Quella che vi sto proponendo è un’analisi critica di Black Mirror: Bandersnatch. Saranno perciò inevitabili spoiler e confronti con altre opere cinematografiche e videoludiche, perciò se non avete avuto modo di fruire del film astenetevi dalla lettura dell’articolo. Questo approfondimento ha lo scopo di vagliare, in maniera critica, gli aspetti riusciti e quelli non riusciti dell’opera ragionando sul significato stesso di film e videogioco.
Black Mirror: Bandersnatch è un film “interattivo” rilasciato da Netflix sulla propria piattaforma di streaming e che segna un punto di svolta per la narrazione cinematografica, com’era stata pensata finora. Perfettamente a fuoco in Black Mirror, serie distopica che mostra gli eccessi dell’utilizzo di tecnologie innovative nel rapporto con gli esseri umani, la pellicola, ambientata nel 1984, ci vede assistere alle vicende di Stefan il creatore del videogioco Bandersnatch che prende spunto dal libro-gioco omonimo. Stefan mostra la sua demo alla Tuckersoft, azienda che sviluppa videogiochi fra cui quelli di Colin Ritman, autore famosissimo e di successo. L’azienda appare entusiasta e accetta di aiutarlo nello sviluppo. In questo particolare episodio di Black Mirror, però, non siamo semplici spettatori ma possiamo intervenire sull’andamento del racconto tramite scelte binarie.
Questa è la premessa dell’opera, ma cos’è esattamente Bandersnatch? Un film? Un videogioco? Un film cosiddetto “interattivo”? E soprattutto, è un’opera corretta? Per rispondere a questa domanda analizziamo l’episodio da diversi punti di vista.
Prospettiva 1: Il videogioco
Partiamo dalla prospettiva che ci sta più a cuore. Da videogiocatori abbiamo visto crescere l’intrattenimento videoludico svilupparsi in forme che prediligono maggiormente la narrazione e altre che invece favoriscono il gameplay a discapito della trama. Sappiamo bene, però, che la storia è importantissima per garantire un’adeguata fruizione, per invogliare il giocatore a proseguire dandogli motivazioni forti e necessarie e per aprire possibilità artistiche di storytelling altrimenti chiuse in una narrazione cinematografica canonica. In questo senso abbiamo degli esempi molto importanti: dalle avventure grafiche della LucasArts alle recenti accezioni di film interattivo secondo Quantic Dream e David Cage.
È necessario, a mio modo di vedere, fare un’ulteriore distinzione nel mondo dei videogiochi:
- quelli che permettono una scelta e delle conseguenze in base alle scelte operate dal giocatore sul personaggio;
- quelli che invece sono “story driven”, cioè non lasciano possibilità decisionali al giocatore.
In entrambi i casi il concetto di immedesimazione svolge un ruolo fondamentale. Se non ho la possibilità di scegliere, tutte le scelte effettuate dal personaggio sono sue scelte che si sviluppano secondo sceneggiatura e che portano a conseguenze previste in fase di scrittura (questo a prescindere dalla qualità dell’opera). In questo caso il grado di immedesimazione richiesto è una forma di empatia che mi porta ad esperire e provare affettivamente ciò che prova il personaggio, ma ho una visione della trama molto più distaccata e, è il caso di dirlo, da spettatore.
Se invece si possono operare delle scelte, le decisioni del personaggio diventano mie scelte e per le quali mi aspetto conseguenze diverse e responsabilità che devo assumermi (in termini di racconto). Questa seconda via è difficile da sviluppare perché si può incappare in errori in modo piuttosto semplice. Provo ad elencarne alcuni:
- Errore del bypass della scelta: Il peggiore. Compio una scelta che non si materializza perché il personaggio decide comunque la cosa opposta (ad esempio: devo scegliere se buttarmi di sotto da un cavalcavia, scelgo Sì e il personaggio non si butta comunque) Beyond: Two Souls
- Errore dell’impossibilità della scelta: La situazione richiede una scelta quasi scontata ed evidente ma il gioco non ti fa scegliere (Ad esempio: i personaggi si accorgono di un pericolo, hanno paura, lo dicono, con essi ha paura il giocatore, ma la scelta di andarsene non può essere presa anche quando non ci sono motivi terzi a impedirla) Detroit: Become Human
- Errore della preferenza: Compio una scelta o seguo un percorso che si rivela scritto in maniera peggiore di un altro (più corto, meno profondo ecc.)
- Errore della moralità imposta: Simile al precedente. In questo caso è il gioco stesso o un giudice interno (non giustificato dalla trama e dal suo carattere) a imporre il giudizio sulla scelta effettuata e non la sua reale conseguenza.
- Errore della parzialità ideologica: Il gioco ti mette di fronte a concetti ideologici dalla portata ampia e generale, ma tutte le scelte che puoi fare contemplano una direzione e una visione che in questo modo diviene imposta. Detroit: Become Human
Questi cinque errori distruggono il senso di immedesimazione intervenendo sopra le scelte del giocatore, frustrandolo e rendendo inutile il fatto stesso che possa scegliere. Come dicevo sopra, è difficile sviluppare un gioco a scelte ma evitare questi errori è la cosa più importante ed è preferibile uno “story driven” semplice e corretto ad un gioco a scelte che vuole essere aulico e alto con questi errori.
In Bandersnatch assistiamo ai primi tre errori della lista: quando decidiamo di rifiutare la droga essa viene comunque inserita nel tè da Colin; quando ci chiedono se vogliamo più azione possiamo rispondere solo “Sì” o “Sì,cazzo!”; quando decidiamo di versare del tè sul pc e Stefan decide di non farlo; quando alcuni percorsi si rivelano vicoli ciechi, strade chiuse.
Posta da questa prospettiva il film interattivo di Netflix sembrerebbe essere totalmente sbagliato, incappando negli errori sopra menzionati praticamente ad ogni minuto di visione. Eppure Bandersnatch ha qualche asso nella manica che vedremo nelle prossime prospettive.
Prospettiva 2: Netflix
Prima di procedere all’analisi dal punto di vista cinematografico, è doveroso porci dalla prospettiva di ciò che interessa maggiormente a chi il film lo ha prodotto e commercializzato. Bandersnatch ha un girato complessivo di 5 ore 30 minuti, tuttavia la durata media di una “partita completa” è di un’ora e mezza precludendo così la visione della maggior parte del girato. Certo, questo è insito nella possibilità di compiere scelte, ma la struttura narrativa dell’opera prevede tantissimi “vicoli ciechi” che ti obbligano a tornare indietro, ad allargare il quadro di comprensione nell’ottica di prendere la decisione “corretta”, o quella che il film reputa tale come percorso privilegiato. Tutto ciò si spiega facilmente con la volontà di Netflix di farti assistere alla totalità dell’opera, sia tornando indietro sui tuoi passi sia ricominciando il gioco da capo. In questo modo il film dura quanto una stagione intera e più di qualsiasi altro film presente sullo store digitale. La struttura narrativa che forza a tornare indietro e obbliga a comprendere il più possibile è, dunque, spiegata anche in questo modo.
Prospettiva 3: Il film
Rapportando la Poetica di Aristotele al cinema, un film racconta una storia che ha un inizio, uno sviluppo e una conclusione secondo verosimiglianza e necessità. È preclusa, all’opera cinematografica, la possibilità per lo spettatore di compiere scelte. Sia che la trama venga rappresentata in teatro, sia che venga proiettata al cinema o nella propria abitazione, lo spettatore non può intervenire. Inserire decisioni in un film significa scardinarne l’andamento canonico rendendolo molto più simile ad un videogioco e costringendo la troupe a raggiungere ore di girato immensamente più numerose di quelle di un film normale. Questo perché, se si vogliono evitare gli errori sopra menzionati, c’è bisogno che tutte le linee e tutti i percorsi godano dello stesso valore e della stessa cura; c’è bisogno che qualsiasi scelta il giocatore compia porti a dei significati concreti e sia soddisfacente tanto quanto ogni altra; c’è bisogno che il film funzioni in ogni sua parte, in ogni suo snodo. Un lavoro di costruzione da pazzi, che puoi permetterti forse se ciò che muove il tutto è un motore di gioco che calcola eventi e “produce” piuttosto che “riprodurre” e anche così c’è sempre il rischio di incappare in uno o più di quegli errori sopra menzionati. Inoltre, va considerato anche il rapporto fra investimento e costo dell’opera: produrre un videogioco costa mediamente di più ma viene venduto anche ad un prezzo notevolmente superiore rispetto ad un film, questo anche perché assicura ore di fruizione nettamente più alte che con l’opera cinematografica.
Seguendo la prospettiva cinematografica, dunque, comprendiamo che Bandersnatch non si può nemmeno considerare un vero film e non può essere di certo un pioniere per questo tipo di opera dal costo troppo alto e dalla realizzazione quasi insostenibile. Ci troviamo, quindi, nuovamente nelle condizioni di bocciarlo? Vediamo prima l’ultima prospettiva.
Prospettiva 4: Bandersnatch
Arrivati a questo punto, non vi sembra che Bandersnatch rifletta proprio su questi temi e da queste prospettive?
Il film, abbiamo detto, è certamente un’opera interattiva a scelte il cui protagonista, Stefan, ha il compito di sviluppare un’opera simile, un videogioco degli anni ’80, affrontando la difficoltà di implementare percorsi e diramazioni che funzionino e non portino al crash del computer. Proprio come uno sviluppatore moderno e proprio come il creatore del libro-gioco prima di lui, finisce per impazzire nel caos delle scelte e perdere il controllo. Le sua difficoltà sono le difficoltà insite nell’affrontare la questione, le stesse che abbiamo evidenziato prima. Questo è evidente anche grazie a quello che viene considerato vero finale, quello nel quale scopriamo la sviluppatrice di Bandersnatch di Netflix nel 2018, impazzire a sua volta per non riuscire a completarlo come vorrebbe.
Posto ciò che abbiamo detto sul videogioco a scelte, appare evidente che l’unico modo di creare un film che non durasse 30 ore, che fosse coerente e che rappresentasse la filosofia di Black Mirror era proprio quello di sviluppare una storia che ragionasse su stessa. Un racconto nel quale il protagonista sa di essere controllato e il giocatore sa cosa sta facendo. Si gioca a carte scoperte insomma. Le scelte del giocatore in questo modo non portano a sviluppi della trama, non servono a questo. Non c’è immedesimazione: il personaggio rimane personaggio e il giocatore, giocatore. La genialità del film sta proprio nel pensare le strutture del videogioco e del film e decidere di narrare la storia a piani sfalsati. Nel momento in cui Stefan capisce di trovarsi in un gioco, anche il giocatore smette di essere giocatore e diventa spettatore. L’epifania di Stefan è l’epifania dello spettatore. Le scelte del giocatore servono a metterlo a conoscenza della storia, a fargli avere il quadro completo. Il fatto che alcuni percorsi siano chiusi, “sbagliati” e ti costringano a tornare indietro non è un errore di programmazione e non dipende dall’esistenza di percorsi privilegiati, ma solo dalla riflessione su una tecnologia che di fatto fa esistere una persona/personaggio su più livelli. È emblematico per comprendere questo, il discorso che Colin Ritman fa a Stefan sotto l’effetto della droga. Colin si butta dal terrazzo e ti invita a farlo perché, conscio di essere in un videogioco, di fatto lui “esiste” su più piani di realtà. La matrioska virtuale che si genera è eccezionale: noi stessi potremmo essere all’interno di un videogioco, fruendo di un film interattivo nel quale si sviluppa un videogioco per Netflix, nel quale si sviluppa un videogioco negli anni ’80 e così via.
Nel film sono presenti 5 finali, dei quali uno viene considerato quello privilegiato. Le cose non stanno proprio così. I finali non sono veri finali perché lo scopo dell’opera è di essere fruita tutta, lo spettatore deve “vedere” tutto e per questo motivo non c’è in realtà una via privilegiata. Sebbene le possibilità di incastro sono tantissime, gli snodi principali della trama non arrivano alla decina e ogni strada riporta ad uno di questi, segno che la volontà era quella di creare un’opera finita, chiusa che non desse adito a vie peregrine.
Come possiamo osservare, quindi, la particolare struttura narrativa di Bandersnatch assolve a tantissimi problemi dei film interattivi in maniera sapiente e fruttuosa.
Conclusione: Il bivio
È giunto il momento di tirare le somme sul valore di Black Mirror: Bandersnatch. Abbiamo analizzato in dettaglio cosa significa parlare di videogioco a scelte e cosa è un film. Ci troviamo di fronte ad un bivio del quale scorgo solo due possibilità per proseguire con questo nuovo genere che possiamo chiamare “esperienza interattiva”.
- Da un lato si potrebbe effettivamente creare un videogioco nel quale ogni scelta del giocatore manda avanti la trama senza possibilità di tornare indietro, fino al raggiungimento di finali alternativi ed equivalenti dal punto di vista dell’importanza e del valore. Garantendo così l’immedesimazione e le conseguenze delle proprie scelte. (come avviene in teoria con la maggior parte dei giochi di questo tipo, le esperienze di Quantic Dream, ad esempio, non permettono di tornare indietro).
- Creare un sistema di loop nel quale il tornare indietro rappresenta in realtà un avanzamento della trama del singolo giocatore/personaggio. Questo sistema dà adito ad una miriade di altri problemi che tratterò in un altro articolo in seguito.
Esiste poi una terza via, rappresentata proprio da Bandersnatch, un film che riflette su se stesso, nel quale il personaggio è consapevole del controllo e la cui trama verte sulla creazione di storie a bivi. Questa terza via appare però caratterizzata da un difetto: è possibile seguirla una sola volta, rendendo Bandersnatch un unicum apprezzabile che, a mio parere, spegne sul nascere qualsiasi futuro tentativo di seguire questo percorso.