La serie degli Atelier è un franchise dallo storico imponente, che in seguito alla conquista del pubblico nipponico avvenuta con cinque titoli sparsi tra varie piattaforme, ha continuato a espandersi fino al punto di coltivare nicchie di appassionati anche in occidente. Purtroppo noi italiani non abbiamo mai potuto contare su una localizzazione che comprendesse la nostra lingua, ma ciò non svaluta il successo di una serie che popola il mercato europeo da almeno tre lustri.
Tra collaborazioni e puntuali richiami che ritroviamo all’interno di altri titoli (Hyperdimension Neptunia, Dead or Alive, Dynasty Warriors e non solo), il retaggio dei molti Atelier non ha mai smesso di calcare palchi nonostante il quarto di secolo dal debutto sulla prima PlayStation. A renderlo possibile, oltre a certi crossover, sono stati i vari porting e le riproposizioni che hanno permesso a molti capitoli di arrivare un po’ a chiunque.
Pur togliendo le classiche attenzioni rivolte al panorama delle console portatili, infatti, rimane la sperticata sequela di riedizioni impacchettate sotto forma di accattivanti bundle, utili a recuperare le saghe del passato senza rinunciare a DLC e altre aggiunte. L’Atelier Mysterious Trilogy Deluxe Pack rientra perfettamente in questa definizione: un comodo ingresso per chi non ha mai giocato i titoli che contiene.
Tre avventure, una sola storia
Acquistando un prodotto del genere e procedendo nel giusto ordine, quello d’uscita, il giocatore si trova quindi catapultato in una storia che unisce il destino di parecchi personaggi; un viaggio che nel caso della trilogia Mysterious ha inizio nel paese della giovane Sophie.
Pronto a vestire i panni di una ragazza sconosciuta, come ho poi scoperto volere la tradizione di ogni Atelier, mi sono immerso in una realtà i cui toni scanzonati hanno immediatamente messo in chiaro cosa aspettarmi dai tre giochi. Rimanendo nell’ambito narrativo, infatti, parliamo di opere non troppo ambiziose ma capaci di raccontare un mondo credibile, attraverso spaccati di vita quotidiana in percorsi che saremo chiamati a intraprendere.
Con personaggi simili a stereotipi ambulanti ma non per questo caratterizzati male, specie da un punto di vista legato alla sfera prettamente estetica, Atelier Sophie: The Alchemist of the Mysterious Book pone le basi per qualcosa di grande, un’avventura a cui si ricollegheranno anche i due giochi a seguire.
Nel frattempo, in una comunità di minatori relegati a vivere nelle profondità della roccia scavata, una ragazzina speciale di nome Firis sognava di visitare il mondo esterno; lo stesso sul quale amava fantasticare leggendo pagine ingiallite dal tempo. E che dire invece delle intraprendenti Lydie e Suelle? Due gemelle che hanno dovuto loro malgrado imparare a far fronte alle difficoltà familiari, sfruttando l’atelier nel quale vivono in compagnia del padre Roger.
Non ha importanza che si tratti di un libro incantato, un cammino inatteso o dipinti in cui perdersi; ciò che conta secondo Gust è la sola forza d’animo e il rapporto che ci lega ai compagni di viaggio. Oltre al gameplay, s’intende, anche quello è fondamentale ed evitando di anticiparti gli intrecci che porteranno le quattro ragazze a conoscersi di persona, direi di non far attendere oltre i pilastri sui quali poggia la serie.
L’alchimia e il loop di gioco
Se hai già dimestichezza con uno qualsiasi fra gli Atelier, saprai di certo quanto focale è in loro il sistema di crafting basato sulla continua raccolta di ingredienti. L’esplorazione delle mappe, le quest da completare, l’equipaggiamento e gli oggetti utili in battaglia; tutto di questi giochi è ricondotto all’alchimia e credimi se ti dico che è così dal ‘97.
Lo scheletro che sostiene questa trilogia è non a caso lo stesso di sempre, riassumibile in pochi passaggi che procedo a elencarti di seguito: imparare nuove ricette, raccogliere materiali dal mondo che ti circonda o sconfiggendo i mostri che lo rendono pericoloso, sintetizzarli in qualcosa di nuovo tornando al tuo atelier e ripetere questo processo fino ai titoli di coda.
A mutare da un’opera all’altra, oltre alle figure protagoniste, sono più che altro alcuni dettagli relativi a tali meccaniche. Piccole variazioni in una formula che proprio come accade nell’alchimia, punta a trovare il giusto equilibrio tra i componenti al suo interno. Nella seconda di queste avventure, ad esempio, le piccole aree lineari lasciano spazio a mappe aperte senza però correre il rischio di risultare dispersive.
A fare da deterrente contro una sensazione di quel tipo ci pensano i paletti dati dal secondo, immancabile, tratto distintivo che caratterizza gli Atelier: i limiti di tempo. Questo aspetto di natura gestionale che solitamente tendo a disprezzare, dato che si sposa a fatica con il mio stile di gioco, aggiunge in effetti una stabilità nell’esperienza che altrimenti sarebbe potuta mancare all’appello.
Il sistema di combattimento
Dato che le nostre azioni, dalla raccolta risorse alla comodità dei viaggi rapidi passando per i test al calderone, hanno una ripercussione sullo scorrere del tempo, diventa fondamentale imparare a giostrarsi nel tentativo di ottimizzare le cose. Passare più tempo del dovuto lontano dall’atelier può sicuramente ripagare in termini di esperienza, livelli dei personaggi e proventi accumulati, ma abbattere nemici fino allo sfinimento non è esattamente un’attività consigliabile.
L’energia che il nostro gruppo può investire durante le fasi esplorative, a tal proposito, risponde a un valore (LP) la cui inesorabile riduzione ci invita puntualmente a doverci riposare. In caso contrario, le prestazioni in battaglia ne risentirebbero e così la qualità degli ingredienti collezionati. In altre parole? Valutare attentamente le mosse da compiere senza attaccare qualunque cosa si muova è senza dubbio la scelta migliore.
Passando al vero e proprio sistema di combattimento, anch’esso mutevole a seconda del videogioco, la trilogia Mysterious sfoggia nel complesso gli stilemi di un classico J-RPG a turni, con tanto di linea temporale a schermo che non lasci dubbi sullo scontro in corso. A sorreggere ogni cosa, anche in questo caso, è però l’ossatura del complesso alchemico che al netto delle semplificazioni introdotte da un gioco all’altro, rimane il nerbo al quale si aggrappa tutto.
In questa soluzione salubre di spontanea strategia, arricchita da elementi sempre più immediati, salta all’occhio la volontà di aprirsi a un vasto pubblico senza trascurare gli affezionati al franchise. Un’evidenza di questo tipo, tenendo conto delle aggiunte fatte a ognuno dei titoli ripresentati come DX, rimane nitida ancora oggi grazie anche a quei pochi extra che risultano trascurabili se si ha già vissuto il gioco.
Luci e ombre del comparto tecnico
Ed eccoci finalmente arrivati all’ultima volata di questo tragitto, come sempre dedicata agli aspetti un po’ più tecnici del prodotto. Iniziando dalla resa grafica messa in campo dall’Atelier Mysterious Trilogy Deluxe Pack, ci tengo a specificare un concetto che potrebbe non essere scontato: non stiamo parlando né di remake né tantomeno di remaster, bensì di un semplice bundle che offre versioni impreziosite di tre videogiochi.
Tenendo conto di questo, nella consapevolezza che gli Atelier sotto esame dovevano adattarsi all’hardware di Vita, non mi potevo aspettare più del cel shading datato che mi ha accompagnato sino a Lydie & Suelle. Se non altro, questo tipo di visualizzazione dei modelli tende a non mostrare il peso dell’età, ma mentirei scrivendo di non aver notato distacco nella cura realizzativa di protagonisti e NPC. C’è, è comprensibile, ma anche evidente.
A non sfigurare permettendoci di chiudere in bellezza è invece la colonna sonora nella sua totalità, che oltre a restituire le sfumature dei luoghi esplorati talvolta compensando il loro essere troppo spogli, entra a corredare le scene in cui i personaggi interagiscono fra loro spezzando i ritmi di gioco. Senza esagerare, il saggio utilizzo che ne viene fatto migliora diversi aspetti di ogni videogioco.