Oggi, più che mai, siamo immersi costantemente in qualche forma di media: che siano film, serie TV o videogiochi, cerchiamo, in qualche modo, di superare i confini della nostra realtà, per entrare in quelle terre virtuali che tanto ci piacciono. Negli ultimi anni un particolare tipo di media sta monopolizzando, in maggior modo, il tempo di ognuno di noi: i reels, gli shorts o i video su TikTok; insomma, chiamateli come volete, ma sempre quello sono: un contenuto video immediato, che non abbia bisogno di una particolare attenzione per essere seguito e che spazia da ogni tipo di genere all’altro.
Lo ammetto con un po’ di amarezza, ma anche io sono finito nel vortice acchiappatutto dei reels. Ma non tutto il male viene per nuocere. Tra un video di cucina e contenuti di dubbia qualità, l’algoritmo mi ha premiato con un nuovo tipo di corti: i rendering 3D retro.
Facciamo un passo indietro (anzi, due)
Nei vari sotto-strati internettiani si sono create le più svariate culture artistiche ed estetiche, che con lo scorrere del tempo si sono unite, influenzate e sovrapposte, andando di fatto a creare altre sub-culture e sub-generi. Una di queste è sicuramente il fenomeno delle copypasta (andate tranquilli su wikipedia se non sapete di cosa stia parlando) che oggi giorno si sono evolute, trascendendo la loro natura di semplice post pubblicato su di un forum, fino ad arrivare a essere il soggetto principale di una pellicola cinematografica. Se dovessi scegliere la copypasta che più ha fatto breccia nelle nuove generazioni ne sceglierei sicuramente una: le Backrooms.
Immagina di camminare in un normale edificio, forse una vecchia struttura di uffici o un magazzino abbandonato. Le pareti sbiadite e il ronzio costante delle luci fluorescenti creano un’atmosfera inquietante. Tutto sembra normale, finché, improvvisamente, ti perdi. Apri una porta, credendo che porti al tuo destino desiderato, ma invece finisci in un luogo completamente diverso. Questo è il punto di ingresso nelle Backrooms.
Nate quasi per caso su 4chan, queste “stanze sul retro” si basano sul meccanismo del “clipping“, un termine puramente videoludico, che va a indentificare l’atto di glitchare attraverso le pareti solide all’interno di un gioco, finendo in posti “non programmati” e nei quali non dovremmo addentrarci. Queste stanze, però, prendono la loro potenza espressiva da un altro concetto, ossia quello di spazio liminale: luoghi o situazioni che si trovano in una fase di transizione, di confine o di indefinizione.
Solitamente sono raffigurati come posti di tutti i giorni, parchi, scuole, luna park, quindi luoghi in cui solitamente socializziamo e interagiamo con altri individui; ma nell’immaginario delle Backrooms, questi posti sono deserti e bui, quel senso di sicurezza che normalmente dovremo avere non c’è e ciò, per citare il mai-citato Freud, ci crea un senso di perturbazione.
Ma in che modo le backrooms e gli spazi liminali incrociano la loro strada con i render 3D retro che trovo sui reels di Instagram?
Gli artisti di questa nuova wave sfruttano gli immaginari usciti dall’era PS1 per riproporli sul piccolo schermo, creando di fatto piccole bolle virtuali nelle quali possiamo rifugiarci per pochi secondi, prima di passare al prossimo video. Non a caso gli scenari raffigurati sono sempre praterie o foreste deserte, stanze di castelli o dungeon in cui non siamo mai stati, eppure, allo stesso tempo è tutto così familiare, come in un sogno.
Sono a tutti gli effetti delle backrooms virtuali.
Dove un tempo combattevamo scheletri e draghi, adesso non rimane che una mappa vuota. Il tempo dei giochi spensierati è finito e non possiamo più tornare indietro. Allora ci perdiamo volontariamente in questi luoghi di transizione, dove tutto rimane immutato, dove le nostre azioni non hanno conseguenze e le responsabilità non esistono, anche se virtualmente.
Immaginari simili erano già stati proposti in passato, basti pensare al celebre romanzo di Mark Z. Danielewski, “Casa di Foglie”, ma la filosofia dietro a quei corridori interminabili non era la stessa di oggi. Non c’è da stupirsi che proprio la generazione Z li abbia immaginati nuovamente.
Una generazione che vede il proprio futuro sgretolarsi piano piano, con poche sicurezze e ben consci dei problemi che dovranno affrontare una volta adulti; una generazione che cerca di fuggire dalla realtà, immaginando luoghi virtuali in cui la nostalgia gioca un ruolo chiave. Allo stesso tempo, però, questa generazione è la più affamata di socialità: gli stessi contenuti che vengono creati come rifugio sono condivisi con il mondo intero, contribuendo ad alimentare questa memoria collettiva retro che funge un po’ da cuscinetto, come un mantra che ci ripetiamo per andare avanti.
Guardiamo indietro per trovare la forza di proseguire. Poco importa se quegli immaginari non sono stati neanche vissuti al tempo, l’importante è perdersi in una foresta incantata senza bordi, tra i corridori di un castello senza forma o tra le strade nebbiose di una città mai esistita, tutto rigorosamente low-poly.
Perché proprio Playstation 1
Lasciamo un attimo da parte l’aspetto filosofico del fenomeno e cerchiamo di concentrarci su quello più concreto. Perché la scelta è ricaduta sull’estetica PS1? Le risposte sono molteplici. La prima è che, banalmente, gli artisti che producono questi shorts, sono figli degli anni ’90 e la loro infanzia coincide con l’avvento della console di casa Sony. Ma l’aspetto più interessante, secondo me, è quello legato alle associazioni di immagini e di suoni, in relazione con i fenomeni social che stiamo vivendo.
Un gioco che per primo ha anticipato l’estetica delle backrooms è sicuramente Silent Hill. Una città deserta, percorsa da strade che sembrano non finire mai, immerse nella nebbia. Una musica onirica e ansiogena accompagna i nostri passi che riecheggiano sull’asfalto. Vi ricorda qualcosa?
Il fenomeno dei doomer, ragazzi e giovani adulti che vedono tutto per “spacciato” (doomed), associa la loro visione nichilistica del mondo a quell’immaginario figlio dei giochi horror dell’era PS1, in cui tutto sembrava perso e privo di speranza. Harry che corre senza sosta attraverso la nebbia di Silent Hill è divenuto metafora del disagio interiore che viene provato da questa categoria di persone, che cercano di sdrammatizzare “memando” a più non posso. Non è un caso che le musiche di Akira Yamaoka siano quelle che vengono scelte dagli artisti di questa corrente come background per i loro video, un altro elemento che va a rafforzare il collegamento tra questi fenomeni.
Gli angoli duri, la bassa risoluzione, il rumore sullo schermo e tutto ciò che caratterizza l’estetica PS1 ha creato una sorta di memoria collettiva, nella quale il concetto di spazio liminale, Backrooms, nostalgia e fuga dalla realtà si intrecciano e diventano una nuova forma di espressione artistica che non ha ancora una definizione precisa, ma che può essere usufruita in ogni momento con i nostri smartphone. Quello che importa, però, è che è maledettamente affascinante e ne vorrei sempre di più.