L’impatto avuto dai videogiochi indipendenti sul mercato è noto a tutti, così come è risaputo che certi avvenimenti hanno delle conseguenze. Bounty Battle è decisamente una di queste e prima di iniziare a parlartene più approfonditamente nel tentativo di capire quanto di buono ci sia in tutto questo, permettimi di introdurti brevemente alle origini del progetto e alla figura del suo creatore: François von Orelli.
Bounty Battle è un’opera rimasta in cantiere per la bellezza di 6 anni, periodo di tempo in cui il videogioco stesso e l’idea alla sua base (inizialmente nata con il nome di Ethereal Mana) ebbero entrambi modo di mutare varie volte, non sempre seguendo una direzione precisa, fino al giorno in cui il progetto iniziò ad assestarsi sulle basi di un nuovo picchiaduro bidimensionale.
Fu in quel momento che François, designer a capo di un proposito sempre più ambizioso e affiancato da un solo programmatore, decise di puntare tutto sulla propria passione per i videogiochi, iniziando così a contattare altri sviluppatori come lui. Il motivo? Donare al proprio titolo un roster di combattenti quanto più variegato possibile, ognuno dei quali appartenente ad alcuni dei più apprezzati videogiochi del panorama indipendente.
Il dover prendere e studiare personaggi già conosciuti al fine di riadattarli allo stile del proprio progetto, non sarebbe una cosa semplice nemmeno per un team composto da molti elementi, figuriamoci quindi per due persone. Riuscire in un’impresa come questa avrebbe richiesto loro talento e passione, entrambe cose che ho potuto scorgere all’interno di Bounty Battle ma che, come vedremo, non sempre sono sufficienti al fine di creare un prodotto che funzioni.
I sintomi di un buon combat system
Oltre alla già citata presenza di personaggi a noi cari e all’indiscutibile merito di averli riuniti sotto un unico vessillo, cos’altro rende Bounty Battle un videogioco apprezzabile? In quali altri aspetti del titolo risiede del potenziale? La risposta è meno scontata di quanto ci si aspetterebbe e senza soffermarci inutilmente sulla totale assenza di un comparto narrativo, direi che possiamo passare immediatamente al cuore pulsante dell’intera esperienza: il gameplay vero e proprio.
Bounty Battle si rifà senza troppi complimenti alle più classiche manovre del genere, introducendo però alcune meccaniche interessanti al fine di creare una formula finale che abbia un proprio carattere. Primo fra tutte, affiancato a colpi leggeri, pesanti, proiezioni, schivate evasive e doppi salti, troviamo l’impiego dei cosiddetti Bounty Points (Punti Taglia), dei gettoni ottenibili nel corso dei nostri incontri e indispensabili per richiamare potenti alleati pronti a combattere al nostro fianco.
Il modo migliore per collezionare questi gettoni all’interno di Bounty Battle, è quello di sconfiggere avversari adattandosi a uno stile di gioco il più vario possibile. Il titolo, infatti, cerca di spingere il giocatore ad adottare tecniche sempre diverse, punendo chiunque faccia diversamente con una sottrazione dei Punti Taglia accumulati o, nel caso specifico di comportamenti recidivi, con un immediato stordimento del proprio personaggio. Parliamo quindi di una varietà incentivata attraverso l’utilizzo di semplici deterrenti; un’idea dal potenziale tanto valido quanto del tutto inespresso. Il motivo? È presto detto.
Il disinganno più totale
L’impatto effettivo di questi Bounty Points è davvero troppo marginale sul gameplay del titolo, rendendo di fatto una delle sue meccaniche principali poco sfruttata e terribilmente futile. L’idea sulla carta apprezzabile di voler disincentivare lo spam compulsivo delle mosse, risulta quindi inefficace dal momento in cui avere una taglia elevata non rappresenta un vero vantaggio per il giocatore. Più che variare il proprio stile di combattimento, viene quindi naturale imparare a sfruttare i fin troppi exploit che Bounty Battle ci offre, al fine di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.
Dopotutto, in un videogioco come questo l’importante sarà sempre e solo vincere, cosa che in Bounty Battle è possibile fare fin troppo facilmente nonostante una gestione delle hitbox non sempre brillante che, specie negli incontri più affollati, rischia di trasformare l’esperienza in qualcosa di molto confusionario e a tratti frustrante. Capita però, alle volte, che un picchiaduro con problemi di questo tipo riesca ugualmente a risultare valido, dando il meglio di sé quando vissuto in compagnia di altri giocatori che, come è ovvio che sia, non ci permetterebbero mai di sfruttare quei trucchetti ai quali ho accennato.
È proprio in questo che Bounty Battle, prima ancora che nei suoi difetti o in qualsiasi delle sue sporcature, fallisce provandoci a malapena. Esclusi il Tutorial e la modalità Allenamento, tutto ciò che il titolo offre è infatti una modalità Torneo a giocatore singolo, utile a sbloccare le varie skin di ogni personaggio (5 semplici colorazioni alternative riapplicate a ognuno di essi) e un multiplayer esclusivamente locale fino a un massimo di 4 giocatori. Hai capito bene, Bounty Battle è un brawler 2D sprovvisto del multiplayer online; una cosa semplicemente impensabile visti gli standard del mercato odierno.
La nenia funebre del comparto tecnico
Ultimo ma non certo per importanza il comparto tecnico di Bounty Battle che, come avrai già intuito dal titolo qui sopra, non aiuta poi molto a rendere l’esperienza di gioco particolarmente affabile. Per quanto i veri pregi di quest’opera possano essere ritrovati proprio nel lavoro svolto in fase di disegno, indispensabile al fine di creare uno stile grafico capace di accomunare personaggi tanto diversi tra loro, resta indubbio il fatto che Bounty Battle soffra di limiti tecnici piuttosto evidenti.
Senza bisogno di andare a infierire sulla colonna sonora dimenticabile o sugli effetti visivi un po’ miseri, a colpire il giocatore in pieno volto sono senza dubbio i pesantissimi cali di frame rate a cui Bounty Battle è soggetto. In una battaglia nella quale serve sopraffare avversari per un totale di 20 uccisioni, ad esempio, il titolo singhiozza in maniera sistematica ogni volta che qualcuno viene sconfitto. In due parole? Ottimizzazione imbarazzante.
https://youtu.be/PKKkYtLRbyw