Per gli appassionati, i nerd persi oltre ogni capacità di redenzione, gli storici dei videogames e, in generale chi inizia ad avere qualche pelo bianco tra la barba o in testa, il 9 settembre non è una data qualsiasi. Ancora meno lo è quest’anno. La piattaforma che ha ridefinito il concetto di console è divenuta disponibile da oggi in nord America, vent’anni fa. Il 9/9/99 la Dreamcast iniziava a fare la storia.
È facile idealizzare questa console: dotata di un’architettura molto più avanzata dei suoi concorrenti, nata da una software (e hardware) house morente. Destinata ad essere perdente eppure, come gli spartani alle Termopili, si è battuta contro nemici soverchianti uscendone con l’onore delle armi. Sarebbe sufficiente ma c’è di più, oltre al lato emotivo. Il sistema operativo della Dreamcast era basato su Windows CE e fu il primo tentativo di Microsoft di approcciare il mondo delle console. Bill Gates non era convinto della possibilità di entrare nell’arena della console war ma il piede messo per bloccare la porta, con la Dreamcast, lo convinse delle potenzialità delle neonate DirectX. Gates era giustamente convinto, però, che SEGA fosse troppo provata dal disastro Saturn per riuscire a contrastare PlayStation.
Le cause del fallimento del’ultima console prodotta da SEGA furono, in effetti, diverse e complesse. La divisione americana di SEGA aveva perso la fiducia dei retailer e di una considerevole parte dei fan, con i passi falsi del MegaCD e il fallimento commerciale di Saturn e tentò il tutto per tutto con un prodotto che era di gran lunga migliore della concorrenza. Purtroppo Sony ebbe l’idea di sfruttare il successo della prima Playstation per lanciare un successore che travalicasse il concetto di “macchina da gioco” e prendesse il ruolo di apparato per l’home entertainment. Una sorta di cavallo di Troia che aiutasse diffondere il formato DVD. Alla fine del primo trimestre del 2001 le vendite avessero superato i 7 milioni di unità. Sfortunatamente arrivarono a malapena a 4,5 milioni e SEGA annunciò lo stop alla produzione entro la fine del 2002.
Perché, allora, ricordiamo questo lampo al magnesio videoludico? Perché fu esattamente come un lampo al magnesio, appunto. Breve ma intensissimo, tanto da imprimersi se non nelle retine, nella memoria collettiva dei gamers. La generazione a cui appartenne la Dreamcast fu la pioniera in diversi aspetti che oggi diamo per scontati. Fu la prima console in cui le conversioni da arcade coin-op smisero di essere copia della macchina da sala giochi e divennero migliori del gioco da cui prendevano spunto. Soulcalibur ne fu l’esempio perfetto. Fu anche la console ricordata per Shenmue, un “simulatore di vita” (e di vendetta) il cui gameplay stesso era difficilmente descrivibile a quel tempo. Con l’occhio smaliziato di 4 lustri più vecchio, sembra che lo scatolotto bianco fosse un esperimento collettivo mirato all’evoluzione del videogiocatore tramite l’iniezione di IP (intellectual property, titoli originali) mirate. Come spiegare, altrimenti Seaman?
Questo è forse il segreto del suo successo, a distanza di due decadi. La capacità di stupire con un gioco, come un prestigiatore, per far percepire che ci sia più di quanto non appaia. Non è questo che ci auguriamo quando affrontiamo un nuovo titolo, indipendentemente dalla piattaforma? Vivere un piccolo sogno. Sul pianeta Serra o per fermare Sephirot o per strappare una principessa rapita al perfido Ganondorf.
Dreamcast ha compiuto 20 anni ma sta bene e non ci ha mai abbandonato.