In molti videogiochi, e in particolar modo in molti titoli ad alto budget, la necessità di dover far coesistere un certo tipo di narrativa “cinematografica” con meccaniche di gameplay ormai rodate dà spesso vita al fenomeno della dissonanza ludonarrativa. Con questo termine ci si riferisce a tutte quelle occasioni in cui quanto avviene nelle fasi puramente “ludiche” entra in diretta contraddizione con quanto viene raccontato in segmenti adibiti al racconto puro, come le cutscene.
In tutte le discussioni sul tema che si sono susseguite negli anni, i primi tre giochi della serie Uncharted sono stati spesso additati come esempio più evidente di giochi “afflitti da questa problematica”. Si tratta, in effetti, di titoli dove il protagonista Nathan Drake viene ritratto come “empatico e dall’animo buono” nei filmati, salvo poi trasformarsi nelle fasi di gioco, secondo esigenze di gameplay comuni a qualsiasi TPS, in un letale pluriomicida di scagnozzi. Dalla battuta pronta, per giunta.
Se con il quarto capitolo la serie di Naughty Dog ha abbracciato un approccio che vede le uccisioni come opzionali (in base alla situazione e sempre a discrezione del giocatore), è anche vero che nel tempo la percezione del fenomeno è cambiata, e da “difetto oggettivo” si è cominciato a parlare invece di attributo intrinseco, e positivo, dei videogiochi.
La possibilità di poter deviare dall’impellenza della trama principale in favore di esplorazione e quest secondarie, ad esempio, costituisce un “diritto” di qualsiasi giocatore, libero così di poter creare, secondo le sue preferenze, il tipo di esperienza desiderata.
Persino un simile approccio può però essere giustificato all’interno delle logiche narrative: è il caso ad esempio di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, dove le quest secondarie diventano necessarie alla preparazione di Link in vista del combattimento finale contro Ganon.
Se una semplice contestualizzazione come quella dell’ultimo Zelda è in grado di arricchire di senso le azioni compiute nel corso dell’avventura, viene allora da chiedersi: quali possibilità di racconto si celano nell’assonanza tra la componente ludica e quella narrativa?
Anche i controlli possono raccontarci qualcosa
Uno degli aspetti che si tende a sottovalutare della “sfera ludica” è, banalmente, quello dell’input. Per quanto possa sembrare improbabile, anche il tipo di pressione associato ad un tasto è in grado di contribuire al senso di immersione nel mondo di gioco. La “corsa” di un pulsante dorsale, in un gioco automobilistico, oltre a offrire un maggiore controllo sulla velocità desiderata rispetto a un semplice “mantieni premuto”, imita grosso modo lo schiacciamento del pedale dell’acceleratore, creando così un’importante analogia motoria tra azione reale e azione virtuale.
In Death Stranding, gioco interamente basato sul trasporto attraverso terreni impervi di carichi ingombranti e difficili da tenere in equilibrio sulle proprie spalle, risulta incredibilmente azzeccata la decisione di attribuire ai dorsali destro e sinistro uno “scossone” nella rispettiva direzione, necessario per riassestare un pacco sbilanciatosi nella direzione opposta. Alla contemporanea pressione prolungata di entrambi i tasti corrisponde invece l’assunzione, da parte di Sam, di una posa che garantisce un equilibrio più stabile a costo di una velocità leggermente ridotta, che “replica” la stretta adesione ad entrambi gli spallacci di uno zaino.
Oltre a favorire il senso di immersione e di coinvolgimento in un giocatore, in alcuni casi il tipo di input assegnato a un’azione contribuisce a raccontare ed enfatizzare alcuni aspetti relativi alla narrativa. È quanto avviene, ad esempio, nei giochi di Fumito Ueda.
Lo si vede in ICO, dove il legame protettivo e di amicizia che unisce il ragazzino protagonista a Yorda è sottinteso dalla necessità di dover tenere premuto un pulsante per prenderle la mano ed aiutarla a proseguire, un’azione prolungata che restituisce anche un senso di gravosa responsabilità. Ma anche in Shadow of the Colossus, dove i colpi letali inferti agli innocenti colossi sono resi “pesanti” dalla modalità in cui l’attacco viene caricato, o nelle sue fasi finali, in cui si è indotti a smettere di resistere all’avveramento dell’infelice destino di Wander…abbandonando del tutto i controlli.
“Assonanza” ludonarrativa
Un altro campo in cui la sintonia tra sfera ludica e sfera narrativa è in grado di offrire un effetto particolarmente intenso riguarda la gestione dell’inserimento di nuovi elementi in termini di gameplay.
La grandissima maggioranza dei videogiochi utilizza gli upgrade come ricompense per il superamento di una sfida più o meno ardua, come un dungeon o lo scontro con un boss. Si tratta senza dubbio di una gratificazione considerevole per il giocatore che è riuscito nell’impresa, che però così si ritrova momentaneamente allontanato dalla componente narrativa, salvo poi tornarci solo in seguito.
È possibile però che l’ottenimento di nuovi potenziamenti si sviluppi di pari passo con la narrazione, magari in seguito ad un avvenimento particolarmente rilevante, le cui implicazioni si riflettono in qualche modo proprio sulle meccaniche introdotte.
È quanto avviene in Metal Gear Rising: Revengeance, dove Raiden, giunto ad accettare la sua indole violenta e a rinnegare qualsivoglia pretesto di “giustizia” per le sue azioni, ottiene nel combattimento contro Monsoon l’accesso alla Ripper Mode, una sorta di stato berserk in cui è in grado di infliggere temporaneamente più danni. Analogamente, nel combattimento finale contro Armstrong, Raiden ottiene sì la spada in grado di danneggiare il Senatore, ma solo dopo essere uscito vittorioso da quello che, inaspettatamente, è un tipo di conflitto profondamente ideologico.
Oppure in Celeste, dove il ricongiungimento di Madeline con la sua controparte “malvagia” corrisponde all’ottenimento del doppio salto, un potere (com’è intuibile) incredibilmente utile in un platform, specialmente se così ostico, che permette alla protagonista di ri-superare con relativa facilità tutti quei livelli su cui aveva gettato sangue e lacrime fino a poco prima. In questo modo, è anche (e soprattutto) attraverso il gameplay che vengono comunicati gli incredibili benefici derivati dal poter contare sul 100% di se stessi, uno dei temi principali del gioco.
Si tratta di soli due casi (sono sicuro te ne siano venuti in mente altri leggendo queste righe), ma risultano piuttosto efficaci nel rendere chiare le potenzialità che si celano dietro l’oculatezza di scelte del genere.
E se fosse il gioco stesso a raccontare?
Infine, un’ulteriore modalità che lega in maniera efficace la componente narrativa a quella ludica vede la prima come direttamente generata dalla seconda, dando vita così ad un’assonanza praticamente inevitabile.
Si tratta però di un caso-limite, difficile da mettere a fuoco a causa dell’incredibile varietà di situazioni in cui è possibile riscontrare un meccanismo simile, ma che è possibile ricondurre ad un tipo di narrazione che prende vita e procede attraverso le stesse “regole” su cui si fonda il gameplay, tra cui rientra l’interazione attiva.
Ciò avviene in una moltitudine di giochi, tra cui, secondo gradazioni variabili, le avventure grafiche a bivi, i titoli dotati di un morality system, e i systemic games (come lo stesso Breath of the Wild, Metal Gear Solid V, e praticamente tutti gli immersive sim). In tutti questi casi, è lo stesso stile di gioco adottato ad influenzare l’esperienza complessiva e, talvolta, ad avere ripercussioni dirette più o meno sostanziali sulla piega che prenderà la trama.
È il caso questo di Dishonored, dove ad uno stile di gioco caotico e votato all’assassinio conseguirà un mondo popolato da ratti e NPC diffidenti nei confronti di Corvo. O ancora de L’ombra di Mordor e L’ombra della guerra, dove, grazie al Nemesis System, gli avversari si ricorderanno delle azioni passate di Talion (in particolare chi ha ucciso e come), non mancando di rinfacciargliele fin nel minimo dettaglio, dando così vita a momenti narrativi “su misura” del giocatore.
Purtroppo, un simile approccio viene più spesso utilizzato solo in relazione ad alcuni aspetti “secondari” della narrativa, mentre lo scheletro principale che la compone raramente risulta essere intaccato dalle azioni del giocatore, che si ritroverà suo malgrado a dover tornare a seguire un modello “classico” entro la fine dell’avventura.
Pur trattandosi di un sistema imperfetto e con ampio margine di miglioramento, risulta evidente sin da ora quanto una narrazione che prosegue attraverso il gameplay risulti di gran lunga più efficace e adatta ad un videogioco, che dell’interazione fa la sua ragion d’essere. Un concetto dimostrato brillantemente, ancora una volta, da Fumito Ueda, che in The Last Guardian ha inserito una sequenza particolarmente significativa, perfettamente analizzata in questo video del canale YouTube Game Maker’s Toolkit.
Dissonanza ludonarrativa: un bene o un male?
Col tempo, come anticipato, la percezione del fenomeno della dissonanza ludonarrativa è cambiata al punto da non essere più considerata come “difetto oggettivo”, contestualizzata invece come espressione intrinseca delle molteplici possibilità offerte dal medium.
Allo stesso tempo però, il polverone che si è alzato negli anni ha spinto critici, sviluppatori, e soprattutto videogiocatori a chiedersi quali possibilità alternative ci fossero per ovviare a quello che un tempo era considerato come un problema, generando così una maggiore consapevolezza condivisa in merito a ciò che i videogiochi sono e diventeranno in grado di offrire.
Quello del videogioco è un medium incredibilmente giovane, e forse solo ora, dopo un periodo di innumerevoli innovazioni tecnologiche, ci si sta cominciando a interrogare sulla sua natura e su ciò che di davvero unico ha da offrire, specialmente in relazione alle inesplorate possibilità di racconto.