Non ci sono dubbi: l’open world è il genere più diffuso degli ultimi anni. Molti dei maggiori titoli di successo del decennio hanno implementato al proprio interno una componente da “mondo aperto”, in maniera più o meno profonda.
Mi sono immerso in questi universi vastissimi per tante volte, perdendomi in quei mondi intricati e provando il brivido dell’esplorazione; tuttavia, negli ultimi anni ho cominciato a realizzare una grande e triste verità: col tempo, sono diventato sempre più insofferente di fronte agli open world.
Tutto deve per forza essere GROSSO
Partiamo da un presupposto fondamentale: al giorno d’oggi moltissime software house continuano a credere che un titolo, per risultare accattivante e raggiungere più giocatori possibili, debba necessariamente avere una mappa enorme.
Per quanto il concetto di open world sia sempre stato presente nell’industria dei videogiochi, nel periodo tra settima e ottava generazione di console (PlayStation 3 e PlayStation 4, per intenderci) sono stati sfornati sempre più titoli che ci offrivano una mappa sterminata, da esplorare in ogni suo angolo; inoltre, il concetto di open world ha progressivamente cambiato significato (a mio parere, in peggio).
In particolare, Ubisoft ha definito un paradigma che è stato sempre più seguito: creare un mondo sempre più grande e oscurare le sezioni della mappa, rendendole accessibili solo dopo avere scalato delle torri e “sincronizzato” i dati ricevuti.
Durante la mia adolescenza adoravo salire in cima al Campanile di San Marco in Assassin’s Creed II o alle torri di comunicazione radio di Far Cry 3, svelando nuovi segmenti di mappa e angoli da scoprire; mi ritrovavo immerso in mondi accattivanti, pieni di carattere e che davano una genuina sensazione di “freschezza”.
Col tempo, tuttavia, titoli di questo tipo hanno cominciato a essere sfornati uno dietro l’altro, andando a toccare persino quelle saghe che non erano mai nate per uno sviluppo del genere. Come per qualsiasi cosa, l’infinita ripetizione rende il prodotto banale e scontato, privo di un effettivo appeal.
Oggi creare una mappa grande è un assoluto must per buona parte delle software house, specialmente quelle che producono titoli tripla A; tuttavia, nella maggior parte dei casi ci si occupa solamente della quantità e non della qualità.
Mi spiego meglio: è come se gli sviluppatori volessero creare un universo sterminato senza preoccuparsi di renderlo accattivante e piacevole da esplorare. Non solo molte dinamiche si ripetono continuamente, ma lo fanno all’interno di una realtà che non fornisce ricompense veramente appaganti e uniche; vengono sparse qua e là monete, gemme, equipaggiamenti che riescono a soddisfare solamente il senso da “completista” di chi vuole mettere sullo scaffale il gioco solo dopo averlo finito al 100%.
Chi, invece, vuole godersi l’esperienza concentrandosi sulla trama principale o sullo sviluppo dei personaggi è costretto a percorrere sterminati spazi vuoti, a spammare la funzione di viaggio rapido perché non si è stimolati a osservare bene l’universo circostante, godendosi quei dettagli che fanno la differenza e che sembrano fare respirare il gioco.
Non sei open world? Lo diventi
Il risultato finale è che molte saghe (o singoli titoli) che non erano state minimamente pensate per uno sviluppo open world (in senso moderno) si sono ritrovate ad adottare forzatamente dinamiche che le hanno completamente snaturate. Ti faccio un esempio che vale per tutti (chi mi conosce bene sa che è il mio tallone d’Achille): Breath of the Wild.
Non mi soffermerò troppo sul perché BotW non mi è piaciuto (se sei interessato, qui trovi il mio articolo incriminato), ma ci tengo a prenderlo come esempio principe di quanto ho appena detto. La mappa di BotW è sterminata e allo stesso tempo piena di nulla: gli sviluppatori hanno pensato bene di spargere 900 collezionabili (e sottolineo, 900) che in realtà fungono da semplice riempitivo per spazi che altrimenti sarebbero stati totalmente ignorati dal giocatore.
Che senso ha creare ambienti così grandi se poi non si stimola nel player la voglia di esplorarli? Che senso hanno tutti i dettagli ambientali se poi ho voglia di concentrarmi solamente sulla trama principale (ed eventualmente qualche missione secondaria)? Questo è uno dei principali rischi che il moderno concetto di open world porta: rendere i titoli sempre meno story driven e sempre più dispersivi.
La componente narrativa ha insomma perso spesso il proprio mordente, e persino titoli come Zelda (il quale, lo dice il titolo, è una “leggenda”, cioè la storia di una saga epica) hanno visto depotenziate le proprie linee narrative, in favore di mondi di gioco che promettono di impegnarti più di 100 ore, di cui però i momenti veramente memorabili non superano neanche i 120 minuti.
La mania di “avercelo grosso” (scusa il gioco di parole) ha prodotto uno squilibrio enorme; nel mio caso, inoltre, ha completamente mutato il mio approccio ai titoli videoludici. Per quanto sia stato appassionato di questo genere, col tempo (e specialmente dopo BotW, la vera delusione leopardiana della mia vita) ho cominciato a sopportare sempre di meno i mondi sterminati, preferendo invece le mappe più contenute e, anzi, i titoli che non hanno affatto una mappa in cui muoversi.
Un esempio per tutti: Triangle Strategy. L’ultimo, grande JRPG rilasciato da Square Enix è riuscito a rapirmi con la sua straordinaria narrativa e le musiche mozzafiato, senza bisogno di offrirmi un universo sterminato in cui muovermi per potermi sentire soddisfatto. Certo, sono generi completamente diversi, ma credo sia un ottimo esempio per fare capire come non sia necessaria una mappa immensa per rendere un titolo accattivante.
Anzi, forse è proprio il contrario: nella proliferazione di open world e di universi sempre più grossi, forse occorre ridare valore a quelle realtà più piccole, ai mondi piccoli ma estremamente curati, capaci di regalarci dettagli che ci fanno emozionare e rimanere impresso il titolo. La memorabilità di un videogioco si misura proprio in questo: non su quanto è grande la mappa, ma su quanto gli scenari, i personaggi, gli avvenimenti riescono a risultare accattivanti.
L’open world mi ha reso un gamer diverso
Dall’altro lato, mi sono ritrovato di fronte a Horizon: Forbidden West senza alcuna volontà di iniziare le missioni secondarie o le attività extra: ho svolto solo le quest relative ai personaggi del team (Kotallo, Alva, Zo per intenderci), ignorando tutto il resto e concentrandomi sulla trama principale. Non l’ho fatto perché non ritengo Horizon FW accattivante: l’ultimo titolo di Guerrilla è un ottimo open world, cosparso di attività diversificate e centinaia di PNG curati nel minimo dettaglio (anche e soprattutto a livello di motion capture).
Ho skippato le attività extra di Horizon perché gli open world hanno iniziato a provocarmi una genuina ansia; non quell’ansia di cui tutti si riempiono la bocca e che le ragazzine stampano sulla maglietta, ma il verso senso di angoscia nel ritrovarsi troppe cose tra le mani senza avere la sensazione di stare effettivamente “giocando”. Quest secondarie, raccolta di collezionabili, missioni di caccia: tutto mi è sembrato evitabile, privo di mordente e di memorabilità.
L’approccio agli ultimi open world (come, appunto, Breath of the Wild) ha insomma completamente mutato la mia considerazione dei videogiochi. Forse, però, non è del tutto sbagliato: proprio come cambiano i gusti musicali o cinematografici, anche quelli videoludici possono subire netti stravolgimenti, che siano più o meno vicini al mood in cui qualcuno si ritrova a vivere. Siamo esseri umani, circondati da cambiamenti perenni e sentimenti mutevoli: per noi gamer appassionati è forse normale trovare un riflesso anche nei titoli che più amiamo.
Tuttavia, rimane il fatto che il concetto di open world abbia completamente fagocitato tante realtà e produzioni, instaurando un circolo vizioso da cui penso sarà difficile uscire per un po’ di anni; basti pensare al fatto che persino il prossimo gioco di una saga come Sonic sarà completamente open world. Non nascondo le mie preoccupazioni, e soprattutto riconosco che l’open world sta diventando uno dei generi più lontani da me.
Credo che buona parte dell’industria videoludica debba capire una cosa: non basta dire “io ce l’ho grosso” per potere essere ritenuti credibili da tutti; anzi, forse in questa continua competizione bisognerebbe dare più spazio a chi “ce l’ha piccolo”, ovvero a quei mondi più modesti e apparentemente poveri che, in realtà, ci restituiscono momenti memorabili. Preferisco svolgere un’unica attività emozionante piuttosto che 10 quest secondarie fatte con lo stampino.
Propongo un nuovo hashtag per gli sviluppatori: #amepiacepiccolo. Chi vuole intendere, intenda.