La controversia è ormai entrata negli annali; fin dalla loro nascita, e ora che si fanno sempre più “realistici” la questione si è esacerbata, i computer games sono stati oggetto di critiche e riflessioni circa la loro connotazione morale, contrapponendo spesso etica e videogiochi. Oggi non cercheremo di rispondere alla domanda “i giocatori sanno discernere?”, ma porremo in essere una riflessione che sia utile a tutti, non avendo senso catalogare il mondo con etichette limitanti e spesso fuorvianti in discorsi come questi.
Il primo spunto ci arriva da Anton Sukhov, faculty member della Ural Federal University in Russia, il quale ci invita a fare una prima distinzione tra dimensione esterna e interna nel problema morale che coinvolge questa nostra passione.
Dimensione esterna
L’autore vi comprende tutti i fattori legati allo sviluppo della dipendenza da videogiochi, da rintracciare non solo nella psicologia del singolo, ma anche nel contesto sociale e culturale in cui è immerso. Questo aspetto, potremmo immaginare, fa appello non solo al benessere della persona, ma a tutta una serie di accortezze che mi sento di indicare, lanciando la palla anche al contesto familiare.
Come sostengono alcuni esperti dell’educazione, tra cui docenti dei corsi di metodologia del gioco a cui ho personalmente partecipato sostenendo anche l’esame, le minacce che si possono trovare in questa cosiddetta dimensione esterna, senza considerare la specificità delle predisposizioni particolari, possono essere evitate dal buonsenso e da buone abitudini. Giusto per dare alcuni spunti per i tuoi approfondimenti, non c’è da stupirsi se magari leggiamo di genitori che si lamentano del figlio 14enne che passa 15 ore al giorno davanti allo schermo, quando la console/PC viene tenuta in camera sua, lontano dal controllo o comunque dai centri della vita familiare diurna. Non c’è da stupirsi se sentiamo di padri e madri che accusano le software house di divulgare giochi diseducativi e inopportuni, quando al figlio di 10 anni viene comprato GTA V, di sicuro ingenuamente e in buona fede. Questa piccola parentesi non per elargire accuse o sparare sentenze, ma per sollevare in te, caro lettore, una riflessione che spero ti porti ad analizzare il tuo quotidiano. Conosci questi simboli?
Oltre ad essere iconcine carine e ben chiare per il loro scopo, la Classificazione PEGI indica esattamente cosa aspettarsi dal gioco che stiamo acquistando e a quale fascia d’età è rivolto. D’altra parte, ed è alla portata della comprensione di tutti, una scena violenta è vissuta ed elaborata molto diversamente da un bambino di 10 anni rispetto ad un maggiorenne, analogamente per le parolacce e tutti i contenuti possibili. Non solo sia ha più esperienza della vita, ma la nostra identità è alle fine della propria formazione, la nostra visione del mondo un po’ più chiara. Ciò nonostante, come ben sappiamo da questo articolo sull’influenza dei videogiochi, tra gioco e giocatore c’è sempre una interazione, e da questa interazione impariamo; il come, dipende anche dalla nostra cultura.
Dunque, in base a come sistemiamo l’ambiente esterno di gioco e rendendoci consapevoli della classificazione dei contenuti, è possibile operare scelte oculate a beneficio del fruitore.
Ora si scende nel complicato, ma è nella complessità che si trovano gli elementi per capire in modo meno approssimativo un problema. Non ti darò tutte le informazioni disponibili, è impossibile, ma cercherò di fornirti qualche strumento per farti le domande giuste, più che per trovare le risposte corrette.
Un secondo aspetto che rientra nella dimensione esterna, a detta dell’autore russo, si riferisce all’impatto del gioco sul giocatore, o meglio l’interiorizzazione dei contenuti di gioco da parte di chi lo sta giocando.
Negli scorsi giorni abbiamo già affrontato questo problema con le affermazioni di Yoko Taro, discusse in questo articolo. A tal proposito il mondo si spacca in due, pure quello scientifico. Nel mondo occidentale prevalono le ricerche in cui non emerge alcuna evidenza di correlazione tra violenza nei videogiochi e violenza nella vita reale, facendo appello alla capacità di distinzione dei contesti che si ha, o si dovrebbe avere, fin da bambini, imparandola dal contesto familiare e sociale che viviamo quotidianamente. Così, come so fin da piccolo che in chiesa non dovrei correre, che in classe non dovrei urlare, che nella vasca da bagno non ci dormo, che non mi lavo le ascelle dal lavello in cucina, allo stesso modo una persona dovrebbe saper distinguere ciò che è lecito in un videogame e cosa no. Questo tanto più che all’interno di un gioco ci si può muovere e si può agire solo all’interno delle possibilità concesse dal gioco stesso; riletto in chiave positiva, si potrebbe quasi dire , o perlomeno sospettare, che i videogiochi in un certo qual modo “insegnano” il rispetto delle regole legate ai contesti specifici, e quindi anche a distinguere i vari contesti e le possibilità comportamentali ad essi associati. Il tutto, ovviamente, se ne viene fatto un uso consapevole e opportuno. E qui ancora una volta torna il riferimento alla classificazione dei contenuti, la quale magari permette di evitare l’anticipazione di contenuti a individui in un’età in cui ancora non sono in grado di dar pieno significato a quel che vedono, evitando quindi di bruciare tappe importanti del loro sviluppo e permettendo l’interiorizzazione di norme sociali carpite dall’educazione familiare e legata al contesto sociale, la quale permetterebbe di distinguere nettamente mondo reale e virtuale, almeno a livello comportamentale.
Nonostante questa sia la visione riconosciuta dai più, c’è una fetta della comunità mondiale, anche di quella scientifica, che la pensa esattamente nel modo opposto.
L’esempio riportato da Anton Sukhov è quello delle parole di Laura Davis, psichiatra infantile americana, la quale afferma che
“La disciplina e lo sviluppo del bambino dipendono in gran parte dalla comprensione delle conseguenze. Giochi per computer come Grand Theft Auto rappresentano le conseguenze come ricompensa. Hai ucciso una prostituta e ottenuto punti, questa è la tua ricompensa”
A questa spiegazione aggiunge che a differenza di un libro che racconta episodi di violenza, nel videogioco tale violenza è visualizzata e agita, rendendo non paragonabile l’impatto rispetto ad una buona lettura.
A fornire un’ulteriore analisi ci pensa Sirak Tegegn, il quale presso l’Università di Amsterdam approfondisce le implicazioni morali proprio di GTA V e ne pubblica gli esiti. In breve, secondo alcuni articoli da lui menzionati sembra che giochi come GTA rischiano seriamente di sdoganare non solo la violenza, ma altri comportamenti antisociali come l’uso e abuso di alcol, fumo, droga e prostituzione. E ancora, razzismo, violenza verbale e sessismo, presenti nel gioco e rinforzati, come diceva Laura Davis, possono costituire un elemento facilmente interiorizzabile dal giocatore perché messo in pratica più e più ore, per tutta la permanenza sul titolo in questione. Tuttavia, Sirak sottolinea che tutto questo più che assiomatico risulti discutibile, o quanto meno da capire nella sua complessità. Infatti, prima di bollare un gioco per il primo impatto, Sirak suggerisce di ricordare quanto sia importante il ruolo del contesto sociale e culturale, dal momento che alcuni comportamenti ritenuti inaccettabili in Italia, siano invece prassi sociali ben viste in Corea. Conclude poi con un appello non solo ai consumatori verso una consapevolezza di ciò che comporta giocare a questi titoli, ma anche ai produttori e sviluppatori nella scelta dei contenuti.
Io aggiungerei, se posso permettermi, un appello a visionare la descrizione e la copertina dei giochi: in GTA V (non che mi piaccia il titolo o voglia prenderne le parti), compare un bel 18+ PEGI, quando appunto la Davis parla di bambino.
Non tutto il male viene per nuocere, si potrebbe dire. Infatti, in base ai contenuti, secondo Aspa Lekka e Maria Sakellariou i videogiochi possono addirittura diventare strumenti educativi potenti, una volta operata una scelta etica sui contenuti proposti. Se di interesse potremmo trattare in un successivo articolo l’argomento, ma intanto ti anticipo che, a titolo di esempio, sono stati sviluppati giochi anche per individui di 3-4 anni a cui far giocare il bambino (non più di pochi minuti) che favorirebbero l’associazione suono-parola aiutandoli quindi ad imparare la lingua, sia scritta che parlata… il tutto giocando, quindi divertendosi.
Oltre a ciò, si sta diffondendo un’altra percezione del gioco, che prescinde, per così dire, dal contenuto: esattamente come il cinema è passato dallo status di intrattenimento a opera artistica, il videogioco sta seguendo lo stesso percorso, e agli occhi di molti ha già fatto molta strada, ad occhi degli altri sta usurpando un posto che non gli spetta.
Dimensione interna
Tornando al lavoro di Sukhov, è giunto il momento di puntare l’occhio all’interno del gioco. Infatti, oltre al rapporto tra giocatore e gioco, è importante capire cosa si cela dentro i giochi stessi.
In prima istanza va premesso che esistono tanti generi, tipologie di videogames molto differenti tra loro e che, di conseguenza, hanno implicazioni diverse. L’autore a cui ho deciso di riferirmi, per semplicità, in questo articolo ne approfondisce in particolare due, gli action (includendoci shooters, e di combattimento) e gli RPG, ma il discorso può valere anche per gli altri, come gli economics simulators.
Nei primi apparentemente il giocatore non si trova a fare scelte morali, ma per raggiungere l’obiettivo procede, elimina gli avversari e arriva dove vuole arrivare. In particolare, negli shooters parrebbe legittimata la violenza contro nemici ormai diventati canonici, come i nazisti (basta pensare a Wolfestein), o gli immaginari zombie e mostri vari. Tuttavia, ed è bene sottolinearlo, in alcuni giochi, Sukhov usa come esempio proprio una missione di Call of Duty Modern Warfare 2 poi non pubblicata nella versione ufficiale rilasciata in Russia nel 2009. Questa, denominata “No Russians“, ambientata nell’aeroporto di Mosca, permette di sparare e uccidere sì ai nemici, ma anche ai civili presenti nella mappa. Censurato in Russia, questo livello emblematico della questione, ha suscitato reazioni come la proposta di punizioni virtuali per chi nel mondo virtuale eserciti violenza gratuita, come tortura, ammazzare civili in gioco, etc… proponendo quantomeno di far rispettare le regole militari internazionali anche nei videogiochi, a mo’ di regolamentazione “realistica”. Sospendendo l’analisi su quanto questo possa fare una qualche differenza, rimane il discorso che, volendo o nolendo, ci sono effettivamente giochi che permettono di esercitare una violenza gratuita e gore in game, basti pensare alla serie di Soldier of Fortune (qualcuno ricorda Double Helix?), o episodi più gravi nella storia, come Ethnic Cleansing, il tanto discusso e criticato titolo pubblicato da Resistance Records.
Relativamente agli RPG, la cosa si fa decisamente interessante. Infatti, mentre per gli action il percorso è lineare, si può andare solo avanti immutati dagli eventi, la componente RPG aggiunge variabilità non solo al gioco, ma anche alla sua sfera morale. In quanti ricordiamo lo strepitoso Star Wars Knight of the Old Republic? E la trilogia di Mass Effect? Questi, come altri titoli del genere, permettevano di collocare il proprio personaggio “tra i buoni o tra i cattivi” in base a come si comportavano in game, alle scelte che il giocatore prendeva nel mondo di gioco. Oltre alla nostra reputazione in game, cambiavano tutta una serie di caratteristiche, aspetto compreso. Il tutto, era riportato in una barra presente nel menù del personaggio.
Questa tipologia di gioco pone il giocatore di fronte a situazioni spesso ambigue per richiedergli poi di fare una scelta, la quale avrà conseguenze tangibili nel mondo di gioco, talvolta anche non nell’immediato. Di fronte a questo, è sorto il dubbio di quali situazioni siano “eticamente corrette” da sottoporre alle decisioni di chi gioca, e quali invece siano da evitare. Tutto ciò per eludere il rischio che cose del genere possano portare una persona a fare scelte “cattive”, abituandosi e addirittura trovando gusto nel tipo di scelta. Tuttavia, guardando l’altra faccia della medaglia, va considerato che da piccoli è importante giocare per “fare prove” del mondo. Si impara a conoscere e capire la nostra quotidianità giocando al “far finta”, per vedere cosa succede, nella tranquillità del contesto ludico che ovviamente non riporta conseguenze reali, ma solo all’interno del mondo di gioco stesso. La sto prendendo alla larga, sì, ma è per sollevare una riflessione condivisa da alcuni esperti. Se invece che instradare sulla via della perdizione, gli RPG, ma così anche avventure grafiche e novels come Life is Strange, portassero a far esercizio e a sperimentarsi in situazioni ambigue e aiutassero a prefigurarsi dilemmi ai quali poi, nella realtà, in un momento successivo saremmo in grado di rispondere? Non parlo di scelte di vita o di morte, ma dell’interpretazione di situazioni ambigue dalla difficile connotazione valoriale, per cui non sempre è possibile dire “questo è bene, questo è male”. In questo senso, più che una trappola mor(t)ale, i videogames potrebbero essere una palestra, e di questo dovrebbero prendere consapevolezza, di conseguenza, tutti gli attori in campo, dai giocatori e genitori agli sviluppatori.
Tutta la dinamica delle scelte compiute in gioco acquisisce maggiore rilevanza per il discorso già affrontato in questo articolo, relativamente all’identificazione con l’avatar. Questa fusione con il nostro alter ego virtuale, ne abbiamo già parlato, ha conseguenze potenzialmente sia negative che positive. In un continuo scambio tra giocatore e avatar, la loro interazione può portare a vivere intensamente l’esperienza di gioco come ci fossimo dentro, ma dall’altra ad apprendere e migliorare le nostre prestazioni attentive, cognitive e di problem solving. Tant’è che sul discorso identitario trattato già nel suddetto articolo, recenti studi hanno posto le basi per l’utilizzo di RPG ad hoc e giochi di simulazione nell’ambito terapeutico, in particolare delle fobie. Nel caso in cui risulti interessante e tu voglia saperne di più sulla terapia tramite videogames, lascia un commento con scritto cosa vuoi che approfondisca.
Cercando di tirare un po’ le somme, Jimmy Dang, Jin Lee e Chau Nguyen indicano come temi da tenere d’occhio quelli che abbiamo accennato, l’approfondimento dei quali lo lascio a te, caro lettore.
In breve, riassumono la questione “etica e videogiochi” in questi punti, includendoci anche indizi di soluzione:
- C’è chi crede che giocare ai videogiochi renda violenti, ma non emerge nessuna evidenza di correlazione, tanto meno causale. Tuttavia è comprensibile che i videogames, come elemento culturale, forniscano delle rappresentazioni che potrebbero influenzare la percezione che il giocatore ha del mondo e di certi temi;
- Affidandosi alla classificazione (PEGI nel nostro caso) dei contenuti e formando i genitori in materia, è possibile mitigare ogni possibile effetto offrendo ai giovanissimi videogiochi adatti per la loro età, anche se non ci sono divieti o sanzioni esplicite o legiferate che impediscano di acquistare giochi indicati per età diverse dalla propria;
- Legato al secondo punto, è possibile sviluppare dipendenza passando un ammontare di ore sproporzionato di fronte ai videogames, con il rischio consequenziale di un ritiro sociale al di fuori dello schermo;
- La comunità scientifica è divisa tra chi afferma che i videogiochi non abbiano implicazioni etiche e chi invece è convinto che abbiano un ruolo importante in termini morali;
- Anche se le buone pratiche possono ridurre i rischi legati al mondo videoludico, potrebbe essere opportuno in futuro che la classificazione PEGI vada a includere ulteriori indicazioni utili non solo per capire i contenuti dei giochi, ma per sapere anche come comportarsi con essi e con chi li gioca.