Perché la chiusura di Visceral Games fu così rumorosa nel mondo del gaming? E soprattutto, perché ancora oggi è pieno di schiere di videogiocatori che ne compiangono la dipartita? Conosciuta inizialmente come EA Redwood Shores, dopo aver confezionato nel 2006 il primo capitolo di Il Padrino e nel 2007 I Simpson – Il videogioco, nel 2008 questo talentuoso studio di sviluppo fece uscire il suo capolavoro, il gioco che non per caso lo ha consacrato così saldamente nella memoria dei videogiocatori e dell’industria: il primo Dead Space.
Il nome dello studios venne poi cambiato il 5 maggio 2009 in seguito ad un comunicato stampa di Electronic Arts, proprietaria della software house. Fu incaricato come direttore generale di Visceral Games Glen Schofield, che ricopriva lo stesso ruolo anche nello studios di EA Redwood Shores. L’etichetta è famosa in particolare per la serie sci-fi survival horror Dead Space e Dante’s Inferno. La software house, con l’immenso rammarico degli amanti del videogioco, ha visto la sua fine ad ottobre del 2017, per mano di Electronic Arts stessa.
In questa serie che ho chiamato “La saga dello spazio morto” andremo a vedere insieme il percorso fatto da Visceral Games con i vari capitoli di Dead Space. Cominciamo quindi con il primo e inimitabile capitolo della serie!
Dead Space
Per capire l’importanza del primo Dead Space è necessario farsi largo nel contesto della scena horror di quegli anni. Il genere horror nei videogiochi ha visto, dalla metà degli anni 90 fino ai primi anni 2000, una crescita di popolarità spaventosa nella cultura di massa. La serie di Resident Evil e Dino Crisis di Capcom, i giochi di Silent Hill di Konami, Project Zero e Forbidden Siren sono solo alcune delle produzioni più autorevoli degli horror in quegli anni. Se ci fai caso, tutte le produzioni che ho citato hanno un filo conduttore che le lega: sono tutti videogiochi giapponesi.
Horror in saturazione
Negli ultimi 15 anni il mercato occidentale ha vissuto il successo di queste perle giapponesi e ha tentato di cavalcare la popolarità del genere innescato da queste stesse pietre miliari, generando grazie all’avvento del mercato indie spazzatura d’ogni genere, cloni a basso costo di altri cloni che fanno affidamento su meccaniche di gioco, si ben consolidate, ma stagnanti e poco stimolanti.
Con questo boom dell’horror hanno cominciato a nascere in quantità industriale giochi privi di qualsivoglia originalità, ma sopratutto qualità; il genere negli anni era stato esplorato in tutte le sue declinazioni, arrivando a creare una stasi difficile da smembrare.
A salvarsi da questo tetro spettacolo di saturazione sono stati il primo F.E.A.R (che già faceva troppa leva su The Ring), Amnesia The Dark Descent e il più “recente” Outlast, mentre eviterei di inserire quel capolavoro di Bioshock nella lista, perché di horror ha poi solo qualche tinta vagamente dark.
Fa sorridere pensare che persino le saghe di Resident Evil – fortunatamente risollevatasi con il settimo capitolo e il remake del secondo – e di Silent Hill con il passare degli anni e l’aumentare dei capitoli sono andate incontro a un decadimento impressionante. In una situazione di saturazione totale del genere, nel 2008 fende la scena Dead Space.
Sarà che il survival horror sci-fi all’epoca non aveva un esponente così forte sul fronte dei videogiochi, ma Dead Space riuscì a guadagnarsi ben presto il primo posto in classifica nel cuore degli appassionati del genere.
Un miscuglio funzionante
Se ci si pensa a fondo è possibile fare un parallelismo fra Dead Space e Horizon Zero Dawn: questo perché, anche se il lavoro di Visceral lo fa sul fronte dell’universo di gioco e quello di Guerrilla sul gameplay, entrambi i giochi assorbono il meglio da altre opere e lo reinterpretano in maniera così notevole da riuscire a sublimare quella pesantissima sensazione di già visto.
Per ammissione degli sviluppatori Dead Space è ispirato a film come Punto di non ritorno, Event Horizon, Alien, La Cosa e a videogiochi come Resident Evil, la serie Silent Hill, per arrivare persino ai lavori del regista statunitense David Fincher.
Chi conosce queste opere probabilmente avrà colto le atmosfere e gli elementi affini presenti sull’Ishimura: il rimescolamento di questi, unito a una buona dose di originalità, ha reso l’universo narrativo di Dead Space immortale come i suoi necromorfi.
Dead Space per la sua epoca era un gioco letteralmente spaziale, la sensazione di insicurezza costante generata dall’apparizione continua dei necromorfi, che come in Alien escono da ovunque riescano a passare, è l’elemento più terrorizzante dell’esperienza, che ha fatto desistere non poche persone dall’affrontare il titolo di Visceral Games. Anche il fatto che i necromorfi spesso e volentieri non muoiano al primo colpo, ma vadano smembrati, sicuramente non contribuisce a rendere il gioco più sereno.
A generare ancora più ansia è la visuale in terza persona decentrata alla Resident Evil, unita a una scelta di design ben congegnata: la lentezza e la goffaggine del protagonista Isaac Clarke.
Questo può sembrare un difetto del gioco, ma la difficoltà nel manovrare Isaac è funzionale proprio ad aumentare l’ansia e il panico nel combattimento contro i necromorfi: se hai giocato a Dead Space probabilmente sai per tua esperienza che non è mai stata una buona opzione dare le spalle ai necromorfi e scappare, infatti si è costretti costantemente ad affrontare le malignità generate dal Marchio.
Qualche particolarità c’è
C’è anche un altro enorme merito di cui Dead Space si può fregiare, ovvero l’HUD diegetico: in breve l’interfaccia di gioco non è in sovrimpressione ed esterno, ma viene contestualizzato direttamente nel mondo di gioco: il menù di armi e oggetti verrà mostrato come un ologramma che scaturisce dal proiettore olografico di Isaac ed è possibile vedere i parametri vitali del protagonista direttamente dalla sua schiena.
L’apertura dei menù non interrompe il gioco in quanto, come già detto, sono anch’essi parte del mondo di gioco; una componente che di certo non diminuisce la tensione di alcuni momenti.
Se poi ci si aggiunge sullo sfondo la claustrofobia che la nave Ishimura sa regalare, non è poi così difficile capire perché il cocktail di Dead Space al gusto terrore e ansia funzioni alla grande.
Il gameplay era un’altra piccola grande perla del gioco. La violenza efferata nel calpestare i necromorfi, le armi adatte a ogni tipo di smembramento e con più modalità di fuoco, un integrazione nel combat system di “poteri” dinamici alla Bioshock e l’HUD diegetico davano quella marcia in più a questa mastodontica produzione.
Fantastica anche l’idea di utilizzare la scusa dello spazio e fornire scenari di combattimento a gravità in intere sezioni di gioco. Le uniche due grosse pecche del primo Dead Space erano un Isaac Clarke completamente muto e quindi dalla caratterizzazione misera e molto indiretta e animazioni non sempre all’altezza della situazione.
In conclusione
Il primo Dead Space non è un gioco esente da difetti, ma questo non gli ha impedito in alcun modo di diventare un vero e proprio cult per quanto riguarda lo sci-fi horror nel videogioco.
Il titolo riesce infatti in modo brillante in ciò che si chiede di fare a un gioco horror, visto che ancora oggi è in grado di mettere sotto pressione anche i giocatori più impavidi e di proporre un gameplay di tutto rispetto, sicuramente superiore alla maggior parte degli horror sul mercato, sia passati che odierni.
Il grande successo di Dead Space ha spinto Electronic Arts a generare un prequel e ben due sequel, ma parleremo di questi titoli nelle puntate a loro dedicate!