Se quando qualcuno nomina un “pollo di gomma con una carrucola” o una “scimmia a tre teste” non lo prendi per un pazzo ma ti si illuminano gli occhi, probabilmente conosci più che bene Monkey Island. Stiamo parlando di un titolo che ha segnato una generazione, ma probabilmente anche di più, e che ha lasciato un segno non indifferente nel mondo delle avventure grafiche e del genere punta e clicca. E mentre tutti aspettano un altro capitolo della saga, il titolo vede la pubblicazione di un suo documentario dedicato, intitolato “Returning to Monkey Island”. A realizzarlo e pubblicarlo su Youtube è stato NoClip, autore già di altri interessanti approfondimenti, dedicando al titolo ben un’ora e mezza di narrazione.
Qualora non conoscessi il titolo (ti consigliamo di recuperarlo!), Monkey Island è un’avventura grafica in terza persona firmata LucasArts, presentata sul mercato per la prima volta nel 1990. In più di trent’anni ne sono cambiate di cose, a partire dalla grafica, ma la sostanza resta sempre quella.
Monky Island, le origini
La storia narra le vicende di un giovane e biondo Guybrush Threepwood, “temibile pirata”. O meglio, è ciò a cui il nostro protagonista aspira a diventare nelle sue mirabolanti avventure. Ebbene si, perché in Monkey Island inizierai come un semplice aspirante pirata che si imbatterà in maledizioni voodoo, avventure al limite dell’assurdo e rompicampo che possono tenerti incollato al pc per ore e ore. Elementi di supporto al protagonista troviamo Elaine, l’amore della sua vita, una donna risoluta e, ovviamente, anch’essa pirata, e l’acerrimo nemico di Guybrush, il Capitano LeChuck.
Il primo capitolo, The Secret of Monkey Island, fu pubblicato per PC, Machintosh e Atari su floppy disk, al quale seguì solo successivamente una versione su cd. La grafica era ovviamente quello che all’epoca si poteva definire rivoluzionario, mossa dal sistema SCUMM (che verrà più volte menzionato nei giochi stessi, con riferimenti affatto velati) e presentava un menù di opzioni nella parte bassa dello schermo che consentivano di eseguire le azioni. Un vero e proprio punta e clicca, in poche parole. Nel primo capitolo, Guybrush, approdato sulla caraibica isola di Melee Island, intende diventare un temibile pirata e sarà proprio all’inizio delle sue avventure che conoscerà Elaine e LeChuck, come suo rivale in amore, per poi approdare su Monkey Island.
Al primo fortunato capitolo sono seguite poi le altre avventure di Guybrush, sempre diviso tra la sua amata Elaine e l’acerrimo nemico LeChuck, con alcuni personaggi secondari ricorrenti nei vari titoli, come Voodoo Lady o Stan.
Nel 1991 arriva Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, che vede una grafica migliorata, sempre rispetto ai limiti del periodo. Il tutto ruota attorno alla ricerca del famoso tesoro Big Whoop, noto per la sua grandezza e per il potere che ne deriva, in grado di salvare LeChuck dalle sue condizioni di non-morto.
I cambiamenti nel corso degli anni
Ma è con il terzo capitolo, The Curse of Monkey Island, che arriva il vero salto di qualità. Prodotto nel 1997 con tecniche che rivoluzionano il titolo, è probabilmente il più apprezzato non solo in termini di storia ma soprattutto grafici. Il giocatore si trova di fronte un’avventura disegnata in stile cartone animato a 256 colori. Anche la musica cambia, aprendosi a vere e proprie colonne sonore dal gusto caraibico e un po’ comico, diventate iconiche per Monkey Island. Addio anche alla barra dei comandi inferiore, per dare spazio a un menù interattivo a forma di doblone dorato che appare cliccando sugli oggetti stessi.
Ma soprattutto è in questo capitolo che Guybrush, salvando per l’ennesima volta Elaine dalle grinfie di LeChuck, riesce a conquistarla… più o meno.
Nel 2000 vede la luce Escape from Monkey Island, il quarto capitolo della saga, che approda su PC e su PlayStation 2 e che sorprende per le sue grafiche piuttosto “gommose”, rese possibili dal motore grafico GrimE. La storia vede Elaine governatrice di Melee Island, mentre Guybrush sarà ancora una volta alle prese con LeChuck, alleatosi con un losco figuro che vuole eliminare tutti i pirati dai Caraibi.
A quasi 10 anni di distanza viene rilasciato Tales of Monkey Island, il quinto capitolo, in cui troviamo un Guybrush decisamente più maturo e una componente grafica che va sempre migliorando. La particolarità di questo titolo è stata il rilascio: i cinque capitoli che compongono la storia sono stati pubblicati uno per volta a cadenza mensile. Nel frattempo i fan storici hanno iniziato a lamentare enigmi troppo semplici da risolvere, il che riduce notevolmente i tempi di gioco.
Ed è solo nel 2022, circa 12 anni dopo l’ultimo capitolo, con Return to Monkey Island, che si tornerà a vestire nuovamente i panni di Guybrush Threepwood, il nostro amato temibile pirata. Il gioco vede anche il ritorno del suo creatore, Ron Gilbert, il quale aveva deciso di lasciare la serie dopo la chiusura di LucasArts. Il capitolo mantiene inalterata la sua forma di avventura grafica 2D punta e clicca e ci riporta indietro nel tempo in luoghi probabilmente noti ai giocatori storici, ma completamente nuovi in termini di dettaglio grafico. La storia è un collegamento diretto sia al secondo capitolo che agli altri, con non pochi deja-vù riguardo i precedenti capitoli.
Il documentario
Dopo un’infarinatura generale sul titolo, sia per rinfrescare la memoria a qualcuno sia per illuminare chi è sicuramente pronto a recuperare le lacune, veniamo al documentario firmato NoClip. In un’ora e mezza di video sono raccolti più di 30 anni di storia di Monkey Island, raccontati in prima persona da chi il gioco l’ha pensato, l’ha creato e l’ha poi visto nascere.
Il documentario si divide in sei parti più un epilogo (“La parte finale”), all’interno delle quali viene ripercorsa non solo la storia di Guybrush, ma anche e soprattutto quella di coloro che hanno collaborato allo sviluppo dei capitoli fino all’ultimo Return to Monkey Island. Vengono narrate le scelte di trama e di stile, i dettagli della storia e della programmazione, la scelta di fare un salto nel vuoto e abbandonare lo stile in pixel art per passare a una grafica in stile cartoon dipinto a mano e successivamente a una più consistente. Un documentario che, appassionati o meno, vale senza dubbio la pena di esser visto.