Un buon modo per dare il via a questa recensione dedicata alla remaster di Legend of Mana potrebbe essere quello di introdurti alla serie a cui appartiene il gioco in questione. Potrei parlarti della sua genesi dovuta al successo dei Final Fantasy o del modo in cui, dopo l’esordio, seppe spogliarsi di ogni elemento riconducibile a un mero spin-off ed evolversi fino al punto di diventare un franchise a sé.
Nel fare questo verrebbe naturale soffermarsi anche sui vari SaGa ma data la mole di informazioni già contenute nel nostro sito sotto forma di speciali legati a tali J-RPG, preferisco appoggiarmi a qualcosa di più specifico come la figura del designer Koichi Ishii: l’uomo che, al servizio dell’azienda attualmente nota come Square Enix, incarnò il punto d’incontro fra le tre IP citate.
Affiancato da un solido team le cui esperienze pregresse comprendevano l’aver preso parte alla creazione di giochi imperdibili, Final Fantasy Tactics e Parasite Eve per il gusto di farti un esempio, Ishii raccolse le idee su cui basare Legend of Mana ripensando a ciò che anni prima avrebbe voluto per SaGa Frontier: qualcosa che si distaccasse da un normale J-RPG puntando tutto (o quasi) sulla libertà di chi avrebbe giocato.
“Il tipo di gioco a cui stavamo pensando era più simile a un sandbox aperto in cui ci sarebbe bastato inserire un buon numero di strumenti, così che i giocatori potessero farne ciò che volevano”.
Ovviamente, la volontà di sperimentare portò il progetto di Legend of Mana su binari inusitati, percorsi costruiti tramite l’impiego di soluzioni che vennero recepite con discreta titubanza. Il gioco, in quanto nuovo capitolo di una serie ben avviata, non faticò a piazzare un gran numero di copie ma la sua struttura inaspettatamente non lineare gli impedì di essere amato quanto i suoi predecessori.
Una scelta azzeccata, oggi più che mai
A distanza di oltre vent’anni dal suo primo debutto, tuttavia, il mercato si è evoluto e con esso un pubblico che potrebbe apprezzare idee meno comuni. Da questa prospettiva, Legend of Mana risulta quindi immune al passaggio del tempo in modo simile ai grandi classici che definirono il suo genere, cosa che grazie alla versione rimasterizzata presa in esame non può che apparire ancora più cristallina.
Prendiamone la narrativa, ad esempio: un numero invidiabile di eventi (68 in totale) a cui il giocatore prende parte senza venire accompagnato né preso per mano; storie scritte e inserite in un’ambientazione universale che le incornicia e accomuna sotto il nome di Fa’Diel. Alla solita trama lineare Legend of Mana preferisce dunque varie diramazioni che, suddivise in tre archi principali, danno libero accesso a un unico grande epilogo.
Dopotutto, per quanto riguarda la serie Mana, a interessare Ishii non era mai stato il viaggio dell’eroe ripreso da antichi miti e raccontato di sana pianta, bensì dare vita a un nuovo mondo inedito che fosse caratterizzato da profonde tinte fantasy. La cosa ancora oggi emerge chiara fin da subito e tra numerosi NPC coi quali interagire e quest opzionali in cui perdersi, Legend of Mana riesce a trasmettere la sensazione di respirare un’atmosfera magica e persino favolistica.
Comunque sia, questa brama d’originalità influenzò anche il gameplay e lo fece a partire dalla progressione del giocatore all’interno di una mappa plasmata a piacimento, un aspetto che per primo dimostra l’importanza riservata alle scelte da prendere in autonomia. Legend of Mana, in questo senso, ci rende padroni di noi stessi e senza troppe spiegazioni ci invita a conoscere tutto ciò che ha da offrire.
È questione di sistemi
Il perno centrale di Legend of Mana, attorno al quale ruotano le quest line e tutti i contenuti che definirei di contorno, rimane senza dubbio il Land Make System senza il quale questo gioco non sarebbe così unico. Nato da un guizzo di Ishii e perfezionato sotto consiglio di Akihiko Matsui, director tra le altre cose del fantastico Chrono Trigger, questo sistema permette agli utenti di formare la plancia di gioco piazzando dungeon, ambienti e città nell’ordine che preferiscono e, di conseguenza, esplorare in totale libertà i contenuti proposti dal titolo.
A ogni punto di interesse corrisponde un artefatto e collezionarli completando i vari eventi, compresi i secondari, dà la chance di collocare e visitare nuovi luoghi di un mondo che dapprima ricordava un deserto. Più ci spingiamo lontani da casa riempiendo fino all’ultimo dei territori disponibili, più Legend of Mana ci mette alla prova con sfide gradualmente più difficili; una sorta di bilanciamento automatizzato che oltre a fare il suo dovere restituisce ancora una volta l’idea di gestione libera.
A non convincere altrettanto, se riportato ai giorni nostri, è invece tutto ciò che arricchisce il quadretto così come il secondo sistema di riferimento che differenzia un buon action da un eventuale disastro: il combattimento. Hiroshi Takai fece un gran lavoro ispirandosi ai beat ’em up di Capcom e unendo la concezione di un brawler a scorrimento a quella dei random encounter tipici dei J-RPG, ma tolto lo sviluppo legato alle armi (ne esistono di 11 tipi diversi) e all’utilizzo di abilità uniche oggi tende tutto a sembrare piatto.
Benché il titolo metta a disposizione la possibilità di associare tasti a manovre come schivate, parate e contrattacchi, mentirei se dicessi che durante le mie sessioni ho percepito l’urgenza di non limitarmi ad attaccare. La profondità del gameplay, di conseguenza, è più che altro accennata e Legend of Mana la bilancia con tanti altri contenuti come il crafting, le uova di mostro da allevare o ancora il frutteto di cui prendersi cura.
Tecnicamente imperituro
Solo note positive viceversa riguardo al comparto tecnico che partendo da una grafica rinnovata al punto giusto e rispettosa di quel che un tempo fu il miglior 2D mai visto, convince ancora oggi grazie ai suoi colori vivaci e ai magnifici fondali in alta definizione. La scelta di restare fedeli ai disegni fatti a mano ha quindi ripagato ora come allora e rimarcato ampiamente che 16 bit sono sufficienti a sedurre il nostro sguardo.
Ottimo infine il lavoro volto a svecchiare le melodie composte da Yoko Shimomura, così come l’opportunità di aprire il menù delle opzioni e scegliere di mantenere le tracce originali; entrambe soluzioni che dal mio punto di vista funzionano esattamente allo stesso modo. Chiudendo gli occhi mi sembra ancora di sentire quel canto in svedese che si sposa alla perfezione con l’immaginario di Fa’Diel. A modo suo, artisticamente, Legend of Mana è eterno.
Concludo dando spazio all’ultima vera aggiunta che distingue questa remaster dal prodotto del ‘99, ovvero la modalità Ring Ring Land: un simpatico minigioco ispirato al Tamagotchi (e mai arrivato in occidente) che permette di allevare i nostri mostri da compagnia rendendoli più forti ed efficienti in battaglia. Non un game-changer, ma così come le funzioni di cui ho parlato e taciuto per evitare di rovinarti il piacere della scoperta, si tratta pur sempre di un’ulteriore nuance all’interno di un quadro da ammirare con gusto.