C’era una volta, in una galassia lontana lontana, il videogioco. Il videogioco era sopratutto una manciata di pixel colorati che si muovevano, tramite enormi manopole, su un grosso schermo nero. Una cosa semplice, con molto poco da raccontare in termini di trama, colonne sonore minimal (o meglio, beep) ed una parola per riassumere tutta la sua natura: immediatezza. Segnati questo termine, perchè ci ritorneremo tra poco.
Poi, facendo un salto in avanti, arrivò Metal Gear Solid, l’apice della prima Playstation sotto molti punti di vista. Tutto cambiò: da quel momento si alzò l’asticella: si dimostrò che un gioco avrebbe potuto seriamente rappresentare una forma d’arte che univa cinema, gameplay, messaggi sociali, approccio individuale e molto altro.
Forse per questa ragione, a differenza di molti altri titoli usciti negli anni a venire, Metal Gear Solid sarà anche il gioco attraverso cui verrà elevato al rango di genio il suo sviluppatore: Hideo Kojima. Partiamo da qui.
Questa non sarà una recensione, vuole piuttosto essere una “camera con vista” di quella che è attualmente la nostra società di critici (giornalisti, consumatori, influencer, eccetera), la nostra valutazione più o meno azzeccata e onesta di questo prodotto. Un giudizio sui giudizi, insomma.
Quando ho giocato a Death Stranding l’ho fatto quasi col cuore immacolato di un bambino: senza aspettative, leggero come una piuma, con l’unico intento di immergermi in una avventura e sentire quello che aveva da dare.
Pur avendo una stima immensa per Kojima, penso che questo sia l’unico vero approccio da tenere quando si prende un pad in mano e si accende una console. Non ho iniziato con vivo entusiasmo né con pessimismo (sapevo già molte battute di riferimento al Bartolini simulator, ma non mi ero fatto scoraggiare): ho iniziato Death Stranding in modo asettico, neutro: in fiducia volevo che fosse il gioco a guidare, a farmi provare delle emozioni. Su di me questo approccio ha avuto un esito negativo, su altri positivo.
La mia esperienza di gioco è stata rovinata da questo mio sentimento”neutrale”, perché Death Stranding va capito, va interpretato nel senso in cui vuole essere inteso. Atteggiamento, questo che potrebbe coincidere con quello di un fanboy: segnati anche questa, ora ci arriviamo.
Insomma, Death Stranding ad alcuni è piaciuto, ad altri no. Io appartengo a quest’ultima schiera ma ho la fortuna di avere curiosità per l’insolito, tale da confrontarmi con entrambi gli schieramenti e capire bene com’è possibile vedere in modo così diverso un videogioco. Dopo vari ragionamenti ho capito che ci sono due possibili chiavi di lettura sul perché abbia così tanto diviso:
La prima ha a che fare con la parola chiave a inizio articolo, che ti ri-cito: immediatezza. Death Stranding è stato promosso da una campagna marketing abbastanza spinta, ha incuriosito, ha flirtato con tutta una schiera di fan che stimavano Kojima.
Il problema è che, a differenza dei precedenti giochi di Kojima e della maggior parte dei tripla A della storia, questo manca di immediatezza. Cosa vuol dire questo termine? Se prendiamo come esempio God Of War, l’immediatezza è già nella scena iniziale, da quando si raccoglie quell’ascia dalla quercia con la pressione di un tasto: immersività, pathos, azione, sonoro e soprattutto lo scopo (quello di brandire l’ascia ed iniziare un’avventura epica) è comunicato: ti resta solo da goderti la storia, che tra l’altro è magnifica, comprensibile ed insieme profonda. In God Of War l’immediatezza è facile perché lo scopo è semplice, combattere.
In Death Stranding si gioca trasportando oggetti, ma sarebbe più corretto dire che il gioco sceglie volutamente un gameplay non complesso (basato sullo spostamento di un personaggio) perché punta a trasmettere sensazioni molto meno immediate di quelle di un qualsiasi gioco di avventura. In Death Stranding lo scopo è complesso, arriva nel silenzio di una lunga camminata su uno sperduto paesaggio roccioso.
Tutto è costruito in canoni di immediatezza che non appartengono alla media: stiamo parlando della vera (unica) rivoluzione di questo gioco, capace di stravolgere le sensazioni tipiche provate con il controller in mano. Mediamente, raggiungendo lo scopo si arriva ad una soddisfazione. In Death Stranding, diversamente, la complessità delle cose è costruita per proporti volutamente delle sensazioni “negative” (la solitudine, il distacco dal prossimo, la necessità di connettersi imposta dalla trama). Occhio a non confondersi: è vero che per la storia lo scopo ufficiale è “riconnettere” le persone tra loro, ma è solo un escamotage narrativo, il vero fine da un punto di vista videoludico è il viaggio che si fa durante queste riconnessioni e quello che si prova. Solo successivamente ci si arricchisce con la trama.
Il motivo per cui io non lo apprezzo, dunque, è spiegato: non è che si tratti di un gioco “non per me”. Semplicemente ritengo sbagliato questo canone di immediatezza, ritengo errato che i cinque sensi umani più l’intuito debbano essere messi alla prova in questo modo, nel contesto di un videogioco. Ritengo sbagliato pretendere di considerare qualità “spostare” un personaggio per dieci minuti su una grande mappa, col pollice inclinato sulla levetta sinistra del pad per tutto il tempo, mentre al massimo mi godo il panorama, evito le Ca e noto la bella grafica. Non la ritengo una scelta di gran calibro. Sebbene sia un contesto di assoluta qualità grafica e narrativa, sia chiaro.
E nonostante ciò, difendo un po’ ipocritamente la scelta di Kojima che ha in questo modo costretto tutti a guardarci dentro noi stessi, a fare auto-critica delle nostre stesse capacità critiche, che ci ha spinto a valutare un’opera con più attenzione di quanto si potesse fare in precedenza, quando l’immediatezza “vecchio stile” la rendeva facile e che in fondo ha ampliato i concetti realizzabili intorno ad un videogioco. Death Stranding è, dunque, un titolo rivoluzionario, nel bene e nel male, soprattutto perché grazie alla campagna marketing non è rimasto confinato ad una nicchia ma è diventato per forza un prodotto popolare. A me non piace, ma lo ritengo comunque arte del videogame. La domanda però rimane: questa diversa immediatezza si adatta davvero ai videogiochi? Ho sempre pensato che questi fossero, in qualche modo, un banco di prova per i nostri sensi ed il sistema nervoso, con un sistema in stile “bastone e carota” in cui gli attori erano lo stress e l’appagamento. In Death Stranding questo equilibrio probabilmente non è adeguatamente ragionato, col primo elemento, lo stress, che soverchia il secondo, da qui un’“immediatezza 2.0”.
In base al giudizio di chi l’ha apprezzato, il gioco è perfettamente bilanciato: bisogna vedere se questo parere è figlio di una nuova chiave interpretativa dei videogiochi o se si tratta di un’approvazione a priori. Nel primo caso, anche considerando i difetti tecnici (di cui parlerò tra poco) potremmo essere vicini ad una piccola rivoluzione del game design, che potrebbe generare nuove idee per il futuro del settore, cosa questa positiva. Nel secondo caso, invece, bisogna prima fare qualche ragionamento.
Ho parlato infatti di due chiavi di lettura. La seconda è decisamente molto più cinica ed esula dal contesto dell’immediatezza: esiste la possibilità che una certa fetta di persone su questo gioco non abbia voluto muovere alcun giudizio critico, forse perché sedotta dalla bellezza cinematografica della storia, forse perchè semplicemente fan di Kojima. Lo dico perché Death Stranding è sì, il titolo rivoluzionario di cui ho parlato, ma è anche un gioco con dei grossi difetti tecnici, alcuni dei quali da matita rossa.
Non voglio fare recensioni, ne è già piena la rete e questi errori sono ben noti. Parliamo del gameplay non così profondo, mezzi di trasporto dalla opinabile utilità e manovrabilità, un concetto un po’ fallace di progressione nel rilascio di nuovi item-gadget, menù un po’ stopposi, IA dei nemici scadente, combattimenti un po’ insulsi, fase stealth da bocciatura, e potrei proseguire.
Il mio non vuole essere un accanimento o un’accusa nei confronti di chi si è divertito, ma è letteralmente impossibile non notare tutto questo. Allora mi chiedo, sono io ad esser troppo critico, o siamo davanti ad un caso di eccessivo buonismo? Me lo chiedo sinceramente e senza prevaricare l’idea di sbagliarmi. Tutti questi difetti non avrebbero dovuto influire sul giudizio finale? Quanto meno di parte dei giocatori, quanto meno della critica? Il gioco è piaciuto perché l’attenzione si è spostata su altro, come la trama? Ed era giusto valutarlo sulla base di questa ignorando il resto?
In effetti, parte della critica il gioco l’ha effettivamente bocciato, in un rapporto di un terzo rispetto alla parte maggiore. Non fraintendermi, faccio solo delle valutazioni sul merito di ciò che è il contenuto, fatto di cose buone ed altre meno. A me la storia è piaciuta, forse una delle più belle di sempre mai realizzate su videogioco ma le valutazioni vanno fatte in tutte le componenti. Non posso accettare passivamente il concetto che il gioco è ottimo solo perché molti giocatori dichiarano di essersi divertiti o perché la trama è bella e piena di retroscena. Non mi sembra un modo serio di entrare nel merito della questione, nel contesto di un titolo che ha i suoi difetti, anche abbastanza grossi, ed in cui l’ipotesi di una accondiscendenza per Kojima fa ombra su tutti noi come una spada di Damocle.
In tutto questo però, non vorrei essere frainteso: parliamo non di un titolo che merita il cinque in pagella ma nemmeno un otto. Io personalmente gli darei 7,8. Non sei d’accordo?
Dunque, domanda: siamo sicuri di averlo valutato correttamente? Questi e molti altri interrogativi per me rimangono. Parallelamente a tutto questo, va ricordato che esiste sempre anche una realtà che vale per tutti i videogiochi e quindi anche per Death Stranding: una fetta di consumatori disposti ad accettare tutto, sempre, basta che ci sia la copertina luccicante. Non sto parlando certamente di “tutti” quelli che hanno detto di essersi divertiti, ma almeno una parte. Di questo Kojima non deve certamente scusarsi e nemmeno lo stesso giocatore, che paga coi suoi soldi e in fondo è egli stesso l’unico a cui deve rispondere della sua esperienza.
A questo punto, colgo l’occasione per aprire una riflessione sull’autore: e se il mondo lo avesse completamente frainteso? Ho giocato Metal Gear Solid da ragazzino, l’ho fatto col massimo dell’entusiasmo, sbloccando tutte le difficoltà e gli item. Ma Metal Gear Solid mi galvanizzava soprattutto per le atmosfere che riusciva a comunicarmi: era un titolo dalla narrativa fortemente hollywoodiana (sembrava un vero e proprio film di azione di cui tu eri il protagonista), cosa nuova a quei tempi ma in fondo fortemente domandata dal mercato e quindi, oserei dire, commerciale. Era anche un gioco d’azione, di stealth, innovativo e sicuramente particolare. Ma in fondo Kojima deve la sua popolarità (e di conseguenza l’hype generato su Death Stranding) grazie anche a Solid Snake (per molti un sosia di Kurt Russell) ed a quelle vibrazioni hollywoodiane: e se ci fossimo sbagliati nel considerarlo un genio?
Non vi è dubbio, in ogni caso, che per Metal Gear Solid del 1998 il gameplay rappresentasse un punto di forza, ma quello era un periodo in cui realizzare gameplay innovativi era possibile. Non posso dire la stessa cosa di Death Stranding, gioco che oggi sarebbe potuto essere sviluppato da qualsiasi altra software house, forse con risultati anche migliori. Siamo di fronte al limite raggiunto da Kojima?
Chiudo con le provocazioni, e rivolgo una riflessione rivolta a giocatori ma soprattutto a recensori e critici. Un titolo non può dividere, o è buono o non lo è. Probabilmente Death Stranding è “buono”, ma non eccezionale. Se qualcuno avesse fatto uno sbaglio non sarebbe il caso di porsi qualche domanda?
Io sono e rimango un fan di Kojima e plaudo alla sua scelta coraggiosa e progressista. Penso seriamente che Death Stranding, come Metal Gear Solid prima di lui, abbia solcato un nuovo territorio. Nonostante la sua natura un po’ difettosa, nonostante ciò a cui ci costringe, nonostante tutti gli sbuffi che mi ha fatto fare, sono contento che possa ispirare in futuro titoli degni di essere chiamati grandi capolavori. Titoli che magari verranno sviluppati da altri, e che piaceranno perchè con meno difetti in tema di gameplay. La speranza è che in quello stesso futuro la critica, i consumatori, i giornalisti, i media, abbiano il coraggio – dove è giusto – di mettere i doverosi puntini sulle i.