All’inizio di questo mese il governo cinese ha generato molto scalpore nella comunità videoludica, a causa delle restrizioni imposte sul tempo di gioco consentito ai minorenni: dal 1 settembre 2021 i minori di 18 anni possono infatti giocare online solo per 1 ora al giorno, dalle 20 alle 21, esclusivamente il venerdì e nei giorni festivi. Una presa di posizione che in molti non hanno esitato a definire come una stretta autoritaria, in un paese che già non possiede la fama di essere un paradiso dei diritti civili.
Il Partito Comunista Cinese ha motivato tale scelta accusando i videogiochi di costituire un “oppio per la mente” dei suoi cittadini, in particolar modo per i più piccoli, e specificando come l’intero settore videoludico non sia altro che un’industria che punta solamente al profitto, a discapito della morale pubblica e del benessere sociale: dietro l’inasprimento delle regole ci sarebbe quindi un intento positivo, volto a tutelare le fasce più giovani della popolazione e a salvaguardare l’ordine della società da tendenze malsane e scorrette.
Dall’altro lato del coro, la Cina è invece stata spesso accusata di violare le libertà individuali dei suoi abitanti, forzando una vigilanza capillare che si sta estendendo a macchia d’olio sui vari ambiti della vita quotidiana e sui settori economici dello Stato. Al di là delle diverse prese di posizione, e del giudizio sulla correttezza di queste manovre politiche, è importante capire che questo è solo l’ultimo passo di un processo molto lungo e complesso, da analizzare con attenzione per poter comprendere la situazione e le sue eventuali implicazioni.
Naturalmente, un tema tanto ampio e difficile potrebbe essere benissimo un argomento da tesi universitaria, ma cercheremo comunque di studiarlo insieme in maniera estremamente sintetica e semplice quanto possibile: andiamo quindi ad esplorare l’ambiguo rapporto tra la Cina ed il videogioco.
La storia delle restrizioni del governo cinese sul settore videoludico
Come scritto poco sopra, il Partito Comunista Cinese ha giustificato le misure recentemente intraprese sostenendo che fossero atte a salvaguardare la popolazione da problemi di ordine morale e sociale: in particolare, la questione principale che il governo di Pechino ha voluto affrontare riguarda la dipendenza dal gaming, specificatamente quello online.
Il tema della dipendenza dal gioco è un argomento delicato ed importante, reso negli scorsi anni ancora più incalzante a causa della diffusione di modelli free-to-play e della pratica delle micro transazioni, di cui fa parte il famigerato sistema delle loot box: la questione diventa ancora più sensibile se si prende in considerazione la fascia d’età più giovane, spesso maggiormente vulnerabile a queste forme di monetizzazione e più incline ad assuefarsi al gioco.
In Cina in particolare il problema è molto sentito, anche a causa dell’elevata enfasi dei media cinesi sugli effetti di questo fenomeno. Nel momento in cui si passa ai dati statistici, comunque, il trend si rivela evidente: secondo uno studio condotto da Limelight Networks, compagnia che si occupa di servizi cloud, su un campione di 4000 giocatori maggiorenni provenienti da 8 paesi diversi, i gamer cinesi stracciano ogni record di numero di ore giocate a settimana, attestandosi su una media di 12.4 ore settimanali contro la media globale di 8.5.
Se questo rivela una tendenza già così forte in fasce d’età meno a rischio, si può ben intuire quanto questi numeri possano essere potenzialmente maggiori tra i più giovani, con annessi ed eventuali problemi di dipendenza se si mettono in conto particolari pratiche per creare assuefazione. E proprio queste pratiche e i modelli di gioco che comportano, possono essere considerate una delle basi del problema che la Cina ha tentato in questi anni di affrontare, ma che allo stesso tempo ha in parte contribuito a creare.
Per argomentare questa affermazione, torniamo indietro di 21 anni, all’ormai lontano 2000. Dopo una generale apertura nei confronti del mercato videoludico, un allarme diffuso da parte dei genitori per il numero di ore passate dai bambini a giocare davanti allo schermo ha portato il governo di Pechino a varare un blocco totale delle console straniere, vietandone la produzione e distribuzione sul suolo cinese.
Il ban è stato incredibilmente longevo, restando attivo per ben 15 anni e venendo quindi revocato solo nel 2015. Questo lungo periodo di tempo è coinciso con una esplosione del mercato degli smartphone in Cina, che risultarono quindi essere una delle poche piattaforme su cui giocare, oltre al PC ed alle console contraffatte. Rispetto ad entrambe le altre opzioni, però, lo smartphone si contraddistinse per una notevole facilità di utilizzo e soprattutto per una diffusione molto più capillare ed economica.
Per poter sfruttare al meglio le caratteristiche proprie del gioco da mobile, caratterizzato da un utilizzo più distratto, frammentato nel tempo e percepito come alternativa a basso prezzo rispetto al gaming tradizionale, l’industria videoludica cinese è stata tra le prime a sviluppare e portare avanti modelli free-to-play, utilizzando pratiche di micro transazione per creare assuefazione e coinvolgimento in un pubblico dall’attenzione sempre più limitata.
Esse si basano infatti sulla vendita in giochi gratuiti di oggetti puramente estetici oppure funzionali al gameplay per potenziare le performance di gioco degli utenti, che sono così invogliati a spendere sempre di più e si trovano scoraggiati ad abbandonare un gioco in cui si è investito denaro: una dinamica a più riprese accostata ai meccanismi psicologici del gioco d’azzardo, in particolare in riferimento alle già citate loot box, pacchetti a pagamento con contenuti potenzialmente utili al gameplay, ma determinati casualmente.
In parallelo a queste tendenze, il gaming online in generale ha conosciuto una enorme esplosione in popolarità tra le fasce giovani della popolazione cinese: Trent Bax, professore di sociologia alla Ehwa Women’s University, racconta di come il giocare online sia diventato una “pratica socioculturale centralmente importante” per gli adolescenti cinesi, attraverso la quale sviluppano e mantengono molte delle loro relazioni. A questo concetto si può facilmente accostare anche la pratica delle compagnie videoludiche di integrare i loro giochi con i servizi offerti dai social network, come fatto dal colosso Tencent con il suo WeChat, agevolando ancora di più l’uso sociale degli adolescenti del gioco online.
La situazione che si delinea a metà degli anni ’10 è quindi quella di una crescita torrenziale del mercato videoludico in Cina, complice anche la fine del ban sulle console estere e gli stessi aiuti statali alle compagnie del settore da parte del governo. Eppure, proprio in questo momento emergono le prime contraddizioni: mentre nel 2019 la Cina ha ufficialmente categorizzato gli e-sport come sport professionali e disparate iniziative anche a livello universitario sono nate per valorizzare il gaming online, nel 2017 la più grande testata giornalistica controllata dallo Stato si è scatenata contro le compagnie videoludiche, accusandole di offrire “veleno” alla società cinese e di produrre giochi troppo assuefacenti e che distorcono i valori morali del paese.
Da questa dichiarazione in poi, la macchina delle restrizioni ha preso il via: sempre nel 2017 il governo ha introdotto limitazioni al sistema delle loot box, mentre nel 2018 ha sospeso per 9 mesi il rilascio di licenze per nuovi videogiochi, creando un buco nel bilancio di Tencent, la più grande azienda di videogiochi al mondo per fatturato, di 1 miliardo di dollari in vendite perse.
Nel 2019 sono state attivate le prime restrizioni di orario per i minori, a cui è stato consentito giocare solo per 1.5 ore durante la settimana e per 3 ore durante weekend e festività, con divieto di collegarsi tra le 22 e le 8 del mattino; ai ragazzi tra i 16 ed i 18 anni è stato inoltre proibito spendere più di 400 yuan, l’equivalente di circa 60 dollari al mese, in videogiochi.
E si arriva quindi alle limitazioni dello scorso mese, che abbiamo già descritto all’inizio dell’articolo. Tuttavia, non sono state queste le ultime disposizioni del governo cinese: proprio durante la scorsa settimana si è tenuto un meeting in cui il governo ha istruito le diverse compagnie videoludiche del paese sulle nuove linee guida da rispettare per l’approvazione dei videogiochi. La dichiarazione del Partito Comunista Cinese stabilisce che i giochi non possono essere più considerati come “puro intrattenimento apolitico”, quanto piuttosto una nuova forma d’arte che deve essere portatrice di un “corretto set di valori” e di una corretta comprensione della storia e della cultura della Cina.
In particolare, il governo cinese valuterà se il gioco viola le leggi cinesi, diffonde segreti di stato, incoraggia il gioco d’azzardo e la violenza, o istiga i minori all’autolesionismo. Tutti parametri comprensibili, almeno finché poi non si arriva a controlli più controversi: ad esempio, la dichiarazione del governo recita che “alcuni giochi hanno confini morali sfumati. I giocatori possono scegliere se essere buoni o cattivi“, ma “non pensiamo che questa scelta dovrebbe essere consentita” e quindi “questa caratteristica deve essere alterata”.
Altro punto caldo riguarda la rappresentazione di relazioni romantiche omosessuali, di fatto proibite, e di uomini effeminati: se il regolatore non riesce a capire subito il genere del personaggio, esso viene considerato come problematico. Ulteriori attenzioni saranno dedicate alla rappresentazione delle vicende storiche, con tolleranza zero verso presentazioni alterate rispetto alla verosimiglianza storica di fatti e personaggi appartenenti alla storia cinese, ed a questioni religiose.
Abbiamo potuto vedere quindi come i problemi di dipendenza videoludica vissuti dalla Cina, e le sue conseguenti iniziative per combattere tale patologia, abbiano una radice profonda nei modi in cui il paese e le sue aziende hanno approcciato il mercato videoludico, fino a rivelare una nuova deriva di stampo culturale, i cui effetti potranno essere valutati nei prossimi mesi, se non anni. Sarà perciò sicuramente interessante seguire la prossima evoluzione del settore del videogioco in Cina, ora che si trova ad affrontare una impostazione così radicalmente differente: nulla ci vieta, nel mentre, di ragionare sui possibili risvolti di questi cambiamenti.
Quali potranno essere le possibili implicazioni?
La questione delle limitazioni si presenta quindi come un argomento complesso e sfaccettato, del quale è stato possibile analizzare per forza di cose solo alcuni aspetti vista la sede dell’articolo. Altrettanto variegate saranno pertanto le ripercussioni che queste restrizioni avranno sulla società e sull’economia cinese.
In primo luogo, impostare delle regole così strette implica giocoforza una vigilanza puntuale ed efficace, per la quale si rende necessario lo sviluppo di sistemi di controllo specifici per il settore. Tencent ha speso gli ultimi anni per creare una tecnologia per il riconoscimento facciale da applicare ai suoi giochi, utilizzandola inizialmente per il suo Honor of Kings, gioco mobile estremamente popolare in Cina, e successivamente ampliandola ad altri 60 prodotti lo scorso luglio. La compagnia ha anche dichiarato che questa tecnologia fa parte di un sistema più esteso di strumenti che permettono a Tencent e ai genitori di monitorare e limitare il tempo di gioco e le abitudini di spesa degli utenti.
Naturalmente, sistemi di questo tipo esistono e vengono regolarmente utilizzati in tutto il mondo dalle grandi aziende tecnologiche, che raccolgono e processano quantità enormi di dati ogni secondo per profilare gli utenti delle loro piattaforme a scopi commerciali. Anche la Cina dispone di strumenti simili, ma il problema si presenta nel momento in cui le informazioni raccolte vengono utilizzate non solo per monitorare i cittadini, ma anche per limitarli nelle loro scelte. Chundi Zhang, analista di ricerche sui videogiochi presso Ampere Analysis, dichiara che il riconoscimento facciale di Tencent potrebbe fornire un template per l’intera industria da applicare per far rispettare le limitazioni imposte dal governo.
Le aziende in Cina devono per forza ubbidire alle regolamentazioni, dato che lo Stato controlla e possiede una parte di ciascuna di esse, per cui pian piano l’intero settore utilizzerà un mezzo simile per controllare gli utenti. Se il sistema sviluppato da Tencent è effettivamente talmente versatile da essere applicato in maniera tanto vasta, non si può fare a meno di rabbrividire al pensiero che esso possa essere ampliato per usi che vanno oltre il solo ambito videoludico.
Non scordiamoci infatti che Tencent gestisce anche WeChat, uno dei social network più usati nel paese. L’utilizzo capillare di una tecnologia di controllo simile può permettere al Partito Comunista Cinese di monitorare con precisione i social e potenzialmente qualsiasi piattaforma digitale, e di conseguenza anche di limitarne l’uso in modo strumentale: volendo essere pessimisti, hanno in mano un’arma che potrebbe permettere loro di controllare accessi, spese e tempi di permanenza dei cittadini secondo le loro disposizioni, e di individuare con accuratezza chi si discosta dalle indicazioni. Una visione naturalmente fin troppo distopica, eppure è inevitabile che certe preoccupazioni sorgano se si considera uno Stato che mette al primo posto l’ordine sociale e la conformità ai dettami del Partito.
In secondo luogo, l’effetto sicuramente più evidente ed immediato sarà quello sull’andamento del mercato videoludico in Cina. Abbiamo già visto come la sospensione della concessione delle licenze ha danneggiato in modo consistente un colosso come Tencent. E’ anche vero, però, che il 2020, nonostante le restrizioni imposte ai minorenni, è stato per l’industria del videogioco cinese l’anno più di successo mai registrato, registrando una crescita del 30.9% rispetto al 2019. Inoltre, riguardando solo i minori di 18 anni, l’effetto sulle entrate delle aziende sarà sicuramente limitato: prendendo sempre come esempio Tencent, solo il 2.6% dei suoi giocatori risulta essere di età minore ai 16 anni, rappresentando quindi un guadagno lordo contenuto rispetto al totale.
L’impatto dovrebbe però essere letto in un’ottica più ampia: le restrizioni in campo videoludico fanno parte di una più ampia tendenza ad inasprire il controllo sulle aziende tecnologiche del paese in atto in questo periodo, a causa della convinzione apparente del governo cinese che il settore si sia sviluppato troppo liberamente e che sia quindi necessaria una regolamentazione più ferrea. I restringimenti normativi si sono quindi verificati in diversi ambiti digitali e tecnologici in nome dell’anti-trust, spaventando così però un gran numero di investitori esteri che hanno ripensato i propri portafogli e hanno rivolto le loro attenzioni altrove.
La ripercussione economica sarà sicuramente quindi da quantificare nel corso dei prossimi mesi, anche in luce delle restrizioni sul campo dei contenuti, che invoglieranno i distributori esteri a considerare sempre meno il mercato cinese a causa della sua intolleranza verso temi che a tutti gli effetti ultimamente stanno spopolando nel medium.
Il terzo livello da considerare riguarda proprio la cultura e la censura dei contenuti. E’ indubbio che le linee guida imposte dal Partito siano, almeno per la nostra sensibilità occidentale, davvero molto strette. Limitare in termini così pervasivi solleva non solo una questione economica, ma anche sociale: si limita in questo modo fortemente la creatività degli autori cinesi, che non hanno più la facoltà di raccontare liberamente le loro storie e presentare i loro temi (anche se già si può già segnalare un precedente, con l’eclatante caso di Devotion).
Ed ancora di più, a venire a mancare sarà la potenza espressiva del videogioco in Cina, che verrà costretta a mantenersi entro i limiti imposti dal governo: ricordiamoci infatti che il medium non si limita ad offrire intrattenimento, ma può potenzialmente essere usato per presentare temi scomodi, importanti, e generare ragionamenti, dibattiti, riflessioni sulla storia, la società, la religione, la moralità; e grazie alla sua caratteristica interattività, che garantisce quindi un grado di immersione impareggiabile rispetto agli altri media, il videogioco può essere uno dei mezzi di comunicazione più potenti al mondo nella veicolazione di un messaggio.
Considerando che ormai il medium videoludico ha una grande diffusione su tutte le fasce d’età, ma che naturalmente ha una grande presa sui più piccoli, direi che risulta chiaro il pericolo che deriva da un’industria videoludica totalmente piegata ai dettami di un unico partito: nessuno spazio per il dissenso e per il dibattito, solo propaganda e visioni affini a quelle della classe politica dominante. Invece di avere un’occasione per confrontarsi con il diverso, i più giovani cresceranno facendo esperienza solo di ciò che il governo comanda.
Questo è un nodo fondamentale. In generale tutte le restrizioni normative compiute dalla Cina in questo periodo sul settore tecnologico possono essere lette in un’ottica di limitazione del loro potere economico e, quindi, politico: la creazioni di monopoli o di interstizi di libertà d’azione rispetto allo Stato stabiliti dal posizionamento e l’importanza nel mercato possono portare alla formazione di spazi di dissenso rispetto al volere del Partito. Questo risulta inaccettabile, perciò il governo decide di accorciare il guinzaglio sia dal punto di vista economico che da quello culturale con la censura dei contenuti.
L’ultimo punto rimasto da analizzare riguarda l’effettiva efficacia di queste limitazioni nel combattere la dipendenza dal videogioco dilagante in Cina. Nonostante il target dei provvedimenti sia quello dei minorenni, questi compongono una minoranza rispetto ai videogiocatori totali: 110 milioni rispetto ad un totale di 720 milioni, secondo Daniel Ahmad, analista presso Niko Partners. Il problema della dipendenza così viene affrontato solo per una percentuale della popolazione presa in esame, quando invece esso può affliggere qualsiasi fascia d’età.
Senza considerare poi che sono già in molti ad essere riusciti a raggirare il sistema di controllo in Cina: i giocatori resteranno sempre interessati al videogioco nonostante le limitazioni, e troveranno comunque modi di giocare liberamente.
Inoltre, come evidenziato anche da Federico Tonioni, direttore del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, le restrizioni non hanno nulla di salutare. I problemi di dipendenza legati al gaming sono spesso la spia di situazioni ben più complesse, di disagio familiare e di solitudine del ragazzo: il videogioco ha un potenziale sociale altissimo, stimolando la creazione di nuovi legami ed interazioni, ma può diventare nocivo se giocato esclusivamente da soli e a discapito di altre attività, quali sport, socialità e studio, e tale chiusura è spesso causata da situazioni problematiche.
Ma non è con il controllo sociale misto al paternalismo dello Stato che si risolvono queste problematiche: piuttosto, la tutela del minore dovrebbe essere affidata alla responsabilità del genitore e dell’ambiente familiare, delle sue figure educative ed eventualmente di professionisti che lo possano aiutare nel suo percorso, nel caso di disagi in casa o di sviluppo di patologie.
E, aggiungendo una nota personale, qualsiasi tipo di restrizione così invasiva è a mio parere da condannare: ogni individuo deve essere in grado di determinarsi da sé, nei limiti del convivere civile, e l’organizzazione del proprio tempo è una componente fondamentale della definizione di sé e della propria vita. Non posso quindi fare altro che augurare buona fortuna ai miei compagni giocatori della Cina: tenete duro, e continuate a giocare!