“Giocare fa male, ti fa diventare stupido, ti rincitrullisce stare davanti a quello schermo”. Quante ne abbiamo sentite noi gamer, da adulti e coetanei che non approvavano la nostra passione dei videogiochi. Troppo spesso sono stati associati a peggioramenti personali e sociali, accusati di portare solo cambiamenti in negativo.
Calunnie, pensavamo noi, intenti a sconfiggere demoni o altri giocatori, esplorare paesi fantastici o controllare interminabili liste di armi ed equipaggiamento per affrontare al meglio le sfide imminenti. Alla fine, abbiamo avuto ragione; il gaming non fa male (nella maggioranza dei casi), anzi può essere più utile di quanto ci si aspetta.
Si è già parlato delle potenzialità dei videogiochi in ambito didattico e insieme abbiamo appena scalfito la superficie dei cambiamenti in corso nei nostri cervelli, basandoci su quanto reperivamo online; in particolare i ricercatori hanno osservato un notevole cambiamento per quanto riguarda le capacità cognitive.
Siccome ci addentriamo in un settore “oscuro” per molti di noi, è bene chiedere aiuto ad un esperto, qualcuno che conosca bene tanto l’argomento quanto il mondo dei videogiochi. Un dottore-ricercatore-gamer insomma, ma esiste qualcuno così preparato?
Per nostra fortuna sì, esiste, è italiana, gamer e ricercatrice (anche se dobbiamo capire ancora con quale ordine) ed è pronta a rispondere a tutte le nostre domande sul gaming e le capacità cognitive.
La voce delle scienza
Questa mitica ed affascinante chimera, fusione di scienza e videogame si chiama Elena Del Fante; classe 1992, dalla natia Toscana si trasferisce a Torino, dove si laurea, diventando dottoressa in psicologia. Attualmente lavora anche come Research Assistant nel gruppo di ricerca BIP (BraIn Plasticity & Behavior Change) presso l’università di Torino.
In questo gruppo di ricerca la dott.ssa Del Fante si occupa di studiare i processi di apprendimento implementando training videoludici o training con elementi di game design (gamification).
Come se non fosse sufficiente, è collaboratrice e content creator per Horizon Psytech & Games, un’azienda di psicologi dei videogame, dove affronta tematiche che spaziano dalla tecnologia legata ai videogiochi agli aspetti neurocognitivi legati al gaming, includendo potenziamento delle life skill, media education e potenziamento per giocatori di eSports.
Partecipa inoltre come social content creator per la Settimana del Cervello (Brain Awareness Week), una celebrazione delle neuroscienze che ha come obiettivo mettere l’accento sulle neuroscienze e la loro importanza per il benessere.
Tra una ricerca e una pubblicazione…
Tanto lavoro insomma per la dott.ssa Del Fante, ma anche diverse soddisfazioni; come dicevamo non è solo una ricercatrice importante, è anche una gamer di un certo livello! Stiamo infatti parlando con una campionessa italiana, vincitrice di un oro nel 2016 in Call of Duty: Black Ops 3 con il suo team, TeS Furies per TrueSport.
Con queste premesse è facile capire che stiamo parlando con la persona giusta, in grado di darci un parere oggettivo dell’argomento conoscendolo: i benefici cognitivi ottenuti attraverso il gaming. Ma andiamo per ordine e senza troppa fretta, facendoci spiegare per bene ogni aspetto delle capacità cognitive da iAElena, la dott.ssa Del Fante!
Cosa si intende per capacità cognitiva e qual è il suo ruolo nel gaming?
Quando parliamo di abilità cognitive ci riferiamo alle abilità mentali che ci permettono, in sintesi, di vivere e agire nel mondo circostante. Basti pensare a quando compiamo azioni che noi definiamo banali come fare la spesa o fare le scale, quanto sia necessario avere intatto tutto quel mindset di cui stiamo parlando.
Giocare ai videogiochi non è tanto diverso dal compiere azioni complesse reali, poichè dobbiamo elaborare tutta una serie di stimoli virtuali per poter mettere in atto risposte comportamentali adeguate, al fine di divertirci e vincere.
Come vengono sfruttate nei videogame queste capacità?
Come ho accennato poc’anzi, i videogiochi permettono di ricreare situazioni e ambientazioni che difficilmente sarebbe possibile vivere nella vita quotidiana. Pensiamo ad un videogioco d’azione, nello specifico uno sparatutto, in cui il videogiocatore deve prestare attenzione al nemico.
Il gamer deve mantenere il focus attentivo sul nemico al fine di potergli sparare e mantenere una buona mira. Come sappiamo bene, i videogiochi così come le situazioni della vita sono talvolta frenetiche ed imprevedibili.
Il giocatore infatti non dovrà solo mantenere l’attenzione sul nemico di fronte a lui, ma anche “switchare”, cioè alternare costantemente l’attenzione fra diversi elementi come altri nemici anche fuori visuale, obiettivi da raggiungere, stato di salute, munizioni disponibili, ping su radar o minimappa.
I videogiochi, soprattutto quelli d’azione, permettono agli utenti di crearsi una rappresentazione mentale dell’ambiente virtuale entro cui si muovono: infatti, per poter giocare in modo efficace, il giocatore deve sapere la posizione che occupa nello spazio, dove sono i nemici o gli obiettivi rispetto alla sua posizione nell’ambiente.
Quest’abilità, definita cognizione spaziale, ovvero la capacità di muoversi nello spazio e di sapersi orientare, permette di creare delle mappe cognitive che vanno a potenziare proprio la memoria a lungo termine.
In breve potremmo rispondere a questa domanda affermando che videogiocare è un’interazione attiva a tutti gli effetti.
I videogame posso influire positivamente dunque sulla capacità cognitiva degli utenti?
Ho un po’ risposto a questa domanda già con quella di prima: effettivamente sì, i videogiochi possono essere a tutti gli effetti una palestra mentale. In letteratura sono presenti molti studi riguardo al miglioramento delle abilità cognitive mediante l’attività ludica: si pensi che già 30 ore di training con Unreal Tournament migliora i tempi di risposta e precisione.
Sessioni di 50 ore con un videogioco d’azione consente anche a chi non gioca di migliorare la flessibiltà cognitiva (l’abilità di adattarsi a situazioni nuove e muoversi in modo flessibile, appunto, fra diversi stati mentali).
Uno studio pubblicato su Current Biology (Bavelier et al.,) ha dimostrato come un training di 50 ore su Call of Duty può migliorare fino al 25% la nostra capacità di prendere decisioni adeguate, rapide ed efficaci (decision making).
I videogiocatori di AVG (action videogames) mostrano inoltre un’acuità visiva nettamente migliore con ampliamento del campo visivo centrale e periferico.
Infatti, proprio per queste potenzialità di esercitare la plasticità cerebrale, i videogiochi vengono utilizzati come training di potenziamento cognitivo: anche nel gruppo BraIn Plasticity & Behavior Changes in cui faccio l’assistente di ricerca vengono utilizzati e sviluppati giochi per la riabilitazione neurocognitiva.
Come può avvenire il potenziamento delle abilità cognitive mentre stiamo giocando ai videogame?
Il potenziamento cognitivo, dunque è una modificazione delle reti neurali alla base di determinate abilità che avviene grazie ad una favolosa capacità del nostro cervello: la plasticità cerebrale. Ogni azione e ogni informazione che apprendiamo nel nostro mondo va a modificare la nostra rete neurale, potenziandola o depotenziandola.
Alla base del potenziamento vi è un meccanismo chiamato potenziamento a breve o a lungo termine appunto. Una sorta di memoria “neuronale” per cui, un’esperienza fatta più e più volte, ci permetterà di far accendere di più determinate reti di neuroni e dunque farci diventare più bravi in alcune attività.
Motivo per cui andiamo in palestra, a danza o studiamo per diversi giorni una lingua o una materia: a forza di farlo diventeremo più bravi, fino a che non instilliamo un potenziamento a lungo termine per quelle reti.
Dunque, come detto sopra, giocando ai videogiochi compiamo determinate azioni che richiedono alcune abilità: a forza di metterle in gioco, a forza di eseguirle è come se obbligassimo il nostro cervello a plasmarsi per eseguire al meglio quelle determinate azioni. Questo ci consente di diventare più bravi in determinate cose e di poterle usare nel mondo di tutti i giorni.
Esistono diverse letture scientifiche, divulgate da medici e pediatri sulla pericolosità e gli effetti negativi dell’esposizione di bambini a YouTube. I videogame hanno lo stesso impatto negativo sui minori?
La maggior parte degli studi non identifica una pericolosità associata al medium tecnologico, sia esso un videogioco o un semplice social network, essendo solamente dei mezzi, dei medium appunto. Bisogna però spiegare, oltre ad affermare, in che senso non hanno nessun impatto negativo.
I videogiochi vengono spesso associati alla malattia e alla dipendenza. Per Gaming Disorder intendiamo “una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manisfestati da:
- un mancato controllo sul gioco;
- una sempre maggiore priorità data al gioco, al punto che questo diventa più importante delle attività quiotidiane e sugli interessi della vita;
- una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali o in altre aree importanti;
Affinchè questo comportamento possa essere considerato morboso e dunque essere affetti da tale patologia è necessario che il soggetto reiteri tali atteggiamenti per un arco temporale di almeno 12 mesi. Consideriamo che questa etichetta riguarda l’1% della popolazione, infatti è un’etichetta che non vede in accordo la comunità scientifica, in quanto sembra basarsi su un campione perlopiù asiatico.
Oltre a questo, quello che spesso i genitori mi riferiscono di osservare riguarda il concetto di abuso, cioè quando l’utente gioca eccessivamente andando oltre il limite fisiologico possibile. Infatti quando abusiamo del videogioco (così come se beviamo due bicchieri di troppo o guardiamo troppa TV) abbiamo occhi rossi, un peggioramento dell’umore e irascibilità. Questo però non ci rende dipendenti.
In linea generale, al di là dell’abuso che ovviamente non è consigliabile, usare uno strumento tecnlogico in modo corretto non ha alcuna conseguenza negativa.
Stessa cosa possiamo dire sui videogiochi d’azione, spesso caratterizzati da contenuti violenti: non esiste alcuna correlazione tra videogame violenti e comportamento violento. Qui ci sarabbe da parlarne per ore, citando lo psicologo Ferguson, il quale ha fatto luce sulla differenza tra violenza e aggressività.
Quest’ultima, infatti, è quella che a volte possiamo vedere nei videogiocatori: essa non è controproducente, bensì un atteggiamento adattivo che ci permette di stabilire i nostri confini e dunque poter vincere.
Quell’aggressività che possiamo vedere è paragonabile a quella di un calciatore che sbaglia un goal importante: è a breve termine e dunque non ha effetti a livello comportamentale.
Per concludere , voglio sempre ricordare il sistema PEGI, il quale ci indica il contenuto dei videogiochi e l’età minima consigliata per poter fruire del videogioco. Dovremmo rispettarlo e, forse, smetteremmo di chiederci se sono i videogiochi a farci male o se invece siamo noi che non abbiamo le capacità per poterne usufruire.
Grazie dott.ssa Del Fante, per averci dedicato del tempo e chiarito molti aspetti importanti legati al mondo dei videogame!
Grazie mille a voi per quest’intervista, per me è un piacere poter dare il mio contributo affinché i videogiochi vengano conosciuti e riconosciuti.