’era ormai considerata antica, nel bene e nel male. Scopriamolo insieme!
Mega Mayan
La trama, come per ogni videogioco dell’era 8-bit, è “presente ma non importante”, seppur intrigante nel suo modesto minimalismo. Per quel che l’incipit puramente anglofono ci fa intuire, Sydney Hunter, ovvero Indiana Jones in tutto ad eccezione del nome (e Mario in tutto ad eccezione dei baffi), vede la propria esplorazione del polmone verde d’America giungere a un punto morto quando si trova intrappolato in un tempio appartenente a una delle civiltà antiche meno considerate della finzione: quella precolombiana.
Nella fattispecie, parliamo di una piramide maya, dove il dio del sole Kinich Ahau e il serpente piumato Kukulkan hanno rotto il sacro calendario Maya Haab in sette differenti frammenti e rubato quattro preziosi idoli, nascondendo il tutto nei vari anfratti del mausoleo. Tutto questo avviene durante i giorni del Wayab, ovvero i cinque giorni più scalognati dell’anno.
Dopo averlo infarcito di insulti fingendosi incapaci di parlare la sua lingua, gli autoctoni chiedono al nostro avatar, Sydney Hunter, di risolvere la situazione, e il protagonista, in un misto tra l’essere intrappolato nella piramide e il non avere molto di meglio da fare, accetta eroicamente la chiamata del destino.
Il gioco non si nega nemmeno un po’ di umorismo autoreferenziale, giocando sull’assurdità tipica dei giochi dell’epoca. Quando il gioco si lancia in questi exploit “deadpooliani” assume un significato tra le righe che gli attribuisce un’identità unica, con la quale cliché e convenzioni narrative tipiche dei platformer vengono bellamente messi alla berlina.
Aztecvania
Un po’ come le serie Saints Row e Just Cause sono viste come una sorta di anti-Grand Theft Auto in modi differenti, allo stesso modo Sydney Hunter and the Curse Of The Mayan rappresenta un’antitesi spirituale di Shovel Knight. Siccome tuttavia persino chi ha giocato tutti i titoli citati potrebbe rimanere perplesso leggendo queste righe, ora andiamo ad illustrare esattamente quello che intendiamo.
Abbiamo già definito questo gioco un platformer alla vecchia maniera. Per andare nello specifico, Sydney inizia la sua avventura armato della sua frusta e con una salute consistente in tre cuori; al terzo colpo subito, veniamo riportati all’inizio del livello senza troppe cerimonie. In nostro soccorso viene in aiuto un numero di vite infinito, e pertanto inesistente. Quando un sistema basato su un numero limitato di vite viene a mancare, i casi sono due: o il gioco non ne ha bisogno come avviene in Super Mario Odyssey, o siamo di fronte a un caso di “ci mancherebbe anche” come nei vari Oddworld. Manco a dirlo, è un “ci mancherebbe anche”: la difficoltà sa essere punitiva, brutale e impenitente ogni volta che le aggrada.
Il level design è dove la natura del gioco viene a galla: in particolare, abbiamo a che fare con una struttura a livelli simile a quella di Mega Man, se consideriaamo l’idea di un livello grande, tematico e diviso in molteplici schermate, dove l’unico scorrimento consiste nel passaggio da un diorama all’altro. La mancanza di linearità, però, denota piuttosto una notevole influenza da parte di Castlevania, insieme ad un backtracking costante e una continua cornucopia di segreti nascosti in ogni parete che la nostra frusta può radere al suolo.
A testimonianza della difficoltà del gioco abbiamo i checkpoint, che qui vengono promossi al rango di effettivi punti di salvataggio in stile Dark Souls: non solo verremo riportati qui una volta esauriti i nostri cuori, ma una volta raggiunta la statua (con cui possiamo anche curarci) nulla ci vieta di uscire dal gioco, permettendoci dunque di affrontarlo bene o male al nostro ritmo. Purtroppo, il level design prende da Castlevania una componente “labirintica”, ma non le mappe che vengono con essa: capita spesso con Sydney Hunter di morire a pochi centimetri dal punto di salvataggio più vicino.
I livelli si dividono in due tipi: alcuni, come il primo, sono più brevi e servono a recuperare gli idoli rubati menzionati nella precedente sezione di questo articolo, mentre gli altri – contenenti le parti del calendario – seguono la struttura tematica in stile Mega Man e sono molto più lunghi. In entrambi i casi i livelli prevedono uno scontro con un boss al loro termine: un generico teschio “guardiano del portale” per quelli brevi, e una specie di robot master per quelli più lunghi, senza mai venire meno al tema portante del tempio in questione.
Lo zaino dell’avventuriero
Gli oggetti collezionabili del gioco, oltre ai vari gioielli che ricordano molto Shovel Knight e che svolgono il ruolo di valuta, sono i teschi di cristallo: nonostante la loro natura di citazione costante al film di Indiana Jones più controverso di sempre, non avremo a che fare con esplosioni atomiche dalle quali nasconderci mediante i frigoriferi. (Probabilmente.) Piuttosto, i teschi di cristallo rappresentano una sorta di coupon con il quale sbloccare gradualmente l’accesso ai livelli successivi, in maniera non dissimile dalle classiche sfere di Spyro 2.
Il gioco ci porta anche un hub centrale da cui accedere ai singoli livelli, che al suo interno presenta anche negozi nei quali spendere i gioielli raccattati in giro. Possiamo acquistare oggetti monouso come le chiavi (divise in quattro colori, in maniera non dissimile dalla buon’anima di Commander Keen), con le quali bypassare la loro ricerca negli stessi livelli in cui le usiamo, e le sempre indispensabili pozioni curative. Queste ultime ci portano al punto successivo: l’inventario.
Il gioco usa entrambi i tasti centrali del controller: il menù di pausa vero e proprio viene richiamato con il tasto Meno di Nintendo Switch, mentre all’inventario corrisponde il tasto Più. Una scelta inusuale, questa, dal momento che solitamente le funzioni di questi due tasti sono invertite, ma tant’è. Ad ogni modo, lo schermo dell’inventario ci illustra quali Reliquie sacre abbiamo ottenuto, quali armi siano in nostro possesso e quanti oggetti monouso abbiamo messo in saccoccia. Nel suo game design citazionista, il titolo non si nega un rudimentale elettrocardiogramma con cui accompagnare la conta dei cuori a noi rimasti, in puro stile Resident Evil.
Così come le armi corrispondono alle abilità più puramente offensive dei robot master visti nella serie Mega Man, le Reliquie corrispondono invece ai poteri più “esplorativi” dei boss appena citati: oltre alla conchiglia grazie alla quale gli indigeni ci concedono il lusso di conversare con loro, infatti, abbiamo anche altri esempi come una stele con cui fare apparire piattaforme intermittenti. Per quanto riguarda gli oggetti monouso visti nell’inventario, si possono far ruotare anche al di fuori di esso con i tasti dorsali secondari ZL e ZR (L ed R vengono usati per alternare le armi), ma è qui che emerge l’anima un po’ contraddittoria di Sydney Hunter and the Curse Of The Mayan.
Il gioco contrappone la difficoltà dei giochi di una volta, che però vantavano quantomeno dei controlli semplici, agli schemi di comandi complessi del gaming contemporaneo. Pressoché ogni tasto del controller corrisponde a un’azione differente, e questo va a ledere la fluidità del gameplay nei momenti di azione maggiormente concitati. In aggiunta a questo, ci sono più modi per usare gli strumenti che appaiono nel relativo slot a inventario chiuso: uno è il tasto Y, l’altro invece è il tasto di salto (B) insieme alla pressione del pad direzionale (o della leva analogica) verso l’alto. Se tu dovessi inavvertitamente tentare di direzionare un salto verso l’alto e dovessi disgraziatamente avere una pozione gialla con cui recuperare tutta la tua salute per la quale hai speso 700 gioielli, dille pure addio. Non è esattamente un fattore positivo, questo, in un titolo dove dovrebbe essere solo il level design ad ostacolare il giocatore.
Spezzando una lancia in favore del gioco, però, va detto che i comandi possono essere mappati in base alle preferenze del giocatore nel menù di pausa. Questo diversivo non va a risolvere il problema di base insito nel design stesso di Sydney Hunter and the Curse Of The Mayan, ma quantomeno aiuta ad aggirarlo.
La vecchia scuola?
Discorso diverso, invece, per il testing a cui è stato sottoposto il gioco: dati i molteplici punti di accesso che possono collegare una schermata all’altra (o meglio, alle altre), verrebbe da pensare che gli sviluppatori abbiano messo in conto la possibilità di avere un minimo di fiato una volta raggiunta una nuova (o vecchia) area, ma non l’hanno fatto. Può invece capitare, molto più di frequente, di ritrovarsi in una schermata “dalla parte sbagliata” e perdere uno dei preziosi – in quanto pochi – punti vita senza avere il tempo di reagire. Questo contribuisce a creare uno strato di difficoltà fasullo che non ha nulla a che vedere con le abilità di chi gioca: ed è questo uno degli aspetti in cui Sydney Hunter and the Curse Of The Mayan, brutalmente onesto nel suo ritratto dell’era 8-bit, si dimostra un’antitesi di Shovel Knight, che ce la mostra invece “bella come la ricordiamo”. A questo si aggiunge un level design più Mega Man che Castlevania, che talvolta è davvero ai limiti del claustrofobico, riducendo un già limitato margine di errore al punto da richiedere una precisione chirurgica.
Il backtracking, tenendo fede alla componente Castlevania del titolo, non si limita alle già citate chiavi, affatto: un conto è fare avanti e indietro nel contesto del singolo livello, un altro dover tornare nel livello dopo averlo finito. Purtroppo, però, questo andirivieni sarà necessario una volta che i teschi di cristallo richiesti per l’apertura di un nuovo livello supereranno quelli in nostro possesso. I blocchi duri, troppo resistenti per essere rotti dalla nostra fragile frusta, non tentano minimamente di mascherare il fatto che dovremo riaffrontare da capo l’intero livello (strutturato con la complessità di un Castlevania in miniatura, lo ricordiamo) solo per portarci a casa quell’unico teschio di cristallo dall’altra parte del muro rinforzato. Un elemento altamente soggettivo, questo: chi ama i titoli dei tempi passati anche di fronte ai loro difetti adorerà questa necessità artificiale, mentre chi vede il backtracking come un difetto non trascurabile farà meglio a guardare altrove.
Resident Incaz
Siamo giunti al momento di trarre le conclusioni su quanto abbiamo avuto modo di soppesare. Partiamo dal motore grafico: il “fattore antitesi” del gioco si palesa anche in questo aspetto, dove i colori non sono vivi e vibranti come abbiamo visto in Shovel Knight, bensì un pizzico più smorti. Chiariamoci: non siamo di fronte alla cadaverica palette di colori del Commodore 64, bensì una scelta cromatica più fedele agli standard del NES. La fluidità di alcune animazioni, forse, tende un po’ a tradire un’illusione altrimenti perfetta, ma per il resto abbiamo a che fare con un gioco che non sfigurerebbe nel servizio “NESflix” incluso in Nintendo Switch Online (sebbene senza il riavvolgimento, che qui sarebbe vitale).
Discorso analogo per il comparto sonoro, dove al di fuori di qualche effetto “almeno da console dal Super Nintendo in su” il senso di giocare a un titolo per NES è palpabile ad ogni nota (comprese le tre del jingle di morte, che nel giro di mezz’ora si trasferiscono in pianta stabile nella corteccia cerebrale). Se le melodie dei Mega Man classici sono state paragonate spesso e volentieri a una sorta di “heavy metal a 8-bit”, la colonna sonora di Sydney Hunter and the Curse Of The Mayan è forse più paragonabile al glam-rock dei Queen in salsa retrò. Il tema precolombiano è presente in ogni brano, e in una punta di citazionismo vintage alcune tracce ci propongono le medesime incessanti percussioni di Aztec Challenge, anche se per nostra fortuna senza la difficoltà satanica di quel titolo. Diabolica sì, ma non satanica.
La longevità si presta al classico discorso sul suo rapporto con la difficoltà, ma per fortuna al di fuori del già citato backtracking la collezione di teschi di cristallo farà gola agli infaticabili completisti. La presenza di un ultimo tempio dove mettere alla prova tutto ciò che si è imparato nell’arco del gioco, dal canto suo, impedisce alla conquista dei cento teschi di cristallo di essere fine a sé stessa, essendo necessaria all’apertura di questa ultima prova.
Per riassumere invece il gameplay e concludere degnamente la recensione, l’ambientazione maya su cui fa leva il titolo è una perfetta metafora dell’esperienza che il gioco ha da offrire: per chi ha il coraggio e la pazienza di addentrarsi fino in fondo alla piramide, Sydney Hunter and the Curse Of The Mayan è una vera miniera d’oro. Le trappole in questa antica tomba, però, ci sono, e non sono nemmeno poche: questi “sgambetti” tipici di un’era ormai passata sono la prova del fuoco per chiunque voglia avventurarsi in questo titolo, e a seconda dei casi possono ricordarci perché amavamo tanto i giochi più vintage o farci capire esattamente perché ce li siamo lasciati alle spalle.