Se al mio posto ci fosse il creatore di Baobabs Mausoleum e, come me, avesse il compito di introdurti all’opera in questione, è possibile che impiegherebbe aggettivi come esilarante per poi citare eventuali influenze interne al proprio gioco: Monkey Island, Twin Peaks, Spongebob e persino Zelda, la storica serie targata Nintendo che ha da poco compiuto gli anni.
Prendi un frullatore, una sana dose di locura e l’estetica 8 bit che ci riporta all’infanzia, dopodiché aggiungi gli elementi qui sopra ed ecco un primo passo verso qualcosa di speciale: l’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita. Citazioni tarantiniane a parte, la saga di Baobabs Mausoleum presa nel suo complesso è esattamente questo, ovvero un lento incedere verso ciò che vorresti evitare.
Prima di entrare però nel dettaglio e motivare certe affermazioni, lascia che ti presenti Watracio Walpurgis e ognuna delle sue peculiarità: protagonista di questa avventura, amante di alcool e gioco d’azzardo, integerrimo agente dell’FBI, vampiro e melanzana. Se arrivati a questo punto inizi già a sentirti confuso, significa che sei pronto. Possiamo iniziare.
Watracio si è perso, proprio come il gioco
È il 1990 e ci troviamo nei pressi di Flamingo’s Creek, una cittadina da incubo che appare ogni 25 anni lungo il percorso di Albatross Road. Sono le 11:11 di una mattina primaverile e mentre sfrecciamo a gran velocità a bordo della nostra auto, distratti da una chiamata, veniamo sorpresi da una strana ombra che di colpo ci si para dinanzi al cofano. Lo schianto è inevitabile.
Ancora storditi dal tremendo impatto, ci risvegliamo così nei panni di Watracio e dato che sia la nostra auto sia il cellulare sembrano ormai irrecuperabili, scegliamo di incamminarci verso il più vicino centro abitato della zona. Muniti esclusivamente del nostro sarcasmo e di un ciuffo d’erba al posto dei capelli, la nostra missione è semplicemente quella di trovare un telefono funzionante.
Pensandoci, basterebbe incontrare uno dei 64 abitanti e chiedergli gentilmente di darci una mano, ma essendo la tua prima volta a Flamingo’s Creek potrebbe non essere così semplice. In fin dei conti, nemmeno l’incontro con il reverendo Gloster sembra esserci stato d’aiuto e più tempo passiamo tra i boschi, ricchi di alberi quanto di gufi, più le stranezze che ci circondano iniziano a farsi numerose.
Tra personaggi assurdi, risvolti impensabili e molteplici rimandi ad altri titoli e media, la Grindhouse Edition di Baobabs Mausoleum sa come attirare le attenzioni a sé, ma fallisce miseramente nel mantenere costante il livello necessario a non farle sbiadire.
I pregi e le trovate che nel primo episodio ti spingono a procedere incuriosito, svaniscono infatti con il passare del tempo e a rendere ciò un enorme difetto, troppo concreto per essere ignorato, ci pensa un gameplay che affonda all’aumentare delle ore di gioco. Come da titolo, un declino costante.
Molto creativo, poco concreto
È interessante conoscere un titolo che riesce a reggersi esclusivamente sulla creatività di chi lo ha concepito e le influenze di più generi, specie se come Baobabs Mausoleum tenta anche di sperimentare spingendosi oltre gli innegabili limiti di produzione. Come in tutte le cose però, l’equilibrio svolge un ruolo fondamentale e nel corso dell’avventura pubblicata da Zerouno Games, questo viene meno a ogni minuto che passa.
Visto il citato abbassamento qualitativo che si inizia a percepire dal secondo episodio, infatti, la concretezza di quella che sarebbe potuta essere un’avventura grafica di stampo classico, arricchita da scontri a turni e sorprendenti variazioni di sorta, cede il posto a un’esperienza costruita in fretta e furia che non restituisce al giocatore l’unicità di Flamingo’s Creek.
A mettere in ombra tutto ciò che questo titolo poteva offrire, comunque, non sono né i limiti tecnici né la sua linearità, bensì alcune pessime scelte e un’ispirazione sempre più sfuggente. Forse, per quest’ultima sarebbe bastato prendersi più tempo ma per quanto riguarda invece il ciclo giorno/notte che regola l’intero secondo episodio, mi chiedo come si possa aver pensato a qualcosa del genere.
Immagina un videogioco che propone enigmi ambientali la cui soluzione può essere raggiunta dopo diversi passaggi, effettuabili esclusivamente in determinate ore del giorno. Dopodiché, aggiungigli un sistema di calcolo in tempo reale che si basa ovviamente sull’orario della tua piattaforma. Fatto? Bene. Ora, precluditi la possibilità di salvare in qualsiasi momento così da non poter proseguire senza reimpostare l’orario della console.
Non mi è chiaro se l’intenzione fosse quella di riproporre qualcosa di vicino a Kojima e Psycho Mantis, spingendo il giocatore a intervenire manualmente per aggirare un ostacolo volutamente disonesto, sta di fatto che certe cose andrebbero studiate meglio e affrontate con un pizzico di lungimiranza in più; la stessa che col senno di poi mi avrebbe potuto risparmiare un terzo episodio inferiore a qualsiasi aspettativa.
Una magra consolazione
Dopo aver messo a nudo le virtù e criticità di Baobabs Mausoleum, saga la cui gestione sul lungo termine fa cilecca, è arrivato il momento di introdurre il comparto tecnico che la incornicia, anch’esso specchio di un’ambizione sì lodevole ma fuori scala.
Senza il bisogno di soffermarci su un paio di bug minori, resi tali dalla possibilità di riprendere a giocare da qualsiasi atto, passiamo a una colonna sonora che fa perfettamente il suo dovere, a differenza degli effetti sonori privi di personalità.
A cura di Manuel Leon, l’accompagnamento di Baobabs Mausoleum esprime infatti ogni singolo aspetto di ciò che un’opera come questa avrebbe potuto trasmettere. La musica è varia, flessibile e riesce ad adattarsi all’impensabile, già a partire dal trailer qui sotto che mi ha riportato ai fantastici Avalanches.
Buona anche la stabilità del gioco dopo il porting di Wester Egg, così come la visione artistica su cui è costruita Flamingo’s Creek; uno degli aspetti più stimolanti dell’intera produzione.