“Il giorno in cui mi capitò di morire” è il primo testo teatrale a firma di Chiara Tangredi. In due atti, l’opera si apre con la morte di Ennio, un bimbo di nove anni, a causa di una grave malattia.
Tutto ciò che ruota attorno a questo tragico evento permette al lettore di incontrare un’umanità varia, talvolta smarrita e rassegnata. I becchini scavano fosse per anonimi defunti, i quotidiani riportano brutte notizie, la politica si presenta con slogan sempre identici mentre la corruzione dilaga.
La perdita dei fattori di coesione sociale -ad esempio, la religione- determina un sentimento diffuso di isolamento. La vita appare, a tratti, assurda e crudele mentre tutti i protagonisti sono in cammino verso l’inevitabile epilogo: la morte.
Tutto ciò che caratterizza l’arco della vita si rivela per il suo valore effimero e la sua intrinseca contraddittorietà. La ricerca del lavoro smette di riguardare la realizzazione dell’inidividuo divenendo un gioco ad incastro a favore del “mercato” dove la corruzione e la condotta criminale sono presenti.
Nel mentre, il tempo scorre e le campane suonano “a morto”, consegnando ogni individuo al freddo anonimato della tomba.
La morte sembra avere la meglio anche sul personaggio che raffigura Dio -lo Sconosciuto-: malinconico a causa della perdita dei suoi figli, abita il palco giusto il tempo di scambiare qualche battuta prima di sparire. In quel suo incedere stanco, è difficile trovar traccia delle promesse di vita oltre la morte che caratterizzano la fede.
Il testo è ricco di spunti quali la riflessione sulla politica, il ruolo della criminalità ed il valore della religione, nelle sue espressioni collettive ed individuali. Tuttavia, le scene ad essi dedicati sembrano lasciare il discorso in sospeso, fornendo pochi elementi al lettore-spettatore. Ciò può limitare l’incisività ed il realismo di un testo che rimane, nel complesso, una lettura mai banale e dai tratti leopardiani.