Per quanto possa sembrare fantastico ammirare dal vivo un’opera normalmente ammirata solo online, in molti potrebbero storcere il naso vedendola esposta in una esposizione a tema videoludico; specie se il riferimento così chiaro all’arte in una mostra di questo tipo potrebbe essere interpretato come una ricerca, ancora attuale, da parte del mondo dei videogiochi del giusto riconoscimento quale forma d’arte.
Effettivamente alcune recensioni della mostra hanno dichiarato in maniera trionfale: “E’ ufficiale, dopotutto i videogiochi sono arte!” come se il fatto che i game designer siano persone che guardino dei film, leggano o possano essere appassionati d’arte costituisca un concetto da esplicitare costantemente per essere cognito ai più.
E’ anche vero che questa fama è spesso perpetuata dall’industria videoludica; alcuni giochi hanno influenzato talmente tanto altri titoli da costituire a tutti gli effetti dei bignami per le meccaniche di gioco, se non per l’intero genere di riferimento (per sempio Metroid, Zelda, Dark Souls ecc.). Insomma il game design stagna quando è influenzato dal proprio microcosmo, mentre puoi intuire facilmente che i giochi sono più divertenti quando riprendono degli elementi dal surrealismo e non solo dal punto di vista meramente estetico.
L’arte surrealista sembra sconvolgente perchè va in direzione contraria a quello ognuno di noi si aspetta; Magritte dipinge una città con le sfumature scure del cielo serale mentre il cielo al di sopra è di un blu brillante e trapunto di nuvole bianche e lanuginose mentre i bordi della scena si arricciano, per ricordarti che non stai guardando il cielo, ma un dipinto che lo rappresenta, sembra illogico no?
Questa non è una pipa (La Trahison des images, il tradimento delle imagini), una delle sue opere più famose, ne è solo la rappresentazione su tela. Diversamente da altri artisti, i dipinti di Magritte sono affascinanti per il loro essere totalmente realistici: è in grado di riprodurre dettagliatamente un’aquila, solo per metterle addosso un cappotto.
Non ha bisogno di deformare gli oggetti al punto da renderli a malapena riconoscibili, squagliando orologi o roba simile, per farti capire che qualcosa non va. Spesso gli basta utilizzare persone e oggetti in contesti inaspettati.
Magritte ha reso il mondo dell’arte surrealista qualcosa di cui meravigliarsi anche senza avere letto le opere di Freud; ha messo delle facce nel cielo, avrebbe potuto ritrarsi con una bombetta perchè gli piaceva la bombetta e inserì cenni dei suoi romanzi gialli preferiti nei propri lavori senza altro riferimento che un naso.
Ma cosa c’entra tutto questo con i videogiochi penserai: se ci rifletti ti renderai conto che il surreale ha uno spazio ormai stabile all’interno di certi generi. Prendiamo gli horror ad esempio, ti sarà capitato di affrontare un alligatore gigante o un umanoide con una piramide sulla testa, quindi inizi ad aspettarti l’inaspettabile e a ritenere che quello che appare normale in realtà non lo sia affatto.
La giustapposizione tra normale e distorto è proprio il punto in cui ha origine una buona fetta del divertimento. Rappresentazioni cartoonesche della realtà ti portano in un mondo in cui tutto è possibile; mi piace pensare al livello Band Land del primo Rayman, ad esempio, in cui ci sono alberi costruiti con flauti ed in cui le maracas possono essere sia pattaforme che razzi. Marockets si chiamavano.
In un mondo in cui nulla è realistico, neppure i panorami potranno esserlo; in Super Mario Odyssey ci sono dei taxi volanti e ad essere onesti perchè non dovrebbero, se Mario stesso può trasformarsi in qualunque creatura o mezzo?
Esprimere meccaniche surrealiste può essere complicato, dato che la maggior parte dei giochi prova ad essere intuitiva e fornire ai giocatori gli strumenti per procedere indipendentemente, per questo probabilmente molti giochi si limitano ad esprimere il surrealismo in maniera visiva. Keita Takahashi e Tim Schafer lasciano che siano i mondi dei loro titoli a parlare per loro, mentre il gameplay rimane sempre abbastanza semplificato.
Alcuni titoli però compiono un passo avanti: vi sono giochi che hanno provato a svelare il delicato concetto legato al sé, che è prevalentemente surrealismo collegato alla psicologia; sia The Swapper che Echo sono giochi al cui interno puoi esistere come te stesso.
Monument Valley è un omaggio visivo a M.C. Escher, che sfrutta la prospettiva nei propri enigmi per mostrarti qualcosa di diverso rispetto a quanto emerge ad una prima occhiata, allo stesso modo in cui lavora il surrealista.
Nel più recente Gravity Rush invece, dovrai spremerti le meningi per capire come proseguire.
Ovviamente possiamo indovinare perchè sia molto complicato per i videogiochi andare completamente fuori dai binari. Gli elementi realistici sono importanti e necessari, ma personalmente mi piacerebbero più giochi in cui il mondo scivola lungo i propri assi come la Parigi di Inception; sarebbe bello avere un gioco che mi desse un obiettivo e i mezzi per fare l’esatto opposto, non per generare confusione quanto per spingermi, laddove possibile, a giocare e decostruire.
Sarebbe bello vedere programmatori mettere alla prova i limiti del corpo umano e mostrarne il funzionamento.
In un gioco altrimenti del tutto serio vorrei potere ad un certo punto camminare sul soffitto e usare un gambo di sedano come arma.
The Missing è ammirabile per il suo prendere l’istinto del giocatore e portarlo nel paradosso: normalmente gli arti sarebbero solidamente attaccati al corpo del protagonista, qui invece puoi farlo a pezzi bit dopo bit. Sopratutto è programmato per esplorare l’autolesionismo non per istigare a questa praticacome ma come esplorazione delle sue cause nella vita reale.
Dietro questo mio ragionamento si cela una sorta di stanchezza nei confronti di un certo tipo giochi, belli da vedere ma un po’ poveri di sostanza.
Mi capita di vedere un gioco visivamente attraente, ma che spesso si rivela essere un qualcosa di molto simile ad un metroidvania o un soulslike.
Oppure giochi che sono rilassanti ed evocano emozioni piuttosto che esprimerle chiaramente.
Non vorrei ogni volta una montagna come metafora di ostacoli emozionali, mi basterebbe che i personaggi dei videogiochi dicessero “non mi sento bene”; quel tipo di realismo che i giochi, specie i tripla A, potrebbero mostrare più spesso senza doversi necessariamente calare in ambientazioni fantastiche o comunque epiche.
Magari, una volta fatto ciò, i game designer potranno adottare la mentalità di Magritte e fare qualcosa perchè si.