Qualche settimana fa ho seguito un interessante dibattito sul canale Twitch di iCrewPlay.com, a cui invito a iscriverti se ancora non lo hai fatto, in tema The Last of Us Part II: si trattava di una sorta di provocatorio faccia a faccia tra due redattori del nostro sito i quali si confrontavano sulle rispettive diverse posizioni riguardo al gioco.
Detta in termini molto più semplici, un “pro e contro” che vedeva da una parte chi il gioco lo ha adorato e dall’altra chi invece ha trovato dei motivi che non lo hanno messo in condizione di apprezzarlo come la maggior parte degli utenti, stando quantomeno ai dati di vendita e ai numerosi premi ricevuti dal titolo Naughty Dog.
Ritenendo io stesso The Last of Us Part II uno dei giochi più belli della scorsa generazione ho trovato inizialmente assurdo che qualcuno potesse non averlo amato come me, che lo ammetto sono di parte, ma seguendo la discussione ho avuto modo di farmi una mia idea sul perché questo capolavoro possa non piacere a qualcuno e, riflettendo, ho notato delle analogie rispetto ad altri titoli di indiscutibile valore che tuttavia possono essere stati non adeguatamente apprezzati da per degli specifici motivi.
Da questo presupposto è nata l’idea di scrivere un articolo proprio per analizzare le motivazioni che possono stare alla base di chi non ha apprezzato tutta una serie di titoli che, in base ai giudizi di critica e pubblico, sono ritenuti “oggettivamente” dei capolavori. E partiamo subito con il botto proprio con…
The Last of Us Part II: la differenza tra una scampagnata e la lotta per la sopravvivenza
Non potevo non partire da qui, un po’ perché è il gioco che mi ha fatto nascere l’idea per questo articolo, un po’ per il desiderio di argomentare sui motivi di coloro i quali non hanno apprezzato il gioco come merita.
Escludendo la trama, dal momento che si tratta di un aspetto davvero personale e su cui non si possono esprimere giudizi che esulino dal gusto personale, veniamo all’aspetto che probabilmente ha influito in misura maggiore tra le persone che non lo hanno trovato così straordinario: il gameplay.
Nel dibattito sul nostro canale Twitch è stata una delle tematiche oggetto della discussione e la motivazione di chi ha detto di non aver adorato il gioco era riferita al fatto che si tratta di un titolo monotono in cui fai sempre la stessa cosa: entri in un’area, la ripulisci, raccogli tutto quello che puoi e procedi.
Beh, personalmente faccio davvero fatica a ritenere The Last of Us Part II un gioco monotono, per cui ho seguito con attenzione le motivazioni del redattore, fino a che non ho capito che il suo giudizio era legato ad un aspetto che, in un gioco del genere, è un elemento caratterizzante, ovvero il livello di difficoltà.
Questo è uno di quei titoli in cui scegliere con attenzione la difficoltà fa tutta la differenza del mondo tra un buon titolo e un capolavoro assoluto. Una delle caratteristiche del gioco è quella di poter settare a proprio piacimento il livello di sfida in vari ambiti del gameplay e si va dalla resistenza ai colpi del nostro personaggio, alla facilità di reperire risorse fino alla possibilità o meno di utilizzare i “sensi” nelle fasi stealth. Ebbene, comprendo benissimo che chi lo ha giocato a livello normale può non averlo apprezzato a dovere, perché The Last of Us Part II a livello normal rischia di essere appunto un gioco…normale.
Io ho settato alcuni parametri a livello “sopravvissuto” e questo significava pianificare ogni singola mossa, gestire quei 3-4 proiettili a disposizione con attenzione chirurgica, perché una volta venuti meno ero costretto a reperire le risorse direttamente sul campo, dovendo assumere un atteggiamento misto di pianificazione e improvvisazione che elevava il godimento del titolo a livelli stellari.
Tutto questo a livello normal praticamente non esiste e ci si ritrova poco più che con uno sparatutto in terza persona con una splendida grafica e una grandissima narrativa. Ma c’è molto, molto di più oltre a questo e può essere apprezzato solo con un livello di sfida adeguato.
Dark Souls: quando la difficoltà diventa masochismo?
Parliamo di sfida e non possiamo non tirare in ballo quello che probabilmente è stato uno dei giochi più discussi dello scorso decennio: il titolo nato dalla mente (contorta) di Miyazaki è stato uno spartiacque nel mondo videoludico per diversi aspetti, in primis quello della difficoltà.
Da molti giudicata proibitiva, punitiva, che porta il giocatore a livelli inauditi di frustrazione tali da chiedersi quale sia il limite tra divertimento e autolesionismo. Ma cosa c’è di vero in tutto questo?
Dark Souls non è per tutti, questo dobbiamo chiarirlo subito, ma non è per tutti se approcciato nel modo sbagliato. La difficoltà del gioco è certamente più alta rispetto alla media, ma quasi mai è punitiva; è una difficoltà che ti costringe ad imparare e a evolverti come giocatore per poter progredire e mi rendo conto che non tutti sono disposti a fare questo percorso.
Ma il titolo From Software non è mai ingiusto, perché ti mette a disposizione tutti gli strumenti per avere successo, con la premessa che siano adeguatamente utilizzati. E in primis tra tali strumenti c’è quello di considerare il gioco soprattutto per quello che non è: non è un action; non è un hack and slash alla Devil May Cry; non è un gioco per chi ha fretta di arrivare alla fine. Se sei tra quelli che lo hanno cominciato con queste premesse, sono certo che lo hai odiato e abbandonato.
Dark Souls è un genere a sé, non per niente hanno coniato ex novo il titolo di “soulslike” per definirne l’appartenenza. Quindi se ti aspetti un gioco in cui vai avanti e affetti nemici senza soluzione di continuità beh, ci credo che tu possa averlo odiato. Va invece assaporato lentamente, apprezzandone anche il livello di sfida, ragionando molto attentamente sulla build da utilizzare e quali armi sviluppare in base alle varie tipologie di nemici e alle situazioni affrontate.
In questo modo, sono sicuro che da odiarlo potresti iniziare ad amarlo.
Red Dead Redemption 2 e quelle lunghe cavalcate
Non sono mai stato un fan sfegatato di Rockstar, quindi mi sono approcciato a questo titolo con le giuste aspettative: né troppo alte, né troppo basse. E’ innegabile come il contributo dato da questo gioco allo sviluppo degli open world ne abbia messo in risalto le indiscutibili qualità, ma proprio da questo punto di vista sono arrivate le critiche peggiori.
Uno degli aspetti che più hanno fatto discutere di Red Dead Redemption 2 sono stati i numerosi e lunghi tempi morti, rappresentati soprattutto dalle cavalcate che si rendono necessarie per spostarsi da una parte all’altra della mappa vista la mancanza di un sistema di viaggio rapido realmente funzionale.
Ammetto che io stesso, soprattutto dopo alcune decine di ore di gioco, ho trovato un po’ pesante questo aspetto, ma riflettendoci attentamente sono arrivato alla conclusione che la “noia” è un aspetto fondamentale e caratterizzante di tutto il gioco: se la volontà è stata quella di ricreare la vita nel far west nei più piccoli particolari beh, questi comprendono per forza la necessità di doversi spostare a cavallo, quasi ad obbligare il giocatore a fare delle pause tra le varie fasi di gioco, che sia andare a caccia, partecipare ad una rissa o continuare con la storia principale.
Chi si aspetta di avere di fronte un titolo tutta azione e sparatorie ne rimarrà deluso e credo proprio che sia questa tipologia di giocatore a non averlo amato.
Personalmente mi sono trovato a metà strada: se da un lato ne ho apprezzato l’estrema cura, dall’altro in effetti soprattutto ad un certo punto alcune scelte di game design si sono fatte un po’ pesanti. Ma questo è, nel bene e nel male, Red Dead Redemtpion 2. Prendere o lasciare.
The Witcher 3: Wild Hunt e un combat system così così
Altro giro, altro capolavoro. The Witcher 3: Wild Hunt è un altro di quei titoli che hanno fatto la fortuna della generazione PlayStation 4 e Xbox One.
La profondità della storia, la caratterizzazione dei personaggi, la personalizzazione pressoché totale di Geralt ci hanno consegnato tra le mani un capolavoro epocale. Cosa può non essere andato nel verso giusto?
In realtà niente, perché chi ha storto il naso per la poca cura con cui è stato realizzato il combat system nel gioco di CD Projekt Red forse non ha capito che cosa aveva davanti: un gioco uscito nel 2015, con una completezza che per l’epoca era qualcosa di mai visto prima, non poteva e non doveva essere perfetto, e infatti non lo è stato.
Pensare di giocare a The Witcher 3 girando e affettando nemici con la stessa soddisfazione di un Ninja Gaiden qualsiasi vuol dire non aver compreso per nulla il titolo, che è un’esperienza da vivere attraverso la storia di tutta una serie di personaggi e CON la possibilità di un sistema di combattimento in grado di spezzare le varie fasi di gioco. Pensare che quello fosse l’aspetto principale o quello maggiormente curato vuol dire aver imbroccato la strada sbagliata.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild è “vuoto”
Proprio per non farci mancare niente, dopo aver aperto con The Last of Us Part II concludiamo prendendo in esame i motivi per cui il titolo Nintendo può non essere piaciuto (!!!).
Parto col dire che lo ritengo il miglior gioco della generazione passata, surclassando nelle mie preferenze lo stesso titolo di Naughty Dog e God of War.
In giro ho però avuto modo di leggere opinioni fuori dal coro di persone che si lamentavano del fatto che quello di The Legend of Zelda: Breath of the Wild è si un grande open world, ma un open world piuttosto vuoto.
Certo, se lo paragoniamo alle affollate città di The Witcher 3 o al caos urbano di un GTA, sembra veramente spoglio. Ma giudicare l’ultimo capolavoro della saga di Zelda in questo modo è un errore piuttosto grossolano.
Chi lo approccia pensando di trovare millemila personaggi con cui interagire o miliardi di linee di dialogo tra cui scegliere ha sbagliato decisamente rotta: Breath of the Wild è un’avventura in cui il fine ultimo è proprio il viaggio, la scoperta, il vedere cosa si nasconde oltre quella montagna o sull’altra riva di quel fiume. E’ tutto strumentale a questo, anche ovviamente la presenza degli altri personaggi e uscire da questo spirito vuol dire che forse si dovrebbero restringere di molto i generi videoludici a cui dedicarsi; non per colpa, solamente per caratteristiche personali e forma mentis.
In conclusione possiamo dire che anche se è un capolavoro universalmente riconosciuto è pacifico che un gioco possa non piacere. La cosa importante, riteniamo, sia che se non piace sia per motivi che esulino da quello che da un determinato titolo ci si aspetta inizialmente.