Personalmente, trovo non sia mai facile prendere una decisione definitiva su quello che potrebbe essere il voto più adatto a un titolo indipendente. Se è vero che da un lato questi prodotti, dei quali generalmente si sa poco o nulla fino al momento del loro primo avvio, possono contare sul famoso effetto sorpresa, è altrettanto certo che essi abbiano un numero tendenzialmente ristretto di risorse, spesso causa di evidenti limiti e imperfezioni varie.
Per questo motivo, quando mi capita di dover recensire un videogioco come Hippocampus: Dark Fantasy Adventure (sviluppato pressoché interamente da una singola persona), cerco sempre di contestualizzare quanto più possibile il progetto di cui mi sto occupando, andando magari oltre quelli che potrebbero essere dei semplici difetti superficiali. A volte però certi problemi risultano fin troppo evidenti e, come nel caso di cui ti parlerò oggi, rischiano di mettere in cattiva luce un’intera esperienza di gioco.
Con questa recensione quindi, a prescindere da quello che sarà il mio giudizio numerico sul titolo, mi piacerebbe fare in modo di dare ottimi spunti a chi lo ha sviluppato, permettendogli così di identificare eventuali problemi che, una volta risolti, potrebbero davvero fare la differenza. Dovute premesse a parte, direi che siamo finalmente pronti a gettarci nel vivo di questa recensione. Sei pronto/a? Cominciamo.
La memoria onirica
Come suggerisce il nome, Hippocampus: Dark Fantasy Adventure è un videogioco ampiamente incentrato sulla memoria, nel quale si respira un’aria a metà strada tra l’onirico e l’illusivo. In quest’opera il giocatore veste i panni di Lord Moebius, un giovane uomo incapace di accettare la perdita della sua promessa sposa e pronto a tutto pur di poterla rivedere.
Il protagonista di questa solitaria avventura, ormai dipendente dagli effetti della Datura Stramonium (una pianta dalle forti proprietà allucinogene comunemente detta Erba del Diavolo), cerca dunque di scavare a fondo nella propria memoria, con la speranza di poter rivivere almeno una volta i bei momenti passati insieme alla sua Lorelei.
È proprio qui, dopo i primi pensieri di questa mia analisi, che sento il bisogno di approfondire brevemente uno degli aspetti più convincenti di tutto Hippocampus: la sua atmosfera. Dall’estetica di gioco all’accompagnamento musicale infatti, risultano chiare fin da subito le intenzioni di voler dare vita a un’ambientazione tanto evocativa quanto evanescente, capace di trasmettere al giocatore una desolazione molto vicina a quelle che potrebbero essere le sensazioni del personaggio principale. Un fattore che ho apprezzato davvero molto e che, in un titolo indipendente che non può certo contare su una resa grafica da urlo, risulta tutt’altro che scontato.
Dopo i primi minuti di gioco, risulta chiaro quanto le cattive abitudini del Lord possano dare vita a situazioni altamente rischiose. Ad accompagnarlo in questa cupa impresa, oltre alla confortevole voce della sua amata, soltanto noi giocatori che dopo un breve tutorial capace di illustrare in pochi passi le meccaniche di gioco, potremmo persino credere di essere pronti a quello che è il gameplay vero e proprio di questo titolo. Ovviamente, sbagliandoci di grosso.
Un’esplorazione imperfetta ma che ha un suo perché
Una delle prime cose che si notano una volta immersi in Hippocampus, è senza dubbio la grande importanza data all’esplorazione che, come viene anche suggerito nelle prime fasi del tutorial, spinge il giocatore a guardarsi sempre intorno alla ricerca del modo giusto per avanzare. Ad aiutarci in questo troviamo dei particolari globi luminosi da manipolare o con i quali interagire, che a seconda del loro colore avranno effetti diversi sul nostro protagonista.
Tra tutti gli aspetti legati all’esplorazione, confesso che questo è stato il più convincente di tutti. Se non esistessero le imperfezioni di cui ti sto per parlare, si potrebbe tranquillamente dire che io mi sia parecchio divertito a rimbalzare tra una sfera e l’altra.
L’idea vincente che sta alla base di questa meccanica, è senz’altro quella di averla introdotta in una realtà di gioco caratterizzata da sezioni platform e arricchita da enigmi ambientali. A rendere tutto ciò molto meno entusiasmante però, è una difficoltà dei salti troppo spesso derivata dai movimenti poco gestibili del protagonista in volo, che a volte non farà semplicemente quello che vorremmo noi.
Sono convinto che se la difficoltà di Hippocampus, chiaramente intenzionato a rappresentare un’ardua sfida, dipendesse effettivamente da un level design elaborato, allora ci troveremmo di fronte a un videogioco parecchio interessante.
Questo, almeno finché non sarà arrivato il momento di parlarti della criticità più evidente del gioco. Eh già, perché tra tutti i vari aspetti di Hippocampus: Dark Fantasy Adventure, ce n’è uno che è semplicemente impossibile apprezzare. Se i difetti minori, quali un immotivato reset delle opzioni ad ogni caricamento o i saltuari glitch che ci renderanno una cosa sola con i muri, risultano facilmente trascurabili, ne esiste invece uno di proporzioni ben più importanti che, a parer mio, va a compromettere inevitabilmente l’intero gioco allontanandolo dalla sufficienza.
Un combat system con del potenziale…
Sarò sincero, non appena ho provato pad alla mano il sistema di combattimento di Hippocampus, ne sono rimasto piuttosto entusiasta. Sapevo che il titolo era fortemente ispirato a Castlevania: Lament of Innocence e per questo motivo, mi sarei aspettato di trovarmi davanti a un classico hack and slash in cui, per avere la meglio sui miei avversari, sarebbe bastato attaccare compulsivamente qualsiasi cosa mi si parasse davanti. Con mio grande stupore, ho dovuto ben presto ricredermi.
Le battaglie che affrontiamo in Hippocampus e che spezzano le fasi d’esplorazione infatti, sono apparentemente più vicine a uno dei tanti souls-like in cui, ogni mossa del personaggio e il nostro tempismo nell’eseguirla, fa decisamente la differenza. Purtroppo però, per una serie di ragioni che vedremo nel prossimo paragrafo, persino un amante come me di quel particolare combat system più strategico, non ha potuto fare a meno di perdere qualsiasi interesse nell’affrontare i mostri creati dalla mente del protagonista.
Lord Moebius ha la possibilità di dare forma, attraverso uno sforzo mnemonico, a diverse armi di vario tipo (inizialmente una spada a una mano e una possente ascia) con le quali poter combattere i fantasmi del suo passato. Per noi giocatori è fondamentale fare in modo di non terminare mai la barra della memoria, situata nella parte alta dello schermo.
Per farlo, occorrerà sfruttare i nostri strumenti di morte per lacerare i corpi dei mostri affrontati, dopo aver caricato un colpo pesante. Questa meccanica ci garantirà un ritorno in termini di energia e, cosa molto più interessante, andrà a influire direttamente sul moveset dei nostri avversari, a seconda di quale parte del corpo gli avremo reciso. Ed è qui che iniziano i veri problemi di Hippocampus.
…completamente gettato alle ortiche
Innanzitutto per far sì che tu comprenda a pieno le mie perplessità, è importante farti sapere che in Hippocampus, a differenza di moltissimi altri esponenti del genere, il giocatore deve fare i conti con un tempo di recupero delle animazioni insensatamente più esteso di quello dei nemici, che riduce quindi qualsiasi combattimento a una continua toccata e fuga. In una parola sola? Noioso.
Se a questo uniamo poi alcune imperfezioni legate al controllo della telecamera, come ad esempio il fatto che talvolta ci ritroveremo a schivare in direzione opposta rispetto a quella che avremmo voluto, ecco che otteniamo un sistema di combattimento avvilente la cui difficoltà è ancora una volta artificiale e slegata da nostri eventuali errori. Non faticherei a credere che una modifica di questi aspetti potrebbe seriamente giovare all’intera esperienza di gioco, senza per questo stravolgere necessariamente le valide idee che troviamo alla base del titolo. Insomma, se il lavoro che ci sta dietro è indubbiamente apprezzabile, il risultato finale manca di mordente.
L’ultimo punto di Hippocampus che vale la pena analizzare è quello legato al respawn dei mostri, boss compresi, frutto delle allucinazioni del protagonista. Essi, nel caso in cui dovessimo capitare in zone già ripulite in precedenza, magari alla ricerca della strada giusta da percorrere, non mancheranno di ripresentarsi a noi più agguerriti che mai. Questo particolare tipo di scelta che in genere non condannerei mai a priori, date le motivazioni di cui sopra, finisce purtroppo con il rendere Hippocampus incredibilmente punitivo e frustrante, specie verso chiunque non sia così fortunato da imboccare il percorso giusto al primo tentativo.
Un comparto tecnico senza infamia e senza lode
Eccoci arrivati all’ultima parte di questa mia recensione, dedicata come sempre agli elementi che insieme formano il comparto tecnico di un titolo. Come ho già accennato in precedenza, il mio pensiero è che nei videogiochi indipendenti non si debba certo ricercare una grafica mozzafiato, bensì una visione convincente di quello che ad esempio avrebbe voluto essere il mondo di gioco. Ebbene, in questo Hippocampus: Dark Fantasy Adventure riesce tutto sommato a tenere alta la testa, permettendo ai giocatori di sentirsi parte di qualcosa.
https://youtu.be/5R_0X2Y94Lc
Da alcuni suoni percepiti come distanti, quasi ovattati, a una colonna sonora adatta a ogni situazione, la validità generale del comparto tecnico riesce a distrarre da fattori meno importanti, come ad esempio l’accentuatissimo effetto pellicola. Nonostante i pochi mezzi a disposizione e alcune scelte forse troppo ambiziose, Hippocampus merita quindi di sfiorare la sufficienza, con la consapevolezza che attraverso i giusti accorgimenti potrebbe anche arrivare a molto di più questo.