Lo abbiamo aspettato, tanto. Lo abbiamo accolto, lo abbiamo odiato, lo abbiamo amato, siamo rimasti sorpresi, delusi, emozionati, stuccati, increduli, a volte ci ha colpiti con violenza, altre ci ha accarezzati con dolcezza e ci ha strappato più di una lacrima. Death Stranding è arrivato esattamente un anno fa su PlayStation 4, ci ha accompagnati per qualche giorno, settimana o mese, e poi ognuno ha continuato per la propria strada.
L’ultima opera del visionario e geniale maestro Hideo Kojima, principalmente conosciuto per la saga di Metal Gear, ha portato con sé un carico di aspettative non indifferente a causa del fitto mistero che l’ha accompagnata fino all’ultimo secondo, ed è poi diventata in brevissimo tempo uno dei titoli più controversi dell’intero panorama videoludico, passato e presente.
Death Stranding è stato infatti capace di strappare al primo Deadly Premonition un primato durato ben dieci anni come gioco più discusso a livello di apprezzamento. Infatti, il bizzarro titolo ideato da Hidetaka Suehiro, e fortemente ispirato alla storica serie televisiva Twin Peaks di David Lynch, viene spesso ricordato per aver polarizzato la critica agli estremi: niente mezze misure, o un 2 o un 10. Allo stesso modo è stato recepito dai giocatori l’open world targato Kojima Productions con una parte del pubblico che lo ha amato e un’altra che, all’opposto, lo ha fortemente odiato e criticato.
La verità è che l’avventura che vede come protagonista Sam Porter Bridges e compagnia è un’opera complessa e piena di sfumature che trascendono il solo medium videoludico. Questo articolo non vuole essere una recensione (e sarebbe davvero fuori tempo massimo, per quello ti rimando alle nostre analisi delle versioni PlayStation 4 e PC), piuttosto un pensiero a mente fredda da parte di un videogiocatore che ha amato il titolo.
Don’t be so serious…
Ci sono titoli che lasciano il segno, altri che rimangono nel dimenticatoio, e poi ci sono esperienze anonime, che rimangono tagliate fuori anche dalla classica definizione di gioco di nicchia, perciò nel corso di quest’anno mi sono trovato spesso a chiedermi: che considerazione di Death Stranding si avrà in futuro?
Durante tutto l’anno (complice il lockdown) mi sono ritrovato senza sosta in compagnia di titoli davvero imponenti: Final Fantasy VII Remake, Persona 5 Royal, Ghost of Tsushima… ma, soprattutto, The Last of Us Parte II. L’ultima e tanto attesa fatica di Naughty Dog ha fatto subito scattare una scintilla nel mio animo da videogiocatore: sono molto restio a usare il termine “capolavoro”, per me ormai è inflazionato e al limite dell’insignificante, eppure è l’unica cosa che mi viene da dire se dovessi riassumere in una parola sola il seguito delle avventure di Ellie e Joel.
Quando penso a The Last of Us Parte II sono consapevole del fatto che c’è stato un prima e ci sarà un dopo nell’industria videoludica, e l’ho percepito già in Ghost of Tsushima in cui, nonostante la gran qualità, ha uno stealth che sembra vecchio di almeno una generazione rispetto a quello messo in piedi da Naughty Dog, segno che la software house è riuscita a settare nuovi standard qualitativi. Nonostante abbia amato anche Death Stranding, non riesco a ipotizzare con certezza che possa diventare una pietra miliare del medium.
Nel 1987, Kojima dovette fare di necessità virtù, il primo Metal Gear (per MSX2) inventò a tutti gli effetti il genere dello stealth, a causa dell’impossibilità di mostrare a schermo troppi personaggi, la soluzione fu quella di rendere il protagonista sfuggente e furtivo e di dover evitare i nemici piuttosto che contrastarli, così meno ce n’erano e meglio era. Nel 1998, Metal Gear Solid diede nuova vita allo stealth per come lo immaginava Kojima (venendo battuto di qualche mese in senso assoluto dal primo Tenchu), dimostrando la capacità del game designer di innovare e rinnovare grazie a trovate uniche.
In Death Stranding tutto ciò non accade, perché Kojima non inventa nulla di nuovo, ma espande ed esaspera il concetto di open world e di fetch quest, rendendo comunque chiara la sua visione di come un videogioco andrebbe concepito e realizzato, andando completamente in controtendenza rispetto al mercato.
Dunque Death Stranding tra diciamo sette anni, all’alba di PlayStation 6 e Xbox Xeriex XXX, come verrà ricordato? E soprattutto, che impatto avrà sui titoli che ci accompagneranno nell’imminente next-gen? Questo non possiamo ancora saperlo per certo, però a ben pensarci, la risposta potrebbe essere in un altro titolo che, nel corso degli anni, pur rimanendo in sordina, è riuscito a riscuotere sempre più consensi, uscendo dalla nicchia in cui il mercato mainstream aveva deciso (purtroppo) di rinchiuderlo.
All’ombra delle C.A.
Nasce su PlayStation 2 e torna di volta in volta sulle successive console Sony prima con una remaster e poi con un remake a opera di Bluepoint Games, sto parlando, naturalmente, dello splendido Shadow of the Colossus a opera di un altro maestro del medium videoludico: Fumito Ueda. L’epopea di Wander è passata nel corso degli anni dall’essere un “titolo di nicchia” all’essere un “titolo d’autore” perché in fondo il mondo dell’intrattenimento funziona così e si ha paura di apprezzare qualcosa di nuovo che non incontra il favore di tutti, perché l’originalità viene spesso punita.
Incredibilmente, Shadow of the Colossus e Death Stranding, nonostante i quasi quindici anni di distanza hanno in comune più di quello che si potrebbe immaginare, a partire dallo sconfinato mondo di gioco. Di open world al giorno d’oggi ce ne sono tanti, tutt’oggi considero inarrivabili The Witcher 3: Wild Hunt e Zelda: Breath of the Wild, titoli rispettivamente del 2015 e 2017, ma che sembrano usciti ieri dal punto di vista del world building, eppure i mondi creati Ueda e Kojima riescono a dare al giocatore qualcosa di unico: un senso di realtà a livello spaziale.
Le Terre Proibite che ospitano i Colossi e le UCA (United Cities of America), casa delle gigantesche C.A., sono talmente ben realizzate da dare al giocatore una reale sensazione di grandezza, avremo davvero un mondo da calpestare ed esplorare in lungo e in largo, con tutte le difficoltà del caso. Non che questo non accada in altri open world, ma talvolta il mondo di gioco diventa quasi un intralcio, o ancora solo un pretesto per il loot, oppure una scatola vuota, quando si sarà depredato di tutti i segreti che aveva da offrire.
Infatti, molto spesso si tende a voler sbloccare il prima possibile il fast travel e correre dritti verso l’obiettivo della missione in corso, senza prendersi il tempo necessario per rimanere meravigliati da ciò che ci circonda. Non a caso, il sistema del fast travel è totalmente assente in Shadow of the Colossus e si sblocca in una sezione molto avanzata di Death Stranding, e non permette comunque di portare a termine le consegne, non potendo teletrasportare anche i materiali, ma solo Sam.
Il dover passare e ripassare negli stessi luoghi renderanno quel posto familiare e daranno una sensazione di realtà a ogni singolo scorcio e un peso a ogni viaggio. Death Stranding tocca il suo apice in questo senso (occhio allo spoiler) verso la fine del gioco quando, dopo aver battuto Higgs e la sua gigantesca C.A. umanoide, l’intera America sarà priva di energia e la rete chirale risulterà quindi non funzionante; in questo esatto momento del gioco il nostro obiettivo sarà dalla parte opposta del mondo di gioco e saremo costretti a intraprendere un intero viaggio del tutto a piedi, osservando i cambiamenti di un mondo che ha perso l’aspetto a cui siamo stati abituati per l’intero gioco, come durante un blackout.
Quel lungo viaggio a piedi mi ha emozionato come poche esperienze videoludiche per quanto stessi semplicemente camminando, però lo stavo facendo in un mondo che mi era avverso, e il mio successo era determinato dall’ingegno che, come un futuristico Robinson Crusoe, mettevo nei miei passi e nella pianificazione del viaggio. Chi si è lamentato delle boss fight misere e poco ispirate (soprattutto che si tratti di un videogioco che porta il nome di Hideo Kojima, colui che nel 1998 faceva vibrare i controller tramite Psycho Mantis) non ha torto, ma allo stesso tempo non si è reso conto che Death Stranding è una continua boss fight in cui c’è Sam contro il mondo.
Questa non è una storia semplice…
Anche dal punto di vista della trama, Death Stranding riesce a risultare a dir poco unico e, a distanza di un anno dal lancio, i ricordi restano vividi grazie alla sua unicità e ai particolarissimi personaggi partoriti dalla mente di Kojima.
Anche in questo caso, risulta utile paragonarlo con The Last of Us Parte II. Parlando del franchise, lo sceneggiatore Neil Druckmann ha coniato l’espressione: “Storia semplice, personaggi complessi”. Molte critiche relative al titolo Naughty Dog infatti sono dirette alla trama, vista come una storia di vendetta interessante e coinvolgente a livello emotivo grazie alle geniali scelte di game design, ma tutto sommato qualcosa di già visto e rivisto più e più volte.
Pensando a Death Stranding invece, personalmente non riesco a trovare qualcosa che, nel complesso, gli si avvicini anche solo lontanamente. In quasi trent’anni, ho macinato le storie più disparate tramite ogni media possibile: romanzi, film, fumetti, serie tv, naturalmente videogiochi e chi più ne ha più ne metta. A un certo punto però, la sensazione netta che gli stessi schemi narrativi si ripetessero cambiando solo luoghi e personaggi ha tristemente preso il sopravvento.
Ho notato che questa non è una concezione solo mia, in molti si lamentano, ad esempio, dell’attuale ristagno dell’industria hollywoodiana, in cui si avvicendano idee decisamente poco interessanti a reboot e operazioni nostalgia legate a franchise ormai dimenticati, con cui si spera di poter andare a colpo sicuro. Non concordo col luogo comune “Era tutto meglio prima”, semplicemente qualche decennio fa ci si muoveva per forza di cose in territori inesplorati, ognuno era un precursore e un pioniere a modo suo.
In Death Stranding ho avuto la sensazione che ogni elemento fosse nuovo, originale e geniale, e ancora oggi rimango della mia opinione: le C.A., il singolare rapporto tra Sam e B.B., le Spiagge, lo stesso Death Stranding, e potrei andare avanti all’infinito, perché ogni singolo elemento del gioco mi ha dato l’impressione di essere nuovo e unico, mai visto prima!
Paradossalmente, qualche tempo dopo aver finito Death Stranding, il mondo è entrato in lockdown, e il collegamento mentale è stato istantaneo. Le strade desolate, le persone chiuse in casa, lo stesso lavoro dei corrieri diventato istantaneamente indispensabile, i negazionisti che hanno rivestito il ruolo dei Muli del gioco, manca solo la parte sovrannaturale! Kojima non ha certamente la sfera di cristallo, eppure, il fatto che un’opera di fantasia sia diventata improvvisamente vicina alla realtà fa pensare al fatto che questo mondo non fosse poi così fantasioso, ma molto più vicino al futuro ipotetico immaginato dal game designer.
… e non ha personaggi semplici
Se i personaggi di Druckmann sono complessi, quelli ideati da Kojima sono unici, senza se e senza ma. In questo mondo così poco popolato, ognuno riesce a lasciare il segno a modo suo e ha alle sue spalle un background che si incastra alla perfezione con tutta la narrazione generale; questa unicità mi fa pensare ancora di più a quanto l’opera sia originale. Ripeto che questa non è e non vuole essere una recensione, quindi prenderò in analisi un personaggio solo: Heartman.
Il personaggio, che ricalca le fattezze del regista Nicolas Winding Refn, è uno dei più riusciti che si possano trovare in un videogioco. La sua peculiarità sta nel suo ciclo continuo di morte e rinascita: Heartman è vivo solo per 21 minuti, poi entra in un coma che nel mondo di Death Stranding significa far visita alla propria Spiaggia. L’unicità del personaggio sta nel modo in cui concepisce la sua situazione, non vivendola come una condizione traumatica e debilitante, anzi, lui affronta con curiosità lo stato del suo cuore che ogni 21 minuti smette di battere, facendone un’occasione unica per comprendere cosa c’è dall’altra parte, rimanendo però nella condizione privilegiata di chi può far ritorno.
Non è solo a livello filosofico e simbolico che Heartman acquista importanza, anzi! Durante i suoi colloqui con Sam, il personaggio dà vita a un vero e proprio mantra senza soluzione di continuità, in cui si alza dalla sua poltroncina, fa girare la clessidra tarata sui 21 minuti, vive con avidità quel nuovo scampolo di vita e torna a stendersi senza nessun rimpianto, subito curioso di tornare a indagare le Spiagge e tutto l’universo ultraterreno che compone il mondo di Death Stranding.
Ho detto che avrei parlato solo di Heartman, ma per me è d’obbligo fare due menzioni onorevoli che riguardano Mama e Lockne e Clifford. La prima coppia di personaggi ha le fattezze della splendida Margaret Qualley, mentre Clifford quelle di Mads Mikkelsen; i due interpreti hanno dato prove autoriali uniche, creando momenti altissimi nella storia del videogioco. Il momento del ricongiungimento tra Mama e Lockne, con tutto ciò che il taglio del cordone ombelicale con la C.A. di Mama comporta, viene costruito alla perfezione nel corso del capitolo, portando pian piano alla consapevolezza del sacrificio del personaggio e creando delle emozioni uniche e irripetibili.
Per quanto riguarda Clifford invece, Mikkelsen ha dato al suo personaggio una connotazione unica e altissima al personaggio, andando ben oltre la performance hollywoodiana che ci si aspetterebbe, creando dei momenti che diventeranno di sicuro iconici: il momento del ballo solitario, tutti i dialoghi con la moglie in fin di vita, la fuga… il personaggio non è mai realmente presente nel mondo di gioco, appartenendo a un tempo e un luogo molto distanti, eppure il nostro legame con lui e le sue azioni influenzano così pesantemente la narrazione da diventare pilastri portanti.
La narrazione originale, che si prende anche dei momenti di follia pura e fuori contesto come la corsa in spiaggia con la “Principessa Beach” in puro stile Kojima, e i personaggi unici concorrono a creare un quadro imponente e difficile da osservare nella sua interezza, forse proprio per questo anche complicato da capire, uno scoglio talmente difficile da sormontare che molti videogiocatori hanno gettato la spugna, preferendo tessere le lodi di narrazioni meno originali, ma più dirette e, pertanto, efficaci. D’altronde, Kojima ha da tempo ammesso di essere interessato a produrre opere cinematografiche, lo ha dimostrato con Metal Gear Solid 4 e lo riconferma con Death Stranding, creando un ponte (più che un ibrido) tra due sfere dell’intrattenimento distanti tra loro, ma mai così vicine.
E qui finalmente possiamo dare una risposta alla domanda che chiudeva il primo paragrafo, ovvero: come verrà ricordato Death Stranding? In molti lo hanno etichettato come un Bartolini Simulator, beh non è così, e se anche fosse, si tratta pur sempre di un Bartolini Simulator d’autore e io sono davvero felice di aver vissuto al day one uno dei più importanti videogiochi d’autore dell’era videoludica contemporanea. Nelle prime fasi del gioco Deadman dice a Sam di lasciare le proprie impronte ben visibili, così da indicare la strada ai corrieri che verranno dopo. Il percorso del personaggio interpretato da Norman Reedus nel corso del gioco si rivelerà tortuoso e difficile, la stessa sorte probabilmente toccherà al titolo stesso, ma come tutte le opere originali, alla fine, avrà il riconoscimento autoriale che gli spetta.
E ora caro lettore scusami, vorrei andare ancora avanti, ma anche solo parlare di Death Stranding mi ha messo voglia di tornare a perdermi in quel mondo di gioco per una nuova partita, corro a reinstallarlo!