Il 10 dicembre 2018 segna il 25°anniversario di uno dei titoli che ha portato alla genesi degli sparatutto in prima persona dei primi anni ’90, e che fece da spartiacque tra il mondo 2D ed il mondo 3D dell’epoca. La sua eredità riguardo l’innovazione tecnologica e concettuale apportata nel mondo dei videogiochi continua ancora oggi ad essere di ispirazione per molti sviluppatori.
John Carmack, la mente geniale dietro al Doom engine (il motore che gestiva il primo ed il secondo capitolo della serie), lasciò tutti di stucco in quegli anni portando su schermo un qualcosa per la quale i PC dell’epoca non erano progettati, difatti con difficoltà riuscivano a gestire una grafica 2D, figurarsi il 3D. Nel 1993 una versione full-fat di Doom richiedeva un PC dalle prestazioni medio-alte e la sfida all’epoca era proprio riuscire a trasporre questa nuova e fantastica esperienza alle più (economicamente parlando) accessibili console. E allora, come riuscì John Carmack a creare quel titolo che tuttora spadroneggia nell’olimpo della storia dei videogiochi se la tecnologia dell’epoca sembrava non poterlo permettere? È semplice, con un trucco! Doom difatti non utilizzava un motore 3D completo, ma estrapolava ed interpretava dati a livello 2D per poi utilizzare “trucchi intelligenti” per dare l’illusione del 3D.
Prima di Doom vi fu Wolfenstein 3D (il cui motore di gioco venne sempre sviluppato da John Carmack) che utilizzava una tecnica chiamata Ray casting, ovvero un algoritmo fra i più basilari che riesce a creare una prospettiva 3D in una mappa 2D. Fu una delle prima soluzioni utilizzate, in quanto come abbiamo già spiegato la tecnologia di quegli anni non permetteva di poter utilizzare un vero e proprio engine 3D. Doom dal canto suo però non utilizzò il Ray casting, ma fece affidamento ad un sistema noto come BSP, ovvero Binary space partitioning (partizione binaria dello spazio). Questo metodo permette al gioco di spezzettare una mappa 2D in piccoli pezzi che vengono poi immagazzinati in un bsp-tree (letteralmente “albero bsp”) ed una volta che si attraversa questo “albero” il gioco verifica quali pareti sono visibili e le disegna su schermo, poligoni molto complessi vengono suddivisi in altri più semplici rendendo di fatto più veloci e performanti le operazioni di rendering.
Il porting (ovvero la trasposizione di un componente software su un ambiente di esecuzione diverso da quello originale) su console dell’epoca come Sega Mega Drive e NES sembrava impossibile, nonostante avessero i loro vantaggi tecnici che le rendevano migliori nel far girare i videogiochi 2D rispetto al PC.
Ma i cambiamenti erano inevitabili e ben presto sarebbero nate nuove console con una gestione 3D superiore e una CPU più performante che avrebbero reso possibile la trasposizione di Doom. John Carmack stesso iniziò a smanettare sulla neonata (novembre 1993) Atari Jaguar per valutarne le capacità hardware. Nel novembre 1994 il porting di Doom sulla console Atari è realtà, il risultato fu sorprendente seppur con dei compromessi rispetto alla versione PC. La riduzione delle texture e della complessità delle mappe fu d’obbligo, ma degna di nota fu la velocità del frame rate che si attestava attorno ai 20 frame al secondo (con dei cali nelle fasi più concitate) rendendola fra le migliori conversioni del periodo.
La versione 32X per l’omonimo add-on di Sega Mega Drive uscì esattamente una settimana prima della versione Jaguar Atari ma il risultato fu tutt’altro che apprezzabile; vi erano soltanto 17 livelli, la palette cromatica era molto scarna, la musica riprodotta con una qualità di campionamento bassissima, i nemici erano visibili solo sul lato frontale, la finestra di gioco ridimensionata e molto altro. Un flop che rispecchiò il fallimento della console/espansione stessa, che fu ritirata dal commercio un anno dopo la distribuzione.
Nel settembre del 1995 il porting per Super NES offrì un risultato tecnologico sorprendente. Seppur marginalmente giocabile, il chip Super FX2, assieme ad un motore di gioco costruito appositamente da zero, resero possibile un adattamento molto più vicino all’originale di quanto non fecero Jaguar e 32X precedentemente. Il grande problema fu il frame rate, che girava attorno ai 10 frame al secondo, rendendolo di fatto, joypad alla mano, poco piacevole da giocare.
A seguito del super NES, sempre nel 1995, si è potuto assistere alla contemporanea nascita del peggiore e del miglior porting di Doom di quell’era, ovvero le trasposizioni per 3DO e per Playstation 1. La versione 3DO fu un disastro e la causa fu attribuita soprattutto ad una cattiva gestione manageriale, scadenze impossibili da rispettare e un approccio ingenuo allo sviluppo del gioco. Tutto fu ridimensionato, l’artwork, i dettagli dei livelli e anche la dimensione della finestra di gioco; inoltre il titolo riportava vistosi problemi di input lag.
Di tutt’altra pasta fu invece la versione PlayStation 1, implementata di ogni ben di Dio, ovvero: Doom, ultimate Doom e Doom 2 per un totale di 59 mappe. Anche con il frame rate a 30 fotogrammi al secondo non era richiesto l’abbassamento della risoluzione (compromesso che anche oggigiorno spesso viene reso opzionale), ma addirittura era possibile apprezzare una resa dei colori più definita rispetto a tutti i porting precedenti. Ciliegina sulla torta era possibile giocare in co-op o in un deathmatch linkando 2 console su 2 televisori. Non disponibile invece lo split screen in quanto la potenza della console non riusciva a gestire due sessioni contemporaneamente. Un plauso al sonoro che innalzò qualitativamente l’intero comparto audio del gioco rispetto alla versione PC, le armi avevano un sound più credibile così come i demoni da affrontare risultavano più demoniaci e meno “digital” rispetto alla versione PC. Eccellente infine la colonna sonora; scordatevi le sonorità MIDI della versione pc, il lavoro compiuto da Aubrey Hodges portò una ventata di aria fresca; ora il sound è molto più sinfonico e meno artificioso tramite l’utilizzo di synth e campionatori che donavano atmosfera al gioco grazie alla possibilità di poter aggiungere effetti sonori come il soffio del vento, gemiti di dolore e ciò che sembra il pianto di un bambino? Una cosa è certa, la colonna sonora trasmetteva all’epoca l’impressione di essere catapultati in una vera regione dell’inferno, il che la posizionava spanne avanti rispetto alla versione PC.
17 mesi dopo l’ottimo porting firmato PlayStation, Rage software prese in carico l’atterraggio di Doom su console Sega Saturn, ma fu un atterraggio mal eseguito che portò parecchi danni posizionando il lavoro svolto dalla software house nella lista dei peggiori porting di Doom. Una su tutte fu l’imbarazzante frame rate che in fase di sviluppo si poneva di arrivare ai solidi 30 fps per poi presentarsi in veste finale con un patetico 13 fps (e anche meno se entravate in una stanza spaziosa con più nemici). Una vera e propria tragedia se considerate che quello di Rage software fu uno dei porting di fine anni 90 (1997 per l’esattezza).
E pensare che sempre nel 1997, di pari passo con il disastro firmato Sega Saturn, Nintendo sbalordì i più presentandosi al pubblico con un vero e sottolineo vero CAPOLAVORO. Stiamo parlando signore e signori di Doom 64 per console Nintendo 64, un gioiello in atmosfera musiche e gameplay (la miglior versione che personalmente abbia mai giocato). Sviluppato da Midway Games con la collaborazione di Id Software, il programmatore Aaron Seeler e dell’immancabile John Carmack. Furono proprio Seeler e Carmack a progettare il render hardware utilizzato per la realizzazione del titolo che portò con sé numerosi vantaggi, come ad esempio un frame rate solidissimo di 30 frame al secondo e una veste grafica che offriva effetti quali cielo in movimento, nebbia, sistema di illuminazione avanzato e una maggiore profondità del colore, un risultato nettamente superiore a quanto visto fino in quegli anni. Doom 64 fu un inno alla paura, la massima valorizzazione dell’anima di Doom e di come fu concepito in principio, ma portato ad un livello superiore. I demoni erano dannatamente demoniaci, sia in quanto ad aspetto, sonoro, ed aggressività; si aveva la netta sensazione di essere soli in uno dei peggiori angoli dell’inferno, e che tutto ciò che si muoveva era lì per farti a pezzi. Punto. Non c’è altro modo di poter riassume questo gioiello, e tutto ciò che si può dire ulteriormente necessiterebbe di una recensione apposita. Possiamo affermare senza ombra di dubbio che chiunque abbia provato Doom 64 in quegli anni (soprattutto durante l’infanzia) lo porterà sempre nel cuore con sé nonostante il terrore procuratoci.
Con l’avvento del ventesimo secolo si susseguirono altre conversioni di Doom per le piattaforme di quel momento, ovviamente considerando il quasi decennio trascorso dalla apparizione del primo capitolo su PC, le difficoltà di porting si erano praticamente ridotte a zero. Vi fu una versione per Game Boy Advance nel 2001 ad esempio, che nonostante le ristrettezze hardware e software propose un prodotto molto superiore (soprattutto in termini di fluidità) a ciò che fu proposto da 3DO.
Le moltissime versioni di Doom per le moltissime console sul mercato saltarono l’era PlayStation 2 per atterrare direttamente su XBox 360 nel 2005. Qui c’è poco da dire se non che in una versione che includeva Doom 3, Doom 2 e Doom denominata Doom 3: BFG edition il porting non poté che essere perfetto; sembra anche banale sottolinearlo, la tecnologia presente in quegli anni aveva di gran lunga superato la potenza di calcolo dell’ormai lontano 1993 quindi fu un gioco da ragazzi inserire i primi due capitoli all’interno di un disco che conteneva anche l’ottimo Doom 3.
Potremmo parlare per chiudere questa carrellata del reboot dell’omonima serie apparso nel 2016 su PlayStation 4, XBox One, PC, e per l’anno a seguire su Nintendo Switch. Pubblicato da Bethesda softworks e sviluppato da Id Software il titolo offre un esperienza davvero mozzafiato, la perfetta unione tra antico e moderno in quanto le meccaniche di gioco e il gameplay generale sono rimasti pressoché fedeli all’originale, ma il tutto incanalato in un filtro di ipermodernità e freneticità da capogiro. Gli inarrestabili 60 frame al secondo uniti ad una violenza pronunciata e ad un comparto grafico al passo coi tempi rendono questo reboot la perfetta sintesi di 25 anni di storia di Doom. Dallo stesso team e dallo stesso publisher sarà previsto (a data da destinarsi) il sequel del titolo sopracitato, denominato DOOM ETERNAL e che promette (stando ai video gameplay mostrati durante la conferenza Bethesda all’E3 2018) ancora più violenza e freneticità del titolo precedente, portando alle stelle ciò che già era ottimo nel 2016.
Al giorno d’oggi la versione dei primi Doom nelle migliori delle loro vesti potreste trovarla (ovviamente) anche nel tostapane di casa. Immaginate di poter prendere in prestito la DeLorean di “Ritorno al futuro” e tornare negli anni 90 per raccontare ai videogiocatori e sviluppatori dell’epoca che nel 2014 sarebbe stato possibile giocare Doom direttamente sul proprio orologio (la versione smartwatch quindi). Sicuramente esilarante.
Riflettendo su ciò, sembra incredibile come lo sviluppo tecnologico incalzante renda comica la fatica e la spremitura di meningi che era necessaria per sviluppare un prodotto nel passato, così come sembrerà semplice e banale la tecnologia che oggi noi apprezziamo e di cui godiamo alle generazioni future. Ma il tempo non è altro che un flusso unico e continuo e ciò che reputiamo passato è solo un fotogramma cristallizzato nella nostra mente e che in realtà si rivela essere un continuum con il presente ed il futuro. Senza John Carmack forse Doom e tutto ciò che ne è conseguito nel mondo videoludico non sarebbe mai esistito? Chi lo sa, ma è prova del fatto che il passato è il futuro, ed è quindi rispettoso ricordare, come abbiamo voluto fare in questo articolo, gli eroi del passato che saranno di ispirazione per gli eroi del futuro.
Buon compleanno DOOM.