Far Cry 6 ha meno di una settimana di vita. Ciononostante, una miriade di guerrilla, uomini e donne, stanno già scorrazzando per l’isola di Yara (più correttamente un arcipelago dato che oltre all’isola principale ce ne sono almeno altre quattro esplorabili, per quanto piccole siano, oltre a varie isolette e scogli). Ciò è dimostrato, tra le altre cose, anche dalla polemica sul combattimento tra galli, alla quale non daremo in questa sede ulteriore adito in quanto irrilevante ai fini delle nostre discussioni di oggi.
Tutti e tutte ci ricordiamo quel triste giorno di ottobre dell’anno scorso in cui arrivò il primo (e per fortuna unico) rinvio del titolo da febbraio 2021 a data da destinarsi. Ora, dopo ventuno ore di gioco (per quanto chiaramente insufficienti onde completare alcunché) è il momento di interrogarci insieme e comprendere se questo rinvio ha giovato o meno a quelle promesse fatte da Ubisoft nel corso di questi mesi riguardo i cambi di direzione e i miglioramenti cui la serie sarebbe andata incontro con Far Cry 6.
Andremo in particolare ad investigare i tre aspetti di Far Cry 6 su cui tali cambiamenti sono stati più incisivi, cercando di capire se, almeno a quanto visto finora, siano stati in grado o meno di adempiere ai propositi di rinnovamento di Ubisoft.
Prima di iniziare, devo avvisarti che l’articolo potrebbe contenere spoiler per quanto riguarda l’early game del gioco, quindi, se hai voglia di conoscere di persona Far Cry 6 nella sua interezza, ti consiglio di interrompere qui la lettura. Cominciamo!
La favola del Far Cry 6 cambiato #1: il crafting
Nei tanti video rilasciati e panel organizzati in seno a Ubisoft, si è parlato tantissimo della svolta ‘artigianale’ del crafting, che in un certo senso era già stata portata avanti in Far Cry New Dawn (2019), quel bistrattato DLC stand-alone di Far Cry 5 (2018) di cui Far Cry 6 e il suo sistema di crafting, volente o nolente, porta i segni.
Tale eredità sembra avere una ragion d’essere ben precisa: tra i vari team di Ubisoft che hanno collaborato con Ubisoft Toronto alla realizzazione del titolo figura Ubisoft Shanghai, tra i principali collaboratori di Ubisoft Montreal per lo sviluppo di Far Cry New Dawn, per cui è normale che i membri del team cinese abbiano apportato le loro esperienze pregresse in questa nuova collaborazione.
Il crafting sembra infatti estrapolato in toto da Far Cry New Dawn, con armi artigianali che farebbero invidia al più visionario tra gli studiosi di balistica, così come la raccolta risorse e la gestione degli insediamenti.
Fortunatamente non si tratta di un totale riciclaggio di meccaniche come capitò nel momento più buio della saga, vale a dire la metà del decennio scorso, in cui uscirono rispettivamente un Far Cry 4 e un Far Cry Primal che ricevettero accuse al vetriolo sulle quali spiccava quella (non del tutto scorretta) di essere meri surroghi di Far Cry 3 (2012), da molti ritenuto l’apogeo della saga e che in effetti per la sua epoca fu un titolo importante.
Anzitutto, abbiamo a che fare con un crafting estremamente più approfondito ed appagante rispetto a quello proposto nell’indiretto predecessore di Far Cry 6. Questo è dovuto ad un minore coefficiente di casualità nel reperire le risorse necessarie alla fabbricazione delle armi, che è a propria volta legato a doppio filo con il prossimo aspetto del gioco che andremo a trattare.
La favola del Far Cry 6 cambiato #2: l’open world ‘atipico’
Far Cry, come tante altre serie dotate di ambientazioni open world, ha registrato nel corso della propria storia un problema a lungo ignorato o comunque sottovalutato: la dispersività. Mappe vastissime colme di attività fini a sé stesse e scevre di una qualunque profondità narrativa che le rendesse degne di liberarsi dalla nomea di ‘macro-collezionabili‘.
Se Far Cry 5 e Far Cry New Dawn erano riusciti solo parzialmente a dare una pienezza migliore alle attività secondarie, in Far Cry 6 il problema sembra essere finalmente risolto: ora ha finalmente senso aiutare i propri compagni di fazione, così come ce l’ha l’implementazione delle quest a tempo per i membri di Libertad (meccanica già sperimentata negli Assassin’s Creed usciti tra il 2010 e il 2012, seppure in quel caso si rivelo piuttosto fallimentare come idea, per quanto innovativa).
L’utilità di questi interventi, totalmente privi di senso almeno fino a Far Cry 5, è dovuta al fatto che si rendono necessari non solo per raccogliere risorse, ma anche per l’esplorazione in sé stessa, marcando i vari punti d’interesse sulla mappa.
Se questo processo già iniziato con Far Cry 5 può dirsi completo, non si può dire lo stesso nel senso ‘fisico‘ del termine: Far Cry 6 continua nei fatti ad essere un open world nel senso ormai ufficializzato del termine, largo per l’esattezza ottantotto chilometri quadrati di cui circa venticinque subacquei (il metodo Assassin’s Creed Odyssey non passa mai di moda, no?)
La favola del Far Cry 6 cambiato #3: la regia e il cast
Concludiamo in bellezza con una riflessione sui personaggi che popolano l’ultimo nato di Ubisoft e sul mutamento più importante registrato: la fine del piano sequenza lungo tutto il gioco.
Ogni singolo Far Cry fin dall’avvio della serie nel 2004 aveva conservato tale caratteristica volta a favorire l’immedesimazione e la sospensione d’incredulità di chi giocava. L’avventura di Dani Rojas, maschio o femmina che sia, ci viene invece presentata nel modo più tradizionale, facendo di fatto perdere alla serie un marchio di fabbrica.
A tale ‘semi-snaturamento’ sopperiscono tuttavia diversi altri passi avanti compiuti sul versante più filmico e narrativo del titolo. Tanto per cominciare, l’esistenza stessa di Dani Rojas ha salvato il gioco dall’eccessivo anonimato del protagonista senza nome dei precedenti due titoli della serie. A conti fatti, Far Cry non registrava un protagonista col carisma di Dani Rojas fin dai tempi di Jack Carver (neanche il preistorico Takkar, che aveva un minimo di potenziale, è riuscito ad eguagliare in carisma il primo protagonista di Far Cry).
Anche in questo caso, si registra la presenza di numerosi comprimari, ma stavolta, almeno nelle prime battute, sembrano essere stati trattati meglio dagli sceneggiatori del titolo rispetto ai loro predecessori, con un’attenzione senza precedenti al loro spessore psicologico (anche in questo caso si è trattato di un processo graduale già cominciato con Far Cry 5). Un esempio è la guerrilla Espada, che deve fare i conti con la malattia del padre e l’ostilità del fratello, o i musicisti Talia e Paolo, leader della banda rivoluzionaria Máximas Matanzas, che hanno una relazione torbida ma vivace.
Tautologico è spendere troppe parole sul nostro presidente Antón Castillo, che come ogni cattivone di Far Cry, non ha assolutamente deluso, complice l’interpretazione, finora come al solito impeccabile, di Giancarlo Esposito, accolta con plauso fin dal suo annuncio.
Le ultime parole di plauso va alla localizzazione italiana del titolo, che pur fermandosi al solo sottotitolaggio si è rivelata molto più efficace di una versione doppiata, complice l’accento spagnolo anche nell’eloquio inglese del cast, che si esprime in effetti in un miscuglio tra le due lingue, tradendo ulteriormente le finalità allegoriche di Far Cry 6: la dittatura yarana è in effetti ispirata a quella cubana, con tanto di embargo e di profughi diretti in Florida, e grazie alla parlata dei protagonisti abbiamo ulteriore conferma di ciò (Dani usa spesso le espressioni ‘Que bola?’ per dire ‘Come va?’ e ‘Dale!’ per dire ‘Forza!’, tipicamente cubane).
Anche in questo caso si tratta di un unicum nella storia della serie, da sempre doppiata in italiano tranne nel caso di Far Cry Primal, parlato interamente in una lingua preistorica fittizia modellata sul proto-indoeuropeo ricostruito.
Che dei cambiamenti ci siano stati è indubbio, ma per sapere se siano stati davvero efficaci e indispensabili per la riuscita di questo capitolo bisognerà ancora trascorrere tanto tempo nell’infuocata Yara.