Il 3 marzo 2017 faceva il suo debutto Nintendo Switch, l’ultima console Nintendo che ancora oggi continua ad avere un enorme successo, e insieme ad essa veniva pubblicato come gioco di lancio The Legend of Zelda: Breath of the Wild, il più recente capitolo della storica saga.
Ricordo ancora quando a gennaio 2017 venne mostrato il trailer ufficiale di Breath of the Wild: un’emozione indescrivibile per chi, come me, è cresciuto accompagnato dalla saga, giocando ogni singolo capitolo. Zelda è ancora ad oggi la mia saga videoludica preferita, e il trailer di Breath of the Wild rimane oggettivamente il miglior trailer della saga che sia mai stato mostrato.
Tuttavia, col senno di poi e soprattutto dopo cinque anni di riflessione, mi sono reso sempre più conto di quanti problemi abbia l’ultimo capitolo di Zelda. Mettiamola così: Breath of the Wild è un gran gioco, sviluppato per certi aspetti in maniera ottima, ma non restituisce la sensazione di stare provando un gioco della saga The Legend of Zelda.
Ho cercato di riassumere in quattro punti i motivi per cui credo che Breath of the Wild si allontani completamente (in maniera negativa) dagli altri capitoli della saga, dando l’impressione di stare sperimentando un gioco completamente diverso, che di Zelda sembra avere solo il nome.
1) L’open world è dispersivo
Breath of the Wild si è distinto per la grande rivoluzione apportata alla saga, ovvero quella di creare una mappa open world in cui il giocatore può muoversi liberamente, senza alcuna limitazione. L’ultimo titolo di Zelda è riuscito sicuramente a restituire un grande senso di libertà, ma questo immenso “mondo aperto” mi è sembrato a tratti assolutamente povero di elementi memorabili.
Breath of the Wild ha voluto seguire la formula di tutti gli open world dell’ultimo decennio videoludico: creare una mappa per forza grande, il più vasta possibile. Tuttavia, il rischio che si corre in questi casi è di lasciare ampi spazi completamente vuoti, assolutamente non memorabili. Il mondo di Breath of the Wild è pieno di nulla: piccoli avamposti o villaggi sparsi qua e là in una mappa enorme, inframezzati da praterie, montagne e macerie che non hanno un loro carattere preciso, una loro storia da raccontare.
La più grande delusione è stata l’esplorazione del Lon Lon Ranch, una delle storiche località che ritorna in vari titoli della saga. Dopo avere realizzato che mi trovavo in mezzo alle rovine del ranch sono stato colpito da quella classica sensazione di nostalgia, dalla volontà di analizzare ogni singolo dettaglio per trovare qualcosa di caratteristico tipico di un gioco di Zelda. Ma c’è stato un problema: le rovine del Lon Lon Ranch non sono altro che…rovine.
Non un elemento con cui interagire, non il minimo easter egg, nessun rimando ad altri giochi che invece Nintendo ha sempre amato fare. Il Lon Lon Ranch rispecchia in generale le località del mondo di Breath of the Wild, ovvero luoghi senza carattere, senza unicità. In questo senso, l’open world sembra a tratti molto ripetitivo: i pochi elementi collocati qua e là ripropongono spesso gli stessi pattern (come gli avamposti nemici, tutti molto simili) oppure non si distinguono tra di loro.
Questo mi porta a parlare dei 900 semi Korok, uno dei collezionabili più discussi della saga. Sembra che Nintendo abbia voluto creare una mappa enorme ma vuota per poi spargere qua e là 900 ricompense alla lunga inutili e ripetitive, che fra l’altro si ottengono spesso attraverso azioni molto simili tra loro (es: sollevare una pietra, sparare a dei bersagli in volo etc.).
In più, dopo avere speso quasi un quarto del gioco per trovare queste centinaia di semini, la ricompensa che ci viene restituita è una cacca, un pezzo di escremento dorato che non ha nessun effetto né sull’inventario né sui poteri di Link.
Breath of the Wild aveva insomma bisogno di concentrazione: avrebbe cioè dovuto concentrare meno elementi in uno spazio più ristretto, offrendo però un’esperienza più coinvolgente, più profonda, più memorabile. Tutta la cura degli sviluppatori è stata invece posta nella creazione dei biomi, della fisica di gioco, degli animali: da questo punto di vista l’ultimo Zelda è sicuramente ottimo, ma ne hanno risentito tutte le altre componenti che hanno sempre reso unici i titoli della saga.
Ecco allora il problema principale di questo titolo: Nintendo ha voluto rivoluzionare la vecchia formula della saga offrendo un’esperienza nuova, più vicina anche ai giocatori più giovani. Tuttavia, il confine tra innovazione e stravolgimento è veramente sottile, e Nintendo lo ha ampiamente superato: la formula open world non è adatta a un titolo come Zelda; o meglio, non è adatta per come è stata impostata.
2) La storia è breve e poco approfondita
Già il titolo della saga ci fa capire di che cosa ha sempre trattato Zelda: è una “leggenda”, ovvero una narrazione di avventure epiche del passato, di quelle che gli anziani raccontano ai giovani seduti intorno a un fuoco. Zelda ha sempre presupposto un racconto, qualcosa che fa riferimento alla tradizione orale, alle fiabe e ai miti antichi: ci sono centinaia di studi nel campo dei media contemporanei che mettono in relazione la saga Nintendo con le fiabe, i racconti fantastici e le modalità di storytelling.
In un mondo dispersivo come quello di Breath of the Wild la storia ha avuto ben poco spazio. Solo il 20% del tempo di gioco è dedicato alla trama principale, alle relazioni tra Link, Zelda e i campioni, alla storia di Ganon e ai colpi di scena tra personaggi. La scelta di narrare buona parte della storia in flashback attraverso i ricordi di Link è stata interessante, ma ciò non mi ha impedito comunque di sentire la mancanza di un coinvolgimento, la sensazione di non stare assistendo a una vera “leggenda” come quella che viene raccontata negli altri capitoli.
Ciò non significa che i personaggi o la storia di Breath of the Wild non siano piacevoli. Alcune cutscenes sono stupende, e la principessa Zelda è sicuramente uno dei personaggi più profondi di tutta la saga (complice anche il doppiaggio, che non era mai stato realizzato). Allo stesso modo, altri compagni di Link come Mipha e Urbosa rimangono impressi nella memoria del giocatore; tuttavia, la sensazione è che tutto sia stato approfondito troppo poco.
Breath of the Wild non ha insomma sfruttato l’enorme potenziale che poteva offrire: ci ha dato dei brevi accenni di storia in un mondo dominato dalla vastità, dalla volontà di perdersi in un ambiente (per me) troppo grande e dispersivo. La componente esplorativa ha dovuto necessariamente dominare su tutto il resto.
Certo, è vero che Zelda è sempre stata pensata come una saga esplorativa: nel produrre il primo capitolo, Shigeru Miyamoto (il “padre” di Zelda e Super Mario) si ispirava ai boschi dove andava a giocare da bambino dietro casa, e ha sempre voluto restituire quella sensazione di brivido nello scoprire nuovi luoghi inesplorati che ci circondano.
Zelda ha insomma sempre fatto del world building e dell’esplorazione alcuni dei suoi punti forti (come ogni storia fantastica che si rispetti), ma sempre andando di pari passo con una storia altrettanto importante. È insomma fondamentale l’equilibrio tra plot e play, un dibattito che negli ultimi anni ha preso sempre più piede, anche tra gli studiosi dei nuovi media: per alcuni è più importante la trama, per altri il gameplay (e con esso l’esplorazione).
Per esperienza, da giocatore incallito che ha sempre approfondito molto la saga, posso dire che Zelda non solo ha sempre mantenuto un solido equilibrio tra “gioco” e “trama”, ma anzi si è spesso sbilanciata verso la seconda. Breath of the Wild ha invece sbilanciato l’equilibrio verso l’elemento play in maniera eccessiva. Sarò un conservatore, ma preferisco vedere sacrificata la mia eccessiva libertà di esplorazione e avere un’esperienza più lineare se questo significa avere una storia più coinvolgente.
3) I dungeon sono praticamente assenti
Ogni titolo della saga di Zelda si è sempre distinto per i suoi dungeon, tanto che molti saprebbero riconoscere un gioco solamente in base a quello specifico “tempio”, unico nel suo genere e molto spesso memorabile. Gli unici dungeon presenti in Breath of the Wild sono le quattro Bestie Divine, che tuttavia non possono essere definite dei veri e propri dungeon alla maniera dei titoli classici.
Le Bestie Divine assomigliano più a dei mini-dungeon, ovvero a scenari brevi e risolvibili in poco tempo, molti simili tra di loro a livello di estetica e pattern di risoluzione. Ecco che ritorna, insomma, il problema della ripetitività: le Bestie non riescono a coinvolgere, mancano di un loro carattere e sono tutte risolvibili con poche, semplici mosse.
Ai dungeon di Breath of the Wild manca insomma quella profondità che ti faceva correre da una parte all’altra della struttura, consultando la mappa e tornando in stanze in cui si era già entrati utilizzando gli oggetti ottenuti per scoprire qualcosa di continuamente nuovo e unico. Il problema in questo caso non è la quantità, ma la qualità: anche Majora’s Mask ha solo quattro dungeon, ma ognuno di essi è completamente diverso nell’ambientazione, nelle musiche, nei pattern di risoluzione.
Majora’s Mask è un gioco che ha carattere (forse uno dei migliori della saga da questo punto di vista), e di conseguenza quei pochi dungeon che offre riescono a catturare completamente l’attenzione del giocatore e a sposarsi perfettamente con una storia profondissima e coinvolgente. Breath of the Wild non riesce a raggiungere questa profondità, e la piattezza dei suoi quattro dungeon è il riflesso della povertà più generale che ho percepito nel corso del gioco.
Stesso discorso vale per i boss dei dungeon, che non sono altro che quattro varianti estetiche dello stesso boss finale (Calamity Ganon). Cambiano i loro pattern di movimento, gli elementi utilizzati per attaccare, ma alla fine tutto si riduce ad essere un’unica, grande emanazione di Ganon. In linea con l’atmosfera di Breath of the Wild, neanche i boss rimangono impressi nella memoria del giocatore.
A differenza di nemici come Stallord di Twilight Princess, Molgera di Wind Waker o Bongo Bongo di Ocarina of Time, le quattro forme di Ganon mancano di un loro specifico carattere, e di conseguenza anche le battaglie contro di essi, per quanto a tratti molto divertenti, sembrano più quelle contro un mini-boss generico trovato in qualche caverna sperduta nella piana di Hyrule.
In più, sono rimasto abbastanza scioccato quando Nintendo ha riproposto nel DLC La Ballata dei Campioni le stesse forme di Ganon, con le stesse battaglie e dinamiche di combattimento. Non solo insomma Breath of the Wild aveva già una carenza (soprattutto a livello qualitativo) di nemici, ma persino nel contenuto aggiuntivo questi stessi nemici vengono ripresentati in maniera assolutamente identica. Un’infinita ripetizione, che ha impedito di presentare dungeon e boss originali e diversificati.
Ti starai chiedendo: “e i 120 Sacrari?”. Credo che i Sacrari non possano essere considerati dei dungeon, ma delle semplici mini-prove, per quanto alcune siano assolutamente divertenti e piacevoli. Ho apprezzato l’aggiunta dei Sacrari per dare sostanza al gioco, ma rimane comunque il fatto che a Breath of the Wild mancano dei dungeon degni di questo nome. Credo sia questa la mancanza più grave, che mi ha provocato l’impressione di non stare giocando a un titolo della saga di Zelda, bensì a un generico gioco open world.
4) La battaglia finale è anticlimatica
Che sia Ganondorf, Skull Kid, Vaati o qualcun altro, la battaglia finale dei giochi di Zelda è sempre stata leggendaria. Il boss finale rappresenta la conclusione di un viaggio epico, di quelli che vengono cantati nelle antiche leggende degli eroi; è insomma il momento in cui si concentrano tutti gli sforzi compiuti dal giocatore fino a quel punto.
In Breath of the Wild la battaglia finale contro Calamity Ganon è divisa in due fasi: la prima fase, all’interno del Castello di Hyrule, è realizzata molto bene, con una cutscene da brividi che vede i Quattro Campioni scagliare i loro raggi dalle Bestie Divine per indebolire il nemico. Nel passaggio dalla prima alla seconda fase, poi, Zelda consegna a Link l’Arco della Luce, la storica arma utilizzata per indebolire l’essenza malvagia di Ganon. La principessa pronuncia infine una frase assolutamente memorabile:
Courage needs not to be remembered, for it is never forgotten (“Il coraggio non ha bisogno di essere ricordato, perché non viene mai dimenticato”)
Mi sono quindi avvicinato all’ultima forma di Ganon pieno di hype, con i brividi dalla testa ai piedi. Tuttavia, la mia emozione ha cominciato progressivamente a crollare quando mi sono reso conto che la battaglia era letteralmente un tiro al bersaglio. Ganon rimane praticamente fermo al centro della pianura, attaccando solo di fronte a sé, mentre Link non deve fare altro che girare in tondo attorno al mostro e scagliare frecce contro dei bersagli luminosi.
Credo di avere raramente sperimentato qualcosa di così anticlimatico; paradossalmente, è stato più coinvolgente il tiro al bersaglio nella Gerudo Valley di Ocarina of Time per ottenere il potenziamento della faretra. Speravo che almeno la battaglia finale potesse essere assolutamente memorabile, specialmente contro un essere che ha devastato il mondo intero con la potenza della sua Calamità, che ha sconfitto Link e gli invincibili Quattro Campioni in un batter d’occhio.
Penso sia abbastanza grave che le battaglie contro i Lynel, forse i nemici più tosti di tutto Breath of the Wild, siano più impegnative e soddisfacenti della battaglia finale contro Ganon. Specialmente per chi ha giocato Twilight Princess e ha visto quanto possa essere epico uno scontro finale contro l’Imperatore del Male, il final boss di Breath of the Wild risulta eccessivamente semplice, privo di carattere e noioso da combattere.
Breath of the Wild è perfetto per chi non conosce Zelda
Nonostante le molte critiche che ho mosso a Breath of the Wild, devo riconoscere una cosa: l’ultimo titolo di Zelda è stato perfettamente pensato per chi non si è mai avvicinato alla saga. La strategia di Nintendo è chiarissima: hanno voluto implementare la formula open world (il genere di maggiore successo nell’ultimo decennio videoludico) anche nella loro saga più famosa (insieme a Super Mario), in modo da attirare più giocatori possibili, anche i giovanissimi o chi non aveva mai provato un titolo di Zelda.
Il risultato è stato estremamente positivo: il gioco ha avuto un enorme successo, vendendo più di 25 milioni di copie e ottenendo voti altissimi dalla critica di tutto il mondo. Come ho già detto, Breath of the Wild non è un brutto titolo, e il team di Eiji Aonuma ha posto un’incredibile cura in alcune dinamiche di gameplay e nella costruzione delle ambientazioni.
Tuttavia, è altrettanto vero che moltissimi fan (come dimostrato dalle discussioni ancora attive nelle community) non hanno avuto la sensazione di stare giocando a un capitolo di Zelda. Per chi non ha nessun metro di paragone, il risultato è sicuramente piacevole; per chi ha giocato all’intera saga e ha vissuto l’evoluzione del franchise, invece, è evidente che sono stati sacrificati molti elementi che hanno sempre reso unica la saga Nintendo.
Questo potrebbe portare a un problema: moltissimi giocatori hanno provato come primo e unico Zelda proprio Breath of the Wild, e di conseguenza pensano che sia questa la formula con cui la saga è nata, cresciuta e si è affermata. Niente di più sbagliato: non è stato l’open world dispersivo a rendere così fantastiche le avventure di Link.
È giusto che un franchise si rinnovi e non mantenga la stessa formula riciclata, ma chi conosce bene la saga sa che in un modo o nell’altro, nel bene o nel male, ogni gioco di Zelda ha saputo reinventarsi, creando non solo un nuovo plot, con nuovi personaggi e nuove avventure (questo lo fa anche Breath of the Wild, per quanto in maniera ridotta e spesso affrettata), ma soprattutto un nuovo gameplay che recupera i vecchi titoli ma allo stesso tempo mantiene ben saldi gli elementi più caratteristici della serie (dungeon, oggetti fissi nell’inventario, fate e pozioni curative, boss variegati e originali).
La mia idea è che Breath of the Wild abbia voluto osare troppo: ha superato il confine tra innovazione e stravolgimento, rompendo la linearità dei giochi precedenti e finendo però per sacrificare tutto il resto dell’esperienza di gioco.
L’open world sarà il futuro della saga Nintendo? Forse (anche se spero che il sequel di Breath of the Wild metta a posto alcune cose), ma bisogna avere la consapevolezza che nel dizionario di Zelda “grande” non significa automaticamente bello e “poco” non significa automaticamente brutto.