Il settore videoludico è sempre stato l’avanguardia dell’avanzata digitale. I giochi tripla A hanno budget di realizzazione che sarebbero un sogno per molti blockbuster hollywoodiani e muovono capitali ingenti con fiere, cosplay e merchandise vario. Adesso, con sempre maggiore velocità, producer e software house spingono per la completa estinzione della copia fisica del gioco, sia esso disco o cartuccia, in favore di download o sottoscrizione di abbonamenti. Per l’utente finale cosa cambia? Cosa è meglio? Difficile rispondere ma ci proveremo.
Fin sul termine dello scorso millennio, il problema non si è mai posto. Le console, (con rare eccezioni) non erano predisposte all’accesso a internet in maniera nativa e, in ogni caso, non per l’acquisto o lo scaricamento di giochi. Certo, c’erano programmi P2P e, volendo, su PC, si poteva usare Demon Tools per creare un drive virtuale ma erano soluzioni da smanettoni.
Ad onor del vero c’era stato un timido tentativo di Nintendo con il suo Famicon disk system per il Famicon (la versione giapponese del NES) ma anche l’acquisto “virtuale” richiedeva il salvataggio su supporto fisico removibile ed era necessario recarsi in appositi “chioschi” quindi possiamo tralasciare questo capitolo.
Con la diffusione delle prime ISDN (64k) o ADSL ( 256k: guai a chi si lamenta per problemi di connessione oggi!) la musica cambiò totalmente. Scaricare un add-on per Quake rimaneva un impresa, ma l‘internet 2.0 (quella in cui l’utente può produrre contenuti) faceva la sua comparsa e con esso siti dai quali era possibile scaricare contenuti aggiuntivi in maniera legale.
Di contro le software house si sentivano autorizzate a pubblicare giochi “non perfetti” contando sulla possibilità di rilasciare in seguito una patch che correggesse il problema. Un lusso che gli sviluppatori per console non potevano permettersi.
È stato proprio il diffondersi di connessioni sempre più veloci a decretare il successo del formato digitale, non solo in ambito videoludico. Il primo ebook Kindle è del 2007, stesso anno di lancio di PlayStation 3, la prima console Sony con funzionalità di rete integrate (per PlayStation 2 era necessario un adattatore). Abbiamo visto che velocità di connessione e diffusione di contenuti digitali vanno a braccetto. L’utente finale ne trae vantaggio?
Risposta corta: “Sì e no”.
Risposta lunga: “È complicato ma te lo spiego se continui a leggere”.
Quindi, com’è la situazione?
Dopo i noiosissimi “cenni storici” possiamo entrare nel vivo del discorso. Sarà ingarbugliato, sarà chiarificante e, speriamo, sarà interessante. Qualsiasi forma di commercio ha un problema che si chiama intermediazione. Il contadino coltiva le barbabietole ma, con buona probabilità, non ha le risorse per venderle direttamente al consumatore, quindi si affida a un grossista che gli compera l’intero raccolto per poi venderlo nei suoi negozi. Il grossista avrà bisogno di un trasportatore che porti le singole cassette nei negozi. Il negoziante, a sua volta, acquista dal grossista e rivende al cliente finale. Questa è, molto in breve, la supply chain. Ogni intermediario, com’è ovvio, ha un costo che fa lievitare il prezzo finale del prodotto.
Il software (in senso ampio) ha, pero, l’enorme vantaggio che nessun altro prodotto possiede: è trasferibile e duplicabile all’infinito senza in alcun modo intaccare l’originale. Niente grossisti, niente trasportatori e, alla fine, niente negozi. L’ha imparato a sue spese un colosso come Blockbusters, “assassinato” da Netflix e, per la stessa ragione, naviga in acque tempestose GameStop, come abbiamo già scritto alcuni giorni fa.
Ovvio che il consumatore da “day one” sia entusiasta di una simile evoluzione del mercato ma, ovviamente, c’è un rovescio della medaglia. Il primo aspetto, sotto gli occhi di tutti, riguarda il nostro portafoglio. A un considerevole taglio dei costi di gestione e distribuzione del prodotto, non corrisponde un altrettanto sostanziale abbassamento del prezzo: i titoli in uscita costavano 70 euro prima e costano 70 euro adesso, anche se nonsono presenti sugli scaffali ma sul playstore della mia console/PC. Perché? La prima risposta è che i costi sono aumentati. Parecchio.
Sono passati i tempi in cui due ragazzi con un saldatore da 15 Watt potevano fondare un impero in un garage (Bill Gates, anyone?). Adesso lo sviluppo di un titolo tripla A, come dicevamo all’inizio, richiede risorse ingenti. L’hardware con cui viene programmato il gioco, gli studi dal vivo (se ha un’ambientazione storica come Assassin’s Creed), il motion capture con attori in carne ed ossa, le star cinematografiche per il doppiaggio, la scrittura di una buona campagna per il single player, l’artistic design, il mecha design, la licenza se il gioco è tratto da un’opera esistente. Tutto questo va pagato anni prima che il gioco in questione arrivi sui nostri scaffali digitali e, ovviamente, senza sapere se sarà un flop o un top.
Quindi, possiamo pensare che, per mantenere alto il livello del prodotto finale, le aziende abbiano rediretto i “risparmi” della digitalizzazione in modo da non gravare sul videogiocatore. Parlando per assurdo, semplificando ed estremizzando molto: con le spese attuali, se i costi non fossero abbattuti dalle vendite digitali, il prossimo Call Of Duty costerebbe 130 euro in edizione base. Da una parte è sicuramente così, ma è ovvio che le software house abbiamo aumentato i margini di guadagno. C’è da dire che la copia fisica esiste ancora e, finché sarà così, i costi non saranno mai abbattuti del tutto (e saranno sempre pagati dai videogiocatori).
Nuovi tipi di videogiochi
Secondo aspetto: la vita media del gioco è aumentata. La diffusione massiccia del multyplayer (altro effetto dovuto all’alta velocità digitale) ha creato categorie videoludiche completamente nuove come i battle royale, giochi interamente votati alla fragganza reciproca e ha esteso la durata di titoli single player anche una volta terminata la “modalità storia” (Halo, ad esempio).
I contenuti aggiuntivi, sia per i single player sia per i giochi PVP sono diventati un aspetto imprescindibile nella creazione e fruizione del videogame. Tranne le edizioni GOTY è difficile che i DLC abbiano forma fisica, anzi spesso la maniera più conveniente per ottenerli è un season pass che concede qualche sconto rispetto all’acquisto dei singoli contenuti. Per i produttori significa poter vendere copie del software a distanza di molto tempo dal giorno d’uscita ma, come contro, comporta la gestione dei server e il rilascio di patch che corregano eventuali bug di sicurezza (chi giocherebbe a carte ad un tavolo in cui tutti barano sotto gli occhi del croupier?).
Fino a questo punto abbiamo giochi disponibili il giorno d’uscita senza alzarsi dal divano di casa, longevità aumentata (come effetto collaterale, a dir la verità), disponibilità praticamente illimitata di titoli. A tutto questo è corretto aggiungere la possibilità, per le piccole software house, di farsi conoscere con costi molto ridotti. I giochi “indie” stanno vivendo un periodo floridissimo grazie, ad esempio, a progetti come il compianto Steam Greenlight.
Tutto bene, quindi? Cosa c’è sull’altro piatto della bilancia?
Prendiamo ispirazione, ancora una volta, dal passato remoto. Se domani volessi giocare a “Ninja Gaiden” su NES, dovrei prendere il cartuccione dallo scaffale, infilarlo nella console, e sarebbe immediatamente il Natale del 1988. Nel 2050 (sperando di esserci ancora, come razza umana, s’intende) a cosa potrò giocare su Xbox One S all digital? Potrei aver acquistato decine di giochi originali ma se Microsoft avesse spento i server o chiuso gli store non avrei più la possibilità di scaricarli. Il problema è parzialmente di tipo legale. Anche potendo fare qualsiasi tipo di distinzione tra licenza d’uso e proprietà, di fronte a “file not found” o “server error” c’è poco da fare. Per ovvie ragioni, inoltre, non posso ne prestare ne farmi prestare un gioco digitale dando vita al remake di quello scambio di dischi, cartucce e floppy che negli anni ’80 e ’90 trasformava la ricreazione a scuola in uno spaccio tra ragazzini (ho conosciuto così il primo Rainbow Six).
Dopo tutte queste digressioni proviamo a raccogliere le fila di quanto detto. Copia fisica si o no? Purtroppo, la risposta definitiva non è binaria. Il completo passaggio al digitale è inevitabile e, per certi aspetti, è decisamente auspicabile. La nascita di servizi come il Game Pass di Microsoft (di cui abbiamo ampiamente parlato) fanno la gioia di ogni casual gamer, a un prezzo annuale che corrisponde a poco più di due giochi “grossi” al day one.
Il rischio è che si vada verso un’eccessiva dispersione dei servizi costringendo l’utente ad abbonarsi a più store, annullando la convenienza. Possiamo solo sederci sul fiume digitale a vedere passare i metaforici cadaveri dei PlayStore che non ce l’hanno fatta. Per quanto riguarda il futuro più remoto, sperando che Greta Thunberg si sbagli o qualcuno raccolga il suo appello, non riesco a pensare ad una soluzione per migliorare il sistema e rendere le console “giocabili” in eterno, magari offline. Forse semplicemente una soluzione non c’è, e sperare di avere una console eterna come le vecchie glorie Sega, Nintendo o Atari è come rimpiangere di non poter fare una traversata atlantica a bordo di uno Zeppelin. Dobbiamo accettare pacificamente che l’era del “fisico” e del “non connesso” è al tramonto, nel bene e nel male.