I videogiochi come li intendiamo oggi esistono ormai da più di cinquant’anni, e come è normale che sia la tecnologia avanza, migliora: sempre più poligoni vengono aggiunti ai nostri omini virtuali, gli sviluppatori pensano a come rendere più credibili i capelli dei personaggi, o a come rendere gli effetti di acqua e fiamme più realistici. Ovviamente non è sempre stato così: mentre oggi il medium si sta levigando sempre di più, anche se sono ormai anni che il videogioco ha raggiunto il fotorealismo, una volta si era alla scoperta di cosa potesse offrire il videogioco.
Dagli albori fino a oggi
E come spesso capita con il cinema si considerano i titoli del passato come i veri capolavori, i “classici”: titoli che in un modo o nell’altro hanno trainato questa neonata forma d’arte, anche se all’epoca non si pensava affatto al videogioco come arte. Ma cosa può definire l’arte? Se negli anni ’50 i primissimi “videogiochi” sono stati creati come esperimenti, praticamente un’estensione dell’elettronica, a metà anni ’70 e nei pieni anni ’80 sono diventati una nuova forma di intrattenimento, per molti non troppo dissimile dalla televisione.
Ma sarà circa dagli anni ’90 in poi che nasceranno sviluppatori volenterosi di donare qualcosa in più di semplice intrattenimento alle menti dei più giovani. Iniziano a venire rilasciati quelli che saranno i capisaldi del proprio genere: se nel ’96 esce Resident Evil, il primo di una saga che, ispirandosi fortemente ai film del geniale George A. Romero, reinventa il genere Zombie e crea quello che potremmo chiamare il videogioco di genere; nel ’98 esce il titolo che cambierà per sempre i videogiochi come li concepiamo. Metal Gear Solid è il titolo che da solo ha cambiato le carte in tavola, distruggendo le convinzioni di chi credeva che questo fosse solo uno strumento per divertirsi.
Quando tutto è cambiato
Hideo Kojima ama una cosa al mondo più di qualunque altra: il cinema. E ispirandosi al cinema d’autore come quello di John Carpenter, ha ribaltato la concezione di videogioco, creando una vera opera d’arte che rimarra scolpita nella memoria dell’umanità negli anni avvenire. Ormai non si può più parlare di videogioco senza parlare di Metal Gear: la saga che ha reso il medium quello che è oggi, sempre più vicino al cinema, con grafiche mozzafiato e storie degne di Hollywood, tutto quasi trent’anni fa.
Un’altra cosa che il cinema nel corso degli anni ha cominciato sempre più a condividere con i videogiochi e il proliferare dei remake, belli o brutti che siano. E non è sicuramente una cosa degli ultimi anni: se nell’82 il già citato Carpenter porta al cinema La Cosa, i videogiochi hanno sembre subito delle riesumazioni, che fossero o no ben volute. Basti pensare a quante versioni di Space Invaders o Tetris esistono al mondo, o al milione di versioni di Street Fighter II che sono uscite nel corso degli anni. Il concetto di remake e remaster si è formato però negli ultimi anni, perché per essere precisi nei casi precedenti stiamo parlando di porting, o di riedizioni.
Le riproposizioni videoludiche moderne
Oggi proprio di questo parleremo: remake e remaster, sono o non sono una manna dal cielo, oppure la rovina definitiva di un mercato che non ha più niente da raccontare ed è costretto a riutilizzare le stesse idee di vent’anni primi saturando quindi lo stesso mercato che cerca di riporate a galla e creando un Uroboro che ne provocherà il collasso nel giro dei prossimi anni… ? Chissà? Ma per chi non lo sapesse è bene spiegare la differenza tra remake e remaster. Mentre una remaster è quello che io chiamo volgarmente un “copia-incolla” del gioco nella sua interezza, con migliorie grafiche così da renderlo godibile e ottimale per gli hardware odierni; un remake è una ricostruzione del gioco, non fedele in tutto e per tutto, che cerca di modernizzare un titolo datato con meccaniche nuove e al passo con i tempi.
Riprendendo il paragone cinematografico: potremmo considerare remaster lo Psycho di Gus Van Sant, in quanto è una riproposizione del capolavoro di Hitchcock ripresa inquadratura per inquadratura, con poche differenze dall’originale, senza contare ovviamente i nuovi attori e i colori. Per un pugno di dollari d’altro canto sarebbe un remake de La sfida del samurai, di Akira Kurosawa, da qui Sergio Leone riprende la trama ricontestualizzandola in un’altra epoca e trattando altri temi, e ovviamente girando il tutto con il suo stile.
Ma cosa distingue una buona riproposizione videoludica da un prodotto mediocre fatto solo per mungere un titolo? Per quanto mi riguarda sono due gli aspetti importanti, innanzitutto le idee, e non parlo solo di nuove idee che possono aggiungere qualcosa al titolo: nuove meccaniche di gameplay o un eventuale restyling grafico, ma anche l’idea dietro al remake. Perché rifare questo gioco in primo luogo? Cos’è che ha portato gli sviluppatori a voler riproporre un titolo che magari ha vent’anni e aveva forse già dato abbastanza? L’altro elemento importantissimo, e so che sembro romantico a dirlo, è l’amore. Dico amore per semplicità ma intendo una genuina voglia da parte degli sviluppatori di riproporre una storia ai giorni nostri.
La revoluzione di Resident Evil 2 Remake
Per me, ma come per tutti spero, le migliori riproposizioni che l’industria ha partorito negli ultimi anni sono senza dubbio i vari remake di Resident Evil, che dal 2019 ci deliziano con un gameplay nuovo, fresco: una vera riesumazione che riesce a riportare un gioco del 1998 ai giorni nostri, a più di vent’anni dopo dal titolo originale. Il bello di questo remake è la freschezza nel gameplay, nella narrazione, nei nemici, insomma funziona tutto. Ma perché? Perché Capcom è probabilmente a oggi la miglior software house sul mercato, e nel 2019 aveva davvero voglia di riportare in vita un vecchio gioco per PlayStation che ancora oggi la gente acclama, ma che sicuramente sente il peso del tempo sulle spalle.
E sta proprio qui la genialità del tutto, nel non fare quel “copia-incolla” di cui ho parlato prima, ma cambiare le cose dove serve, alterare quella che è un’esperienza ferma nel suo tempo e portarla nel nuovo millennio, cristallizzandola nelle nuove generazioni. E secondo me è questo che rende Resident Evil 2 Remake un capolavoro, la voglia di creare qualcosa di nuovo, che si inspiri in parte al materiale originale, ma che abbia la sua visione di quella che è una storia già raccontata.
L’inizio del declino
Un discorso diverso secondo me è necessario per il remake di Resident Evil 4; con cui inizio il discorso sui remake inutili, anche se questo titolo non rientra appieno in quella categoria. Prima di cominciare il discorso voglio sottolineare che secondo me questo titolo è un giocone, ci ho passato quasi 100 ore e l’ho platinato, e l’ho apprezzato davvero tanto, ma nonostante questo lo ritengo inferiore al remake del secondo capitolo. Quello che non ho apprezzato è stata non la mancanza, ma la povertà di nuove idee. Capiamoci, RE4 non è un brutto remake, ma innova davvero poco da quello che è stato nel 2005 il titolo originale, che ha rivoluzionato la saga, nonché il genere stesso dei survival horror.
Mentre RE2 remake stravolge completamente il titolo, cambiandolo alla base, col quarto capitolo non si è riusciti ha dare la stessa sensazione di stupore e traspaiono molte delle meccaniche che oggi potremmo considerare datate, come la presenza del mercante ad esempio, o il sistema di inventario. Al giorno d’oggi non è più credibile pensare che in narrativa Leon si porti appresso una valigia che può contenere: un mitra, un fucile a pompa, granate e accessori per le armi, un revolver lungo quanto un braccio e un lanciarazzi grosso quanto il protagonista. Capcom si sarebbe anche potuta risparmiare tutte quella battute ridicole o le scene trash degne dei film con gli zombie di serie B e attenersi al tono più cupo dei capitoli precedenti.
Ma dopotutto è anche questo che amo di Resident Evil 4: l’anarchia di un gruppo di sviluppatori che osa nel mischiare un’ambientazione gotica e spettrale a inseguimenti dove dobbiamo scappare dalla statua di un nano gigante che sputa fuoco, o creare un personaggio in grado di deflettere una motosega con il semplice ausilio di un coltello da cucina. In ogni caso è un titolo che consiglio a tutti, anche a chi non ha giocato all’originale o agli altri remake, dato che praticamente ogni capitolo ha una trama separata.
Il proliferare delle remaster inutili
Ora ci addentriamo nel reame dei remake e delle remaster inutili, quelle che non portano niente di nuovo al mercato e servono solo a mungere soldi dai fan abbastanza idioti da comprare due o più volte lo stesso gioco. So che potrebbe far arrabbiare qualcuno ma come esempio massimo per spiegare cosa penso di questo tipo di mosse commerciali parlerò di The Last of Us, e delle remaster del primo e secondo capitolo.
Vorrei partire dal fatto che non ho mai apprezzato la saga: l’ho sempre vista come una classica storia familiare, in cui i protagonisti pian piano scenderanno a patti con il loro passato e impareranno ad amarsi; una storia ormai trita e ritrita che purtroppo nell’acclamato titolo Naughty Dog, non viene arricchita da molto altro, se non da un banale messaggio riguardo il mostro dentro di noi e come i veri cattivi siano gli uomini e non gli zombie. La cosa che sicuramente funzionava era il rapporto tra i due protagonisti, l’unica cosa che mi ha trascinato fino alla fine del gioco, nonostante il finale, almeno secondo me, fosse abbastanza scontato.
Il declino vero e proprio
Già con l’uscita della remaster di questo titolo iniziai a storcere il naso, non tanto per la remaster in se, ma il fatto che sia uscita a neanche un anno di distanza dal titolo originale, e anche con la mia mente al tempo smaliziata la vidi come una mossa per racimolare altri soldi dai fan, vendendo il gioco ovviamente a prezzo pieno. E non potete immaginare il mio entusiasmo quando ho saputo della remaster di The Last of Us Parte 2, un titolo uscito appena tre anni prima dell’originale, ottimizzato per le nuova PlayStation 5.
Questo è quello che personalmente chiamo il declino: un’industria con così poche idee da dover produrre se va bene i seguiti dei seguiti dei seguiti, mentre nel peggiore dei casi rivendere a prezzo pieno giochi appena usciti. Poi come se The Last of Us 2 avesse bisogno di un miglioramento grafico: è quasi meglio della vita reale da quanto è graficamente impeccabile. Ogni singolo pelo del viso è stato modellato, l’acqua è perfetta, i vestiti svolazzano nel modo giusto; questo titolo era già perfetto, graficamente intendo, così com’era. Il vero problema però non sono le remaster, ma la gente che le compra: vacche da latte che prontamente gli sviluppatori mungono fino all’ultimo centesimo, e che sono felici di comprare tre volte lo stesso gioco.
Le ultime considerazioni
Come lo scempio di GTA 5: non è possibile che Rockstar riesca ancora a vendere questo gioco dopo più di dieci anni dall’uscita. Ho capito che GTA 6 costerà un miliardo di dollari da produrre, ma potrebbero limitare questa meschina manovra di rilasciare lo stesso gioco ogni anno per una piattaforma diversa. Purtroppo il capitalismo ha inghiottito anche il mondo dei videogiochi e probabilmente non usciremo mai da questa situazione e tra dieci o vent’anni vedremo “Resident Evil 4 Remake Remaster” e “The Last of Us Parte 1 + 2 Remake Collection”, tutto ovviamente sparato a settanta euro come minino, che probabilmente con l’inflazione diventeranno novanta o cento. E io starò con la mia PlayStation 2 a giocare a Tenkaichi 3, un gioco che dopo più di vent’anni sta ancora avanti a tutti gli altri e non è infarcito di DLC fino al midollo come sarà Dragon Ball Sparking! Zero quando uscirà.