C’è poco da dire, chi scrive ritiene la saga di Half-Life (a separarli sentirei di fare un torto ad uno o all’altro) tra i suoi giochi preferiti di sempre, e avendo quasi 35 anni di videogiochi sul groppone fidati se ti dico che parlo con cognizione di causa.
Ci fu molta curiosità quando anni addietro si seppe di un remake dell’originale iconico primo capitolo uscito nel 1998 su Pc da parte di uno sviluppatore indipendente, Crowbar Collective; l’idea di poter giocare a distanza di così tanti anni un titolo in una veste grafica più moderna era certamente allettante per tutti quelli che hanno adorato il capostipite ma anche per chi avesse voluto scoprirlo per la prima volta.
Black Mesa, questo il titolo del remake uscito nel marzo di quest’anno, ha ottenuto un ottimo riscontro da parte di pubblico e critica che gli hanno accordato recensioni molto positive e nel corso dei giorni scorsi è stata rilasciata una Definitive Edition del gioco che apporta diversi miglioramenti e features.
L’occasione ci è sembrata subito propizia per raccontare quella che è stata l’epopea di una saga dall’impatto travolgente nella cultura videoludica, rivoluzionando non solo un genere ma aprendo la strada ad una serie di nuovi approcci.
Half-Life e le sue innovazioni
Tutto comincia nel 1998 quando Gabe Newell e Mike Harrington, due ex dipendenti di Microsoft che pochi anni prima avevano fondato Valve, rilasciano quasi in sordina un videogioco che da lì a pochi anni avrebbe rivoluzionato l’intero settore: si trattava di uno sparatutto in prima persona, quei generi di giochi che in quel momento venivano identificati come “alla Doom”, per via dell’impatto che il titolo Id Software aveva avuto a sua volta.
Quello che da subito ha strabiliato del titolo era il fatto che per i primi 20 minuti abbondanti non si sparava nemmeno un colpo. Ma come? Uno sparatutto in cui non si…spara?? C’era davvero di che rimanere sopresi, dal momento che appunto da Doom in giù, 5 secondi dopo la schermata di avvio, in questo genere di giochi si sparava, sparava e sparava ancora.
Sparare, ma non solo
Come poteva dunque non solo funzionare ma addirittura avere un successo epocale un gioco di questo genere in cui per svuotare caricatori occorreva aspettare decine e decine di minuti? La risposta a questa semplice domanda è ancora più semplice: la narrativa. Si perché fino a quel momento (Doom compreso), gli sparatutto in prima persona erano chi più chi meno un tripudio di gameplay, ma al giocatore non veniva fornita nessuna motivazione per quello che stava facendo, se non il gusto di farlo che, per carità, non era assolutamente poco.
Valve ebbe la geniale idea di dare un “motivo” a tutto questo, creando attorno agli eventi e al personaggio, il leggendario dott. Gordon Freeman, un contesto credibile e assolutamente ben scritto, in grado di immergere il giocatore come mai prima d’ora era capitato in un titolo del genere.
In Half-Life venivi lentamente introdotto nel mondo di gioco, con una narrazione raccontata più da quello che avveniva attorno al giocatore che non da una vera e propria spiegazione; da questo punto di vista rimane indimenticabile l’introduzione in cui vediamo Freeman fare il suo ingresso proprio in Black Mesa, la struttura sede del suo nuovo lavoro e in cui vengono portati avanti tutta una serie di esperimenti non meglio noti.
Il dott. Freeman, un protagonista silenzioso
In tutto questo tripudio di narrativa risultava quantomeno curioso che il personaggio principale, il protagonista, non dicesse nemmeno una parola. Anche questa fu una piccola ma geniale trovata da parte degli sviluppatori in quello che rappresentava un totale cambio di paradigma rispetto a quel momento in cui i protagonisti di giochi che presentavano una qualche forma di narrazione parlavano o comunicavano in qualche modo.
Per tutta la durata dell’avventura il dott. Freeman non dice una parola, ma porta avanti la sua lotta per la sopravvivenza prima e per la verità poi in un modo incredibilmente efficace e, paradossalmente, comunicativo.
Half-Life 2: un nuovo cambio di paradigma
Se con il primo capitolo Valve raggiunse picchi di eccellenza dal punto di vista dell’innovazione e della giocabilità, con Half-Life 2 fu addirittura in grado di superarli. Uscito nel 2004 sempre su Pc rivelò al mondo videoludico un nuovo aspetto che da lì in poi sarebbe stato termine di paragone per molti prodotti a seguire: la fisica.
Si perché il secondo capitolo non brillava solo (e di nuovo) per giocabilità, narrativa e grafica, ma introduceva qualcosa che, in quel modo, non si era mai visto prima e lo faceva con una naturalezza quasi disarmante.
La Gravity Gun, un concentrato di innovazione
In Half-Life 2 la fisica trasformava il concetto di interazione all’interno del videogioco mettendola al servizio dello stesso: rompere casse, spostare oggetti non era mai stato così bello e soprattutto così credibile, tanto da essere una vera e propria feature di game design che gli sviluppatori hanno saputo sfruttare a dovere tramite un oggetto entrato nella memoria di tutti gli appassionati e dal nome di Gravity Gun.
Realizzata come una specie di grande fucile svolgeva contemporaneamente le funzioni di arma e di oggetto per risolvere piccoli puzzle ambientali. Puoi solo immaginare, se non lo hai giocato all’epoca dell’uscita, cosa voleva dire affettare i nemici in due attirando a se delle seghe circolari tramite la Gravity Gun e sparargliele addosso, ma la stessa cosa si poteva fare con praticamente qualunque oggetto presente sullo scenario: casse, barili, nemici morti, ecc.
Una vera e propria goduria per gli occhi che plasmava il gameplay a proprio piacimento, ed era qualcosa che fino ad allora non si era mai vista.
Le introduzioni tecniche fatte con Half-Life 2 ebbero un forte impatto sugli sviluppatori a tal punto che da quel momento la fisica venne pian piano messa al centro in un sempre crescente numero di giochi, e tutto questo grazie alla genialità di Valve.
La voglia di stupire ancora: Half-Life: Alyx
Per quanto tempo noi appassionati della saga abbiamo bramato l’uscita di un terzo capitolo? E quante volte abbiamo sperato in ogni occasione in cui trapelavano rumor in tal senso, sempre sistematicamente smentiti?
A distanza di 16 anni l’attesa continua, ma in questo 2020 Valve ha deciso di regalare ai pochi fortunati con un Pc performante e soprattutto in possesso di un visore per la realtà virtuale adeguato Half-Life: Alyx, uno spin off-prequel ambientato 5 anni prima di Half-Life 2 e con protagonista proprio Alyx Vance, figlia del noto dott. Vance e già co-protagonista del secondo capitolo.
Il titolo, appunto, non si può considerare come terzo capitolo della saga, quindi da questo punto di vista chi ci sperava è rimasto in qualche modo deluso, ma va detto che il fatto di aver sviluppato un nuovo Half-Life completamente per realtà virtuale rappresenta una volta di più la volontà da parte di Valve di stupire creando qualcosa di nuovo senza riposare sugli allori.
In attesa di Half-Life 3?
Noi appassionati, in ogni caso, non perdiamo le speranze e continuiamo a confidare che prima o poi un terzo capitolo vero e proprio della saga di Half-Life vedrà la luce; il mondo dei videogiochi ha troppo bisogno di rivedere il dott. Freeman in una versione più “canonica”. Soprattutto, ha ancora bisogno delle trovate geniali e delle incredibili innovazioni che solo uno sviluppatore come Valve sa regalarci.