L’utilizzo dei voxel è una forma d’arte, ma va dosata molto bene se non vuole finire per essere un’arma a doppio taglio. Di recente, abbiamo tessuto più di una lode in favore di Riverbond, un gioco che ha fatto dei voxel e del co-op un mix intrigante per un’avventura breve da godersi tutti insieme sul divano.
Skellboy, dal canto suo, opta per un approccio diverso: un’avventura da vivere rigorosamente in single player, dove dovremo “assemblarci” un po’ prima di riuscire a stendere le orde demoniache che stanno minacciando la pace del regno di Cubold. Riuscirà il gioco a risultare vincente in base a questa premessa? Scopriamolo insieme.
“Stai sciupato”
Il gioco inizia con un palcoscenico su fondo nero, dove il maggiordomo Chester ci informa della crisi che ha recentemente colpito il regno di Cubold: i morti viventi sono emersi dal sottosuolo per conto dello stregone Sir Squaruman. Come vuole la tradizione di ogni storia poco propensa a prendersi sul serio, a sparire è stata la principessa Zoletta.
Le speranze sono riposte nei Foursquires – o quattro scudieri, come vorrebbe una traduzione italiana che non sussiste – come citazione ai “quattro eroi della luce” di Final Fantasy. Chiaramente, basterebbe anche un eroe valoroso e tutto d’un pezzo. Per essere valorosi, lo siamo, ma per essere “tutti d’un pezzo”… eh, è un’altra storia.
La storia è integrata in minima parte nel gameplay, in quanto il monologo iniziale di Chester spiega che i superstiti di questa zuccherosa apocalisse zombi vivono ora come rifugiati, e gli abitanti del castello si rifiutano di far entrare chiunque fosse un morto vivente. E come lo spieghiamo, a questi qui, che le loro speranze risiedono in un giocatore dal corpo scheletrico?
Stupid, lazy skeletons
L’idea di impersonare uno scheletro ci riporta alla mente Skinny, protagonista dell’italianissimo The Wardrobe, e con il nome ci siamo andati abbastanza vicini: in realtà saremo nei panni di Skippy, che per i primi cinque secondi del gioco sarà un po’ troppo, come dire… tetraplegico per fare alcunché. Avremo infatti solo cranio, torace e braccia con noi – gambe e piedi non inclusi!
Il teatrino nel cortile del castello, dove avrà inizio la nostra avventura, è una sorta di tutorial silenzioso – sta a noi capire cosa fare, dove raccogliere i nostri piedi e dove trovare la nostra spada di legno. Diventa ben presto lampante il modus operandi che dovremo seguire per tutto il corso della nostra avventura: dovremo raccogliere quel che troviamo in giro e montarci letteralmente pezzo per pezzo.
Ogni componente del nostro corpo che troveremo, però, andrà inevitabilmente a sostituire quella che abbiamo. Alcuni degli zombi lasciano cadere parti “indossabili” del loro corpo, ma come indica il nostro misuratore di salute in alto a sinistra, le parti del corpo che troviamo in giro possono finire per rivelarsi più un handicap che altro. Tuttavia, ci sono anche miglioramenti, e le parti scheletriche abbondano quanto basta da non farci mai passare troppo tempo senza lo Skippy “di base”.
Discorso diverso per quanto invece concerne il nostro equipaggiamento. Le armi si sostituiscono a vicenda, è vero, ma sono divise per tipo: una lancia non rimpiazzerà mai una spada, ad esempio. Questo non significa che tutte le armi di un determinato tipo funzionino per forza allo stesso modo, ovviamente – una clava può funzionare in modo differente da un’altra -, ma potremo portarne con noi sempre e solo una.
La nostra salute si misura in cubi rossi, che i nemici lasciano cadere in abbondanza. Non c’è alcun tipo di valuta vera e propria, quindi in tal senso le risorse limitate lasciano pensare ad alcuni elementi survival che, sinceramente, non ci saremmo aspettati. Prima che ce lo possiamo aspettare, però, veniamo sorpresi dal primo boss, che nonostante un margine d’errore risicatissimo non si nega un altrettanto ristretto numero di occasioni in cui potremo colpirlo.
Il gioco usa inoltre una telecamera fissa la cui prospettiva è perlopiù isometrica. Sebbene non sia propriamente una priorità quella di poterla controllare, essere soggetti a un’inquadratura fissa si è rivelato frustrante a più riprese, specie quando era richiesto che il personaggio venisse piazzato in modo preciso o quando avevamo a che fare con un po’ di platforming. In generale è difficile capire dove atterreremo, e mentiremmo se dovessimo dire di non aver dovuto ripetere alcunché.
Per le prime ore, Skellboy è dolorosamente lineare, il che lo ha penalizzato non poco. La camminata di Skippy (da “skipping”, correre saltellando), unita ai rallentamenti in cui il titolo è solito incappare, va a castrare il ritmo di gioco in un modo che l’esperienza, per come è stata intesa e concepita, francamente non merita. Ciò avviene soprattutto quando ci sono nemici durante i rallentamenti.
Sebbene questo problema tecnico non scompaia mai del tutto, una volta superato il giro di boa l’avventura migliora drasticamente: l’esplorazione si fa meno sibillina, e le parti del corpo di Skippy possono essere cambiate liberamente. Magari il gioco intero fosse così: una volta che la linearità lascia lo spazio a un’esplorazione libera, grazie anche alle dovute scorciatoie, sembra di aver messo piede in un sequel.
Il dualismo dell’anima di Skellboy fa di quest’ultimo un gioco molto difficile da inquadrare a livello critico. La prima metà è lenta e lineare, ma la seconda fa di questo un titolo più mirato all’esplorazione, e più godibile proprio per questo. Vediamo di tirare le somme anche a livello tecnico, per capire quanto il gioco sia consigliabile.
Skull Souls
In quanto alla grafica, non ci siamo soffermati molto sull’uso che Skellboy fa dei voxel perché la cosa va sviscerata per bene. Andando per paragoni, potremmo riprendere l’esempio iniziale che ci ha portato a citare Riverbond: se quest’ultimo aveva il fascino di un Mario & Luigi a caso, allora Skellboy verte più sul mix di sprite e poligoni di Paper Mario.
Con questo non stiamo sminuendo l’impatto di Skellboy, tutt’altro: l’effetto “cartaceo” sortito da un uso dei voxel capace di dare al mondo di gioco l’aspetto di un libro animato, fatto di sprite stampati sul cartone, ha un sapore tutto suo. Se non altro, è un po’ un peccato che l’unico modo per non sminuire uno stile artistico azzeccato sia stata l’implementazione di una telecamera antipatica.
Discorso diverso per il lato sonoro, che purtroppo è una sorta di tallone d’Achille per quanto riguarda il gioco. Sembra che la filastrocca Spooky, scary skeletons sia stata adattata – in una maniera mirata ad evitare beghe legali – in una sorta di reincarnazione chiptune, per poi fare del risultato un leitmotif riproposto in tutte le salse nel gioco. Non è malaccio, ma una scelta di note così misera tende a venire a noia molto facilmente.
La longevità è un altro fattore altalenante, ma in generale siamo ben sopra la soglia della sufficienza. Skellboy premia chi riesce a digerire una prima metà paragonabile al pranzo di un matrimonio con una seconda metà che ha tutto il sapore di una deliziosa torta nuziale. Chiaramente, c’è anche l’opzione di rifiutare l’invito a nozze, ma tra coloro i quali sborseranno i 20 euro che il gioco richiede solo i più testardi verranno ricompensati.
Il gameplay è come l’abbiamo descritto. Definirlo una sorta di “Zelda light” non renderebbe appieno giustizia a quello che, nel bene e nel male, rimane comunque un concetto originale pregno di fascino. Non è un gioco semplice da amare, né mai sarà un titolo perfetto, ma apprezzarne le premesse e padroneggiarne le meccaniche può valere il prezzo del biglietto.