EMPYRE: Dukes of the Far Frontier è un RPG isometrico dal piglio classico che rappresenta un doppio ritorno: da una parte rappresenta la seconda opera di Coin Operated Games, software house con sede nello stato americano del Delaware che ha già dato i natali al precedente EMPYRE: Lords of the Sea Gates nel 2017, che condivide lo stesso universo di questo titolo; da un’altra il ritorno alla pubblicazione dell’editore videoludico Work Shift Play inc., presumibilmente conterranea (le informazioni su di essa scarseggiano).
Si tratta di un titolo inquadrabile nel revival dell’isometria che stiamo vivendo, declinata questa volta nel suo genere più tradizionale: il gioco di ruolo, con una particolare attenzione alla componente narrativa, mentre gameplay e navigazione sembrano essere stati trattati con eccessiva leggerezza.
EMPYRE: Dukes of the Far Frontier, il deserto è la nostra sola speranza
L’ambientazione di EMPYRE: Dukes of the Far Frontier è un 1911 totalmente ucronico in cui le piante hanno sviluppato un’implacabile aggressività nei confronti del genere umano a seguito di una serie di terribili inondazioni. Mentre il mondo viene sommerso da acqua e viticci, l’umanità si rivolge all’unico ambiente che può salvarli dalla minaccia vegetale: il deserto.
Gli ostili oceani di sabbia in cui la nostra specie è costretta a vivere vengono presto domati, e culmine di tale progresso è rappresentato dall’edificazione della mastodontica città di Bliss, retta da un misterioso Arciduca che vive in cima alla torre più alta della città. All’interno di essa uomini e donne vivono in totale ozio, con i loro bisogni sbrigati dai Meccanici, una nuova risma di robot in grado di svolgere qualunque compito ma priva di propria volontà, che costituisce una sorta di classe schiavistica automatizzata.
Al di sotto di Bliss vi è il resto dell’umanità, organizzata in piccoli insediamenti in mezzo al deserto e da Hopetown, una sorta di baraccopoli che circonda la città. Proprio lì iniziano le vicissitudini di Joe, il nostro protagonista, il quale viene presto a contatto con la frangia più malfamata della popolazione.
Un mistero legato a doppio filo con i Meccanici getta ombra sulla città di Bliss, e sarà compito di Joe stesso investigare a riguardo, mentre l’Arciduca comincia ad avere dei progetti per lui.
Nessuno è al sicuro, nemmeno in mezzo al deserto
EMPYRE: Dukes of the Far Frontier condivide con il proprio predecessore la totalità del gameplay, con mutata solo l’ambientazione (EMPYRE: Lords of the Sea Gates trovava il proprio setting in una New York devastata dalle inondazioni già citate).
Tornano dunque l’esplorazione e il combat tipiche del RPG isometrico, con la possibilità, nei momenti di combattimento, di pianificare le azioni mettendo in pausa il gioco. Tale meccanica è tuttavia penalizzata dall’organizzazione poco agevole dell’interfaccia. Essa ha anch’essa un aspetto piuttosto tradizionale, tuttavia poco accattivante, a tratti scialbo e sgranato. A coronare quest’apologia della scomodità ci sono input lag che spazientiscono facilmente chi gioca.
La scheda personaggio, elemento distintivo di ogni RPG propriamente detto, contiene anch’essa le stat che si potrebbero trovare in qualunque prodotto similare. Sono inoltre presenti i perk, aggiungibili e aggiornabili pressappoco ad ogni avanzamento di livello ma limitate al miglioramento di alcune stat, perdendo dunque il loro significato originali di ‘vantaggi‘.
Le mappe sono piuttosto vaste e numerose, oltreché piuttosto eterogenee esteticamente. Soffrono tuttavia della stessa poca agevolezza che caratterizza le interfacce e la navigazione del gioco.
Si salva la trama, ma c’è qualche ispirazione di troppo
A conti fatti, appare chiaro che se c’è un punto di forza in EMPYRE: Dukes of the Far Frontier, esso può essere sicuramente trovato nella lore e nella trama, impregnata di trovate retrofuturistiche degne del genere.
Ci sono tuttavia degli echi disturbanti per quanto riguarda questi elementi: una città in mezzo al deserto caratterizzata dalla presenza di un’alta torre, di un autarca senza scrupoli e di una nuova generazione di robot diversa e superiore a tutte le altre. Chiunque legga tali parole senza sapere che siano riferite al titolo che trattiamo oggi potrebbe ricordarsi in realtà di un capolavoro retrofuturistico meno recente, ossia Fallout: New Vegas (2010). Viceversa, anche il precedente potrebbe avere un qualche richiamo di troppo alla saga di BioShock.
Nessuno si sente di puntare il dito accusatore di plagio verso Coin Operated Games. Certo è che l’ispirazione ad altre opere ucroniche o retrofuturistiche è tanta ed oltremodo evidente.
L’estetica, seppure ispirata, è enormemente penalizzata dalla scarsa cura sul lato tecnico del gioco: oltre ai suddetti input lag, la grafica è rimasta agli anni duemila, con l’imperversamento, a tratti, di cali di frame rate, inaccettabili per un titolo del genere.
Neanche sonoro e colonna riescono a soddisfare, toccando il fondo durante le sessioni di combat, accompagnati da quella che sembra un’accozzaglia senza senso di suoni casuali con pretese artistiche. Doppiaggio, tanto per cambiare, non pervenuto, tranne nella cutscene introduttiva, la quale racconta la catastrofe che ha spinto l’umanità a migrare verso il deserto attraverso disegni fatti per l’appunto con la sabbia (una trovata artistica molto piacevole alla vista).