Doom arrivò sul mercato nel 2016 mettendo le cose in chiaro: “il re degli FPS è tornato“. Dopo anni di Call of Duty e Battlefield a dominare le classifiche degli sparatutto, per i fan degli arena shooter il ritorno del re fu come vivere di nuovo, rinati sotto un nuovo standard per il genere. L’industria, soprattutto quella indie, non poté che osservare il fenomeno e provare a tuffarcisi per ritagliarsi una fetta di pubblico che ne voleva di più.
Bloodhound, forse arrivando con qualche anno di ritardo, rientra proprio nel fenomeno che ho descritto poco fa, uno sparatutto indie, un po’ Painkiller, un po’ Doom, che però non convince appieno. Uscito originariamente nel 2023 per PC è tornato a farsi vedere in una versione, assolutamente non migliorata, per PlayStation 5 e questa è la nostra recensione!
Benvenuto agli inferi…pure qua?
Lo sappiamo tutti, gli FPS arena non brillano per l’originalità della trama, anzi, meno ce n’è e meglio stiamo e anche Bloodhound non fa eccezione. Il folle culto di Astaroth sta minacciando l’intero mondo con l’apertura di migliaia di portali per l’inferno, come membri dell’Ordine dei Custodi dei Cancelli starà a noi impedire ai cultisti demoniaci di portare a compimento il loro originalissimo piano, come? Beh, ovvio, a fucilate! Anche perché le azioni del nostro protagonista non avranno un vero senso logico, quindi non ci resterà che sparare ad ogni cosa che si muove.
Dico così perché il susseguirsi delle location e dei livelli non avrà un filo conduttore, il nostro cacciatore di demoni entrerà in uno dei tanti portali infernali e verrà sparato in una nuova area, senza sapere perché e soprattutto come mai questi portali conducono in questi specifici posti. L’unica cosa che sapremo con certezza è che le nostre fidate armi ci seguiranno ovunque andremo: revolver, doppiette doppie, mitra, armi laser, minigun, balestre e chi ne ha più ne metta. L’arsenale è ampio, ma è veramente troppo generico e ogni arma presenta il grandissimo difetto di non avere il giusto impatto sulle nefande creature che affronteremo.
Parlando di demoni, anche qua il lavoro di Kruger & Flint Productions non è particolarmente ispirato, ma più che questo, è la casualità con la quale questi nemici ci vengono lanciati addosso che perplime. Le orde non hanno mai un vero nesso con l’ambiente che stiamo esplorando, visiteremo una palude fiammeggiante? Ecco un bel po’ di puttini volanti. In una piazza di una città abbandonata? Puttini volanti. E via dicendo.
Bloodhound e come non fare un level design
Forse l’aspetto peggiore di Bloodhound sta proprio nel level design che viene proposto. Ogni livello è caratterizzato da varie arene con orda annessa, poi corridoi che porteranno ad una chiave, la quale aprirà un cancello che ci porterà in un’altra arena. Ripetiamo questo schema e abbiamo l’intera struttura esplorativa del gioco. Ogni tanto verremo premiati con qualche area segreta, ma si tratta veramente di andare a destra al posto di sinistra e le troveremo senza alcuna difficoltà.
Ovviamente Bloodhound per obbligare il giocatore a dover uccidere ogni nemico le arene verranno sbarrate da una nebbia magica insorpassabile fino a che non stermineremo ogni creatura presente. Il ritmo è molto frenetico, saranno veramente pochi i momenti in cui non spareremo, ma il tutto diventa ripetitivo e noioso dopo pochi incontri e il trovare armi nuove o power up aiuterà ben poco in tal senso. Anche il movimento del nostro protagonista sembrerà avere qualcosa che non va, una sorta di slittamento che ci renderà difficile muoverci con precisione.
L’esplorazione poi non viene incentivata da luoghi belli da vedere o da un’estetica accattivante, il tutto sembra molto generico e già visto: un pentagramma lì, una fiamma demoniaca di là, location che sembrano uscite da Half Life a tratti e poi d’un tratto finiamo in mezzo a Lordran. Insomma, anche la direzione artistica è da rivedere, ma tutto sommato Bloodhound riesce a divertire in alcuni frangenti. C’è da dire che quando impugni una motosega-lanciafiamme a suon di metal è difficile sbagliare.