Nel mondo videoludico, le piccole produzioni, specie se indipendenti, sono quasi sempre una scommessa. Molto difficile è prevedere se un’opera sia di qualità o meno in base alle prime impressioni. Nel caso di Sunshine Manor il compito è stato più semplice, data l’esistenza di Camp Sunshine, di cui esso è il prequel.
Fossil Games, la software house dietro lo sviluppo del titolo, è riuscita ancora una volta a proporre qualcosa di semplice ma efficace, tanto a livello di concept e trama quanto a livello tecnico. Persino il publisher, Hound Picked Games, è rimasto il medesimo del primo gioco.
Lungi da noi dire che si tratta di due titoli identici: pur collocandosi nello stesso universo e omologandosi allo stesso genere e stile di Camp Sunshine, Sunshine Manor è un titolo nei fatti differente e tecnicamente superiore al predecessore, configurandosi dunque come un miglioramento da parte del developer.
Ma andiamo a scoprire meglio questa vicenda horror in pixel art adeguata al periodo (siamo in prossimità della Notte delle streghe dopotutto, no?)
Sunshine Manor, ma il sole non si vede
Lo stesso nome del titolo tradisce la verve black humour presente già nel primo gioco.
La storia si apre con un flashback che racconta dell’ascesa e caduta professionale e sociale del signor Aitken, uno showman che conduce un inizialmente poco popolare spettacolo televisivo chiamato The Sunshine Hour nei panni di Mr. Sunshine.
Davanti alla minaccia di vedere il proprio show cancellato a causa dei bassi ascolti, Aitken cade in preda allo sconforto. La situazione si capovolge quando si imbatte in un’enigmatica veggente, che si rivela essere quella stessa Chu’mana che abbiamo incontrato in Camp Sunshine, l’astuta sacerdotessa del demone voodoo Atasaya, vero antagonista della storia.
Ella promette al malcapitato Aitken successo e fortuna nel proprio lavoro, ma ad un prezzo spaventoso, lasciandolo con un ambiguo monito: “Per avere tutto dovrai prima cedere tutto e infine accogliere tutto!”
Il tempo passa e la predizione si avvera: il pubblico impazzisce per The Sunshine Hour e Mr. Sunshine, che diventa talmente ricco da potersi permettere l’edificazione di una sfarzosa residenza che battezza Sunshine Manor. Proprio lì, la notte di Halloween del 1976, il monito di Chu’mana riecheggia nella mente dell’ormai irretito dalla fama showman, che si trova costretto ad andare incontro alla sua maledizione.
Quattro anni esatti dopo la tragedia consumatasi tra le mura della villa, tre ragazzine, reduci da una nottata all’insegna del dolcetto o scherzetto andata male, capitano davanti al suo ingresso. Tra di esse c’è Ada, evidentemente la più piccola e sempliciotta delle tre, che viene sfidata ad entrare per prima nella dimora, ormai in preda allo sfacelo del tempo.
Titubante e comprensibilmente spaventata, la giovane raccoglie il coraggio e varca la soglia, seguita poco dopo dalle altre due, le quali scompaiono quasi immediatamente, catturate da una forza misteriosa.
Tocca dunque ad Ada stessa esplorare la magione in rovina onde salvare le sue amiche. Ciò che ancora non sa è che non sarà da sola là dentro: l’atto nefasto di Mr. Sunshine ha infatti reso il posto una vera e propria prigione per spiriti, ed Ada dovrà farsi carico di liberare anche loro.
Repetita iuvant, e Fossil Games ne è consapevole
Come si è già accennato, Sunshine Manor eredita da Camp Sunshine buona parte del gameplay: ancora una volta il ruolo più rilevante è assegnato all’esplorazione e alla ricerca di item necessari per proseguire nella narrazione, con il combat totalmente assente e sostituito in toto dalle fughe attraverso le porte accessibili, avvicinandosi in questo senso ai nascondini dei survival horror più severi.
Le location esterne più o meno estese del primo titolo lasciano il posto alla apparentemente più contenuta Sunshine Manor, che tuttavia si dimostra ancora più labirintica rispetto alle mappe di Camp Sunshine.
Fondamentale ancora una volta, onde non compromettere l’esperienza rimanendo bloccati, è ascoltare (o meglio leggere dato il doppiaggio sporadico e non sempre presente, per quanto piuttosto efficace a livello recitativo) i dialoghi con la massima attenzione, perché solo all’interno di essi vengono forniti gli indizi necessari a compiere i vari passi necessari per il proseguimento della storia.
Nulla è lasciato al caso, e l’intera ambientazione, complice anche la sua dimensione più o meno a misura d’uomo, finisce per configurarsi come un mastodontico puzzle che non lesina, accanto agli item effettivamente utili ad Ada, la presenza di easter egg inerenti sia al primo gioco (e.g. la versione peluche della mascotte di Camp Sunshine, il cui costume era in quel caso indossato dall’assassino) che alla cultura pop di ieri e di oggi (come del resto avveniva anche in Camp Sunshine, con la maschera di Jason Voorhees nel lago oppure la macchina da scrivere di Jack Torrance in uno dei bungalow).
Il tutto diviene ancora più interessante se si pensa che ogni volta che si deve liberare uno spirito la villa cambia completamente volto, riflettendo l’animo e i peccati di Mr. Sunshine con una finezza artistica da fare invidia ad un Dante’s Inferno (2010).
Miglioramenti ovunque, ma sonoro tutto da sistemare
Accennata già la qualità del poco preponderante doppiaggio, di cui si percepisce comunque poco la latitanza, la problematica che affligge di più Sunshine Manor è legata a doppio filo al comparto sonoro, che in alcuni punti risulta totalmente asincrono rispetto all’azione e quasi distorto. Il medesimo problema coinvolge anche la colonna sonora, che pur essendo di qualità nonostante i comprensibili 8-bit in cui è realizzata, riesce in quei punti a causare addirittura mal di testa, rendendo meno godibile l’esperienza.
A livello grafico si riscontra una maggiore fluidità dell’azione, in special modo nei movimenti di Ada, che procede in maniera più spedita e naturale rispetto a Jez, l’indisponente e sboccato giovanotto protagonista di Camp Sunshine.
Le interfacce, sebbene curate dal punto di vista estetico, soffrono di qualche problema a livello di navigazione, così come le stesse interazioni di Ada con l’ambiente, complice l’assenza di una precisa demarcazione tra ciò con cui il nostro personaggio può interagire e ciò che invece è inutilizzabile.
Al netto di tali problematiche, tutte risolvibili, questa aggiunta all”universo Sunshine‘ (si può già tranquillamente chiamarlo così) è degna di essere giocata tanto quanto il suo predecessore/sequel ed è doppiamente da non perdere se hai giocato Camp Sunshine.