La scelta del comitato Olimpico di includere alcuni videogiochi tra gli sport riconosciuti ha destato scalpore tra molte persone. Dato che l’argomento è sempreverde, possiamo fare un po’ di chiarezza e parlare degli E-sport.
Il comitato Olimpico non ha dichiarato che giocare equivale a svolgere attività fisica o che tutti gli esponenti del medium videoludico siano sport. Di fatto, è stato detto che alcuni titoli particolari, definiti “E-Sport”, sono considerabili, appunto, sport. Lo scopo di questi giochi non è più quello di divertirsi o di passare il tempo, ma è quello di competere contro altri giocatori, spesso nel corso di tornei ufficiali, proprio come in qualsiasi competizione sportiva. Infatti, come qualsiasi sport tradizionale anche gli E-Sport richiedono preparazione e dedizione.
Questo concetto può sembrare insolito per il contesto in cui viene comunemente inserita la parola videogioco, spesso visto come una perdita di tempo in cui non si realizza nulla di concreto. La verità è che il medium videoludico si è evoluto molto dalla sua nascita e ospita oggi un panorama di esperienze estremamente variegate, in grado di coinvolgere target diversi che vanno da un pubblico giovane a uno più maturo. Ciò è confermato anche dalla presenza di un sistema di classificazione dell’età, denominato PEGI. Non è quindi raro al giorno d’oggi trovare esperienze più o meno complesse, a volte veicolo di messaggi o critiche sociali, comunicati dagli sviluppatori sfruttando l’immedesimazione intrinseca al medium (possiamo citare Life is Strange, Spec Ops: The Line e Bioshock).
Per questo motivo a volte è possibile imbattersi anche in titoli dalle meccaniche estremamente complesse, pensate appositamente per una competizione agonistica e che richiedono studio, allenamento e tattica, spesso all’interno di squadre composte da più elementi (ad esempio DOTA 2, StarCraft 2 o Counter Strike). Esattamente come richiesto da molte discipline sportive, questi titoli hanno uno skill ceiling molto alto, permettendo ai giocatori migliori di raggiungere una padronanza magistrale delle meccaniche di gameplay. Quest’ultimo, peraltro, è spesso strutturato in modo da essere totalmente bilanciato, mettendo tutti gli utenti sullo stesso piano.
In pratica, anche i videogiochi richiedono abilità, di conseguenza possono essere protagonisti di competizioni. Anzi, proprio il fatto che il giocatore debba interagire (e quindi metterci un minimo di sforzo) è la caratteristica principale del medium.
Quindi i videogiochi sono sport?
Tuttavia questo non è l’unico motivo che ha causato lo scetticismo generale a cui assistiamo: nel nostro uso quotidiano la parola “sport” viene spesso utilizzata quasi come sinonimo di “attività fisica”, pur avendo una valenza maggiore e un significato diverso. Infatti nella sua definizione sono comprese anche attività psichiche e manifestazioni agonistiche dalle caratteristiche che vanno ben oltre la prestazione fisica. Anche negli sport tradizionali possiamo vedere alcune discipline in cui la performance non verte sulla preparazione atletica, basti vedere attività come gli scacchi, la moto GP, l’equitazione o il tiro con l’arco o con la carabina.
Queste ultime discipline si focalizzano sulla coordinazione dell’atleta. I videogiochi appartengono proprio a quest’ultima categoria, richiedendo al giocatore una perfetta coordinazione occhio-mano. Per esempio, un giocatore professionista del famoso strategico StarCraft è in grado di eseguire circa 9 azioni al secondo, quasi in contemporanea, avendo in mente tutto ciò che sta accadendo, all’interno di una strategia più ampia.
Una coordinazione simile, sia nell’ambiente di gioco,sia nella prestazione puramente fisica (per esempio: premere i tasti velocemente presuppone memoria muscolare), richiede un allenamento costante e delle abilità che generano una competizione agonistica, composta da persone che non sono più “giocatori” ma veri e propri professionisti, con abilità ben maggiori di chi si approccia allo stesso titolo per hobby. In alcuni paesi, come la Corea del Sud, queste competizioni sono inserite all’interno di tornei ufficiali che generano un vero e proprio mercato, composto da squadre riconosciute, sponsor, manager e addirittura fan affezionati e tifosi.
Non tutti i videogiocatori sono professionisti
La figura del “videogiocatore professionista” è ormai diffusa al giorno d’oggi coinvolgendo, secondo una ricerca pubblicata dal famoso giornale “Il Sole 24 Ore”, più di un milione di professionisti, in un giro d’affari quantificato nel 2016 in circa dodici milioni di dollari. Una cifra enorme che non è possibile trascurare e che dimostra senza ombra di dubbio la diffusione degli E-Sport nel mondo.
Guardando indietro, ogni medium ha ricevuto un’accoglienza poco calorosa ai suoi esordi, e il medium videoludico non fa eccezione. Ciononostante sarebbe anacronistico ignorare l’evoluzione che i videogiochi hanno avuto negli ultimi anni. Infatti, il medium è ormai presente anche nella “convergenza digitale” che caratterizza le ultime decadi, proponendo esperienze pensate sia per gli utenti occasionali, sia per gli utenti costanti e appassionati, sia per professionisti inseriti in competizioni saldamente ancorate allo spirito sportivo e agonistico. Quest’ultimo è il fulcro che realmente caratterizza tutte le discipline sportive, prima ancora del tipo di performance richiesta. È quindi l’intrinseco spirito sportivo di queste competizioni, l’allenamento e le abilità che ormai sono richieste per padroneggiare gli E-sport che ha spinto il Comitato Olimpico a inserire alcuni tipi di videogiochi tra gli sport ufficialmente riconosciuti.