Reggiti forte lettore, perché nella puntata di oggi di Old but Gold ti parlerò di Dead Space.
Per mia grande sfortuna, ho sempre amato il genere horror che si tratti di film o di videogiochi. Un genere videoludico che, oltre ad essere molto popolare tutt’oggi, esplose dalla metà degli anni 90′ fino ai primi anni del 2000, con produzioni perlopiù nipponiche a farla da padrone. In quegli anni a dominare la scena erano i popolari Resident Evil e Silent Hill, accompagnati da altrettanto validi compagni come Project Zero, Forbidden Siren e Dino Crisis, soltanto per citarne alcuni.
Investiti da questa febbre anche gli sviluppatori occidentali si cimentarono in produzioni più cupe come il primo il primo F.E.A.R (che già si ispirava The Ring, riavvicinandosi quindi però al sol levante), Amnesia The Dark Descent e il più “recente” Outlast. Titoli si di gran pregio, ma che alla fine non risultavano disturbanti come quelli che arrivavano da oriente.
Il resto delle produzioni di “sottobosco” erano solo pallide e poco ispirate imitazioni di quanto già arrivato dal Giappone. Sarà forse per questo che un titolo come Dead Space, in mancanza di altri survival horror sci-fi di gran rilievo, entrò nel cuore degli appassionati del genere. Amato a tal punto che tutt’oggi si sta lavorando a un remake, anche se ormai lo sviluppatore originale Visceral Games ha chiuso i battenti.
Dead Space, un miscuglio narrativo in grado di trascinarti con se!
Dead Space è uno quei pochi esempi da prendere a modello quando si vuole fare un videogioco che prende palese ispirazione da altri prodotti. Gli sviluppatori stessi hanno ammesso di aver preso ispirazione da film come Punto di non ritorno, Event Horizon, Alien, La Cosa e a videogiochi come Resident Evil, la serie Silent Hill, per arrivare persino ai lavori del regista statunitense David Fincher.
Visceral Games ebbe la magnifica capacità di rimescolare tutti gli elementi caratteristici di questi prodotti, aggiungendo un personale pizzico di originalità e follia, e fondendo il tutto in un prodotto che sa di nuovo.
Per farti due esempi che ti faranno capire cosa intendo, nel gioco sono presenti un gran numero di “zombie” chiamati necromorfi. I necromorfi sono cadaveri mutati, rimodellati in forme da incubo da un’infezione aliena. Non basta sparargli, ma dovrai letteralmente farli a pezzi finche non smetteranno di muoversi.
Queste creature escono da ovunque riescano a passare, spesso e volentieri da condotti d’areazione proprio come gli xenomorfi di Alien. E come avrai notato, le due creature hanno anche un nome molto simile.
Un altro elemento che Dead Space riutilizza a suo vantaggio è la visuale in terza persona decentrata alla Resident Evil, unita a una scelta di design ben congegnata: la lentezza e la goffaggine del protagonista Isaac Clarke.
Se ai meno attenti questo può sembrare un difetto del gioco, in realtà si tratta di una feature spesso voluta: la difficoltà nel manovrare Isaac è funzionale proprio ad aumentare l’ansia e il panico nel combattimento contro i necromorfi. Inoltre la visuale decentrata e la lentezza costringono quasi sempre ad affrontare le immonde creature affette dal Marchio, rendendo molto pericoloso provare a dargli le spalle piuttosto che tentare di massacrarle.
La celebrazione del massacro
Il gameplay era un’altra piccola grande perla del gioco. La violenza efferata era parte integrante del combattimento ai necromorfi che potevano essere smembrati, calpestati fino a farli diventare paté, fatti esplodere e si poteva addirittura utilizzare le loro stesse armi contro di loro.
Grazie all’introduzione nel combat system di “poteri” dinamici alla Bioshock, era possibile raccogliere con la telecinesi arti mozzati (e molto affilati) e lanciarli contro il necromorfo a cui li avevamo precedentemente recisi. Divertentissimo!
Oltre ad armi che funzionavano con modalità alternative, elemento che forniva ancora più diversità alla nostra operazione di smembramento, Dead Space vantava altri pregi, come scenari di combattimento a gravità azzerata in intere sezioni di gioco e l’HUD diegetico.
Soprattutto quest’ultima feature è davvero interessante e vale la pena di parlarne, visto che la rivedremo presto anche nel remake spirituale The Callisto Protocol.
Cos’è l’HUD diegetico? In breve l’interfaccia di gioco non è in sovrimpressione ed esterna, ma viene contestualizzato direttamente nel mondo di gioco: il menù di armi e oggetti in Dead Space viene mostrato come un ologramma che scaturisce dal proiettore olografico di Isaac ed è possibile vedere i parametri vitali del protagonista direttamente dalla sua schiena.
L’apertura dei menù non interrompe il gioco in quanto, come già detto, sono anch’essi parte del mondo di gioco; un elemento sicuramente secondario, ma che rafforza a dismisura il patto narrativo che lo sviluppatore stipula con il videogiocatore e di certo non aiuta nei momenti più complicati del gioco!
Se poi ci si aggiunge sullo sfondo la claustrofobia che la nave Ishimura sa regalare, non è poi così difficile capire perché il cocktail di Dead Space al gusto terrore e ansia sia rimasto così impresso nei videogiocatori.
Non sarà perfetto, ma di certo è indimenticabile
Non è tutto oro quello che cola, come per tutti i videogiochi. Il primo Dead Space soffriva un po’ di una caratterizzazione di Isaac Clarke troppo passiva, con quest’ultimo completamente muto e quindi di poco fascino. Come per Crysis 2, è piuttosto difficile entrare in empatia con personaggi che non dicono una sola parola.
L’altra magagna è proprio nelle animazioni. E qui potresti chiederti, ma non avevi appena detto che la lentezza e la goffaggine del protagonista erano elementi inseriti appositamente nel gioco? Nonostante questa cosa sia vera, purtroppo alcune delle animazioni di Dead Space erano veramente troppo meccaniche. Un qualcosa che è stato quasi completamente risolto nel sequel.
In sintesi, non sarà stato un gioco perfetto, ma Dead Space rimane un capolavoro intramontabile. E se ancora non l’hai giocato, corri a farlo perché non sai cosa ti stai perdendo!