Ti sei mai chiesto perchè giochi? O che cosa rappresentano i videogiochi per te?
Se la tua prima risposta è stata “un passatempo”, sappi che per la maggior parte dei videogiocatori è sbagliata. Abbiamo visto fin troppe volte i videogiochi additati come un semplice passatempo. Anzi, un passatempo che porta via troppo tempo, senza donare nulla di “concreto” al giocatore nel mondo reale.
Ma è davvero così?
Partiamo dall’inizio. Come dimostrano molte ricerche, giocare è un’attività importantissima per la nostra specie. Giocando abbiamo l’occasione di sperimentare continuamente, di esplorare e di comprendere; il tutto in un ambiente protetto in cui le conseguenze delle nostre azioni non sono catastrofiche e non permangono nel tempo.
In quest’ottica, i videogiochi si pongono come una sorta di evoluzione di questi concetti, proponendo all’utente ambienti sempre più complessi e variegati, pieni di stimoli e di esperienze che difficilmente potremmo sperimentare in modi diversi. Infatti, queste esperienze possono includere anche situazioni ad alto rischio, in cui successo e fallimento hanno conseguenze sull’intero mondo di gioco; mettendo il giocatore stesso al centro delle scelte e delle azioni necessarie a risolvere il problema.
Un esempio potrebbe essere il modo in cui Life is Strange tratta il controverso tema dell’eutanasia. Evitando ogni tipo di spoiler per chi non lo avesse giocato (in questo caso consiglio vivamente di recuperarlo); basti sapere che ad un certo punto del gioco toccherà al giocatore scegliere tra la vita e la morte di un certo personaggio, non più in condizioni di sperimentare un’esistenza normale.
Perchè questo è così importante? A differenza delle altre opere di intrattenimento, in cui si può solo osservare passivamente, i videogiochi consentono di interagire con la diegesi (ovvero l’insieme degli elementi che costituisce il mondo di gioco fittizio). Questo costringe l’utente a riflettere nelle situazioni simili a quella descritta poco fa, coinvolgendo diversi processi cognitivi e mettendo in gioco i suoi valori e le sue credenze, per poi fare le scelte in prima persona e vederne le conseguenze.
Tutto ciò non lascia indifferente il giocatore, il quale instaura con ogni videogioco una sorta di dialogo bidirezionale: le sue azioni modificano la diegesi ed il feedback di queste ultime influenza l’utente. Il medium videoludico, quindi, non è una mera esperienza ipnotica che rapisce il giocatore passivo per incatenarlo al mondo virtuale.
Al contrario, il videogioco è un complesso ed attivo dialogo tra i processi cognitivi dell’utente ed i processi che accadono in gioco. Potremmo addirittura definirlo come un investimento, dato che videogiocare significa prendersi cura di qualcosa che reputiamo importante, attraverso piccoli sforzi quotidiani, diventando utenti attivi in un mondo di gioco pronto a rispondere ai nostri stimoli.
Proprio questi stimoli possono diventare un’occasione di arricchimento del sè, donando a colui che gioca diverse abilità trasferibili nel mondo reale. Questo accade per il ruolo costantemente attivo dell’utente e con diversi tipi di videogiochi, in modo diverso a seconda del titolo.
In che modo, quindi, videogiocare influenza i nostri processi cognitivi?
Prima di rispondere a questa domanda occorre definire la cognizione. Quest’ultima è la capacità di valutare ed apprendere la realtà circostante. I processi cognitivi, quindi, ci consentono di percepire ed organizzare in informazioni sensate i costanti stimoli ambientali.
Durante una delle sue ricerche, Kerckhove ha affermato che i media interattivi (tra cui annoveriamo il medium videoludico) propongono all’utente dei percetti. Questi ultimi sono veri e propri oggetti sensoriali, ricreati digitalmente. Queste ricostruzioni sono esperibili attraverso una serie di stimoli e percezioni simulate, molto simili a quelle reali. Per questo motivo, le abilità reperibili nei videogiochi sono paragonabili a quelle ricevute da stimoli concreti.
Tutto ciò consente ai giocatori di mettere in atto una delle forme più efficaci di apprendimento: learning by doing (imparare facendo). Come si intuisce dal nome, l’utente sperimenta i concetti in prima persona ed attraverso queste esperienze, impara in autonomia. Questo metodo d’azione, tuttavia, non viene meno una volta spenta la console, ma persiste nella mente dell’utente fino a divenire un’abitudine.
Non occorre che le situazioni siano simili a quelle proposte nella simulazione, dato che questo concetto si riferisce al modo in cui i giochi spingono gli utenti ad approcciarsi ai problemi. Per esempio, in uno sparatutto valutiamo costantemente la situazione: quante munizioni abbiamo, che ripari ci sono e dove sono i nemici. Poi, sulla base di questi elementi valutiamo come muoverci.
Le nostre azioni, quindi, saranno frutto di un ragionamento veloce, basato sulle caratteristiche di quella particolare situazione e su ciò che abbiamo a disposizione in quel momento. In altre parole, un approccio “logico” encomiabile, che ci accompagnerà anche nella vita di tutti i giorni sotto l’elegante nome di problem solving. Persino quegli sparatutto apparentemente elementari, quindi, richiedono (e di conseguenza sviluppano) delle abilità di ragionamento, date dalle continue valutazioni degli elementi presenti nella situazione vissuta dal giocatore.
In ogni partita di “Dominio” in un qualsiasi Call of Duty, per esempio, ogni bravo giocatore valuta continuamente la sua situazione: quanto è efficace la mia arma da lontano? Quanti nemici ci sono vicino al punto rosso sul radar? Quante munizioni mi restano? Il punto B è abbastanza fortificato per andare verso C? Ed i nemici da che lato potrebbero aggirarmi? Forse qualcosa si è mosso a lato dello schermo…
Tutto questo si traduce in calcoli veloci e continui i quali risultano in una performance più o meno esaltante e nell’allenamento costante delle capacità attentive e di problem solving, dato che le azioni di ogni bravo giocatore saranno basate interamente sulla valutazione di questi (ed altri) stimoli in brevissimo tempo.
Ma non è tutto
Come ho accennato poc’anzi, i videogiochi trasmettono all’utente un modus operandi che quest’ultimo interiorizza spontaneamente. Ogni titolo, in aggiunta, può allenare abilità diverse in base a ciò che viene richiesto durante il gameplay.
Un esempio può essere lo studio di Green e Bavelier, il quale confronta degli hardcore gamer con delle persone poco abituate a giocare. E’ stato osservato chiaramente come i primi abbiano diverse capacità attentive estremamente più sviluppate rispetto ai secondi, in particolare:
- risoluzione spaziale: la situazione come quella descritta sopra nella partita di Dominio presenta al giocatore un ambiente molto complesso, richiedendo a quest’ultimo molta attenzione. Per questo motivo, a differenza delle classiche credenze “da bar”, la concentrazione dei giocatori costanti viene disturbata in misura minore da possibili interferenze.
- enumerazione: nell’esperimento le capacità attentive dei videogiocatori si sono dimostrate superiori persino in questo campo.
- risoluzione temporale: per i videogiocatori è molto più facile processare velocemente un numero costante di elementi proposti in rapida successione.
Come se ciò non bastasse, Green e Bavelier hanno condotto una ricerca successiva. I due hanno chiesto ad un paio di gruppi di casual gamer di giocare a Tetris e Medal of Honor per dieci giorni di fila. Al termine di questo “allenamento” i ricercatori hanno misurato le capacità attentive dei soggetti, constatandone un aumento non trascurabile; in particolare in compiti di mantenimento dell’attenzione e di enumerazione.
Chiaramente, questo non significa che ogni singolo gioco possa diventare un allenamento per la nostra mente. Tutto dipende dall’intensità e dal modo in cui le nostre capacità mentali sono messe alla prova, nonché dal coinvolgimento della situazione, la quale può essere estremamente stimolante (Call of Duty, PUBG, Fortnite), oppure estremamente monotona (Candy Crush Saga), o magari stimolare capacità di teamwork e collaborazione (Overwatch, League of Legends).
Inoltre, va ricordato che tutto deve essere fruito con moderazione. I videogiochi sono un prezioso strumento di sviluppo personale e sociale, ma giocarci dodici ore di fila al giorno è controproducente. In altre parole, videogiocare quotidianamente va benissimo e forse è addirittura consigliabile, se non si esagera. Per approfondire meglio l’argomento, ecco un video molto interessante, da guardare se hai un po’ di tempo.
Considerando tutto questo, è chiaro come il dialogo tra giocatore e simulazione non sia sterile o passivo. Al contrario, la maggior parte dei videogiochi sono in grado di stimolare le capacità cognitive ed attentive degli utenti, allenandole nel corso del tempo. Come dico spesso, quindi, sarebbe ingenuo ed anacronistico ignorare questi dati scientifici e guardare al medium con odio immotivato.
I videogiochi sono diffusi a più livelli nella nostra società ed il numero di videogiocatori non fa che aumentare.