Non ci sono dubbi in merito: sin dal lancio, Elden Ring è stato in grado di attirare istantaneamente l’attenzione di una grandissima fetta di utenza; con oltre 12 milioni di copie vendute nella sola prima settimana, ad oggi sono tantissimi i giocatori che hanno deciso di cominciare o che portano avanti la loro avventura nell’Interregno.
Di recente, grazie ad una fortunata (quanto inaspettata) coincidenza di circostanze che mi ha portato a disporre di parecchio tempo libero, anch’io ho avuto modo di calarmi nel “nuovo capolavoro targato FromSoftware”, come viene definito da Francesco nella sua recensione.
Questioni di tempo
Dopo circa 100 ore totali per completare interamente il gioco, posso tranquillamente affermare che si è trattato di un’esperienza a dir poco travolgente, ricchissima di contenuti e monopolizzante come poche altre, in grado di offrire sorprese e soddisfazioni (oltre che batoste) nel corso di tutta la sua durata.
Ma non è delle vette qualitative raggiunte dal titolo che vorrei parlare in questa sede (per quelle c’è la recensione, dopotutto), quanto piuttosto di un pensiero costante che più volte ho avuto durante il proseguimento dell’avventura. Proprio perché conscio dell’eccezionalità del tempo libero a mia disposizione, più scoprivo zone segrete, quest, boss opzionali e dungeon disseminati per tutto l’Interregno, più mi ritrovavo a pensare che difficilmente sarei stato in grado di avanzare in una simile impresa qualora mi ci fossi cimentato in qualsiasi altro periodo, con meno tempo a mia disposizione.
In passato avevo già affrontato il tema della gestione del tempo personale in relazione ai videogiochi. In quel contesto, in merito agli open world avevo affermato come, a causa della loro insita vastità, fosse necessario dedicargli una maggior quantità di tempo affinché questi potessero essere apprezzati pienamente.
Pur richiedendo di farsi carico di un impegno a lungo termine, gli open world (e più in generale i videogiochi tutti) possono fortunatamente essere dilazionati in sessioni di gioco dalla durata variabile, secondo la propria disponibilità e le proprie preferenze. In effetti, quella di poter scegliere quando e come fruire dei contenuti offerti da un videogioco, seguendo e definendo una propria agency, costituisce uno degli aspetti più interessanti e caratterizzanti dell’intero medium.
…e Elden Ring?
Nel caso specifico di Elden Ring però, al giocatore non viene richiesta “solo” una grandissima quantità di tempo da investire, ma anche una certa assiduità. L’Interregno è disseminato da una sterminata quantità di contenuti unici ed esclusivi, alcuni dei quali potrebbero persino alterare (narrativamente o ludicamente) l’intera esperienza di gioco in modo sostanziale. La curiosità, vera e propria colonna portante e “motore” dell’esplorazione del gioco, si ritrova così ad essere stimolata ed interpellata praticamente sempre, senza interruzioni.
Se all’incredibile (quanto disarmante) varietà di contenuti presenti si aggiunge anche un livello di difficoltà tendenzialmente alto, che rende arduo compiere dei progressi consistenti con breve tempo a disposizione, ecco allora che una comune sessione di gioco dalla durata di circa due ore, che in altri contesti risulterebbe del tutto sufficiente, qui potrebbe finire col non essere abbastanza per ritenersi soddisfatti.
Si viene così a creare un riuscitissimo ed additivo feedback loop, retto interamente dal costante desiderio di esplorare “un po’ in più” prima di posare il controller, e che mira quindi ad una gratificazione che non sembra mai arrivare del tutto. L’intero ritmo dell’esperienza, proprio perché dettato dal ritrovamento di oggetti e da scoperte tutte ugualmente uniche ed appaganti, e mancante di quegli “alti e bassi” più propriamente legati alle logiche del racconto, non offre praticamente mai un momento adatto ad interrompere la sessione di gioco, se non forzandosi in qualche modo ad ignorare la propria stessa curiosità, ormai stuzzicata irreparabilmente.
Il ritmo di gioco secondo gli open world
È importante sottolineare come questo aspetto non costituisca affatto un “difetto” di Elden Ring nello specifico, quanto piuttosto di un elemento comune a tutti gli open world che, semmai, nel titolo FromSoftware emerge con particolare vigore a causa della concomitanza di diversi fattori.
In un mondo aperto, per giustificare la grandezza della mappa ed invogliare chi gioca a visitarne ogni anfratto, è essenziale che un po’ovunque sia possibile reperire qualcosa di utile. In caso contrario, non ci sarebbe alcuno stimolo sufficiente a motivarne l’esplorazione, riducendo così intere zone a semplici luoghi da attraversare per raggiungere isolati punti d’interesse e perpetrare così un tipo di esperienza che risulterebbe, a quel punto, del tutto lineare.
Disseminando contenuti per tutta la sua estensione, magari con la possibilità di accedere a più luoghi in qualsiasi momento, un open world suggerisce invece un tipo di fruizione bulimico, paragonabile a quella del bingewatching per le serie TV, che invoglia a fare esperienza di tutto e subito, non seguendo un ordine prestabilito ma piuttosto la propria sfrenata curiosità.
Esempi prossimi, ma diversi
Nella mia personale esperienza, una sensazione simile (ma non identica) l’ho riscontrata giocando Hollow Knight e The Legend of Zelda: Breath of the Wild, entrambi titoli che, come Elden Ring, sono caratterizzati da un mondo aperto la cui esplorazione presenta un certo grado di libertà e la quasi totale mancanza di “segnalini” che puntino verso una direzione precisa, ma che, a differenza del gioco di Hidetaka Miyazaki, presentano attenuanti più marcate nella curiosità che sono in grado di esercitare sul giocatore.
In Hollow Knight, esplorare il ricchissimo mondo di Nidosacro è un’impresa resa altamente godibile dalla possibilità di consultare una mappa estremamente esaustiva ma non per questo ottusa. Pur aprendosi in continuazione molteplici diramazioni possibili, e nonostante la presenza anche qui di contenuti (strumenti, boss, NPC) unici ed esclusivi, la natura 2D del titolo rende più semplice circoscrivere le varie zone del mondo, il cui completamento costituisce l’ideale conclusione di una sessione di gioco, costituendo così un freno ideale all’altrimenti smodata curiosità che si proverebbe durante l’esplorazione.
D’altro canto, la Hyrule di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, seppur condividendo con l’Interregno di Elden Ring la tridimensionalità, differisce nel tipo di contenuti che questi offre. In Zelda, gli elementi davvero unici e in grado di cambiare l’intera esperienza di navigazione sono estremamente rari e allocati in luoghi dal forte richiamo visivo. Nella maggior parte dei casi, invece, ci si imbatterà in avamposti contenenti armi distruttibili e tranquillamente reperibili altrove o in uno dei numerosissimi sacrari.
Pur essendo retta anche in questo caso da una curiosità costantemente interpellata, l’esplorazione in Zelda si configura suscitando un bisogno assai meno impellente, ma declinato in maniera ugualmente gratificante, prestandosi così tanto ad un approccio “mordi e fuggi” (non a caso, considerato l’arrivo su Nintendo Switch) quanto ad uno più intenso e approfondito; il tutto, come sempre, secondo le preferenze personali di chi gioca.
Questioni di ritmo
L’approccio lineare non è per forza da intendersi come negativo, ed anzi, quando architettato secondo una visione ben precisa, è in grado di suscitare in chi gioca specifiche sensazioni proprio attraverso una consapevole gestione del ritmo delle diverse fasi dell’avventura. A tal proposito, non è necessario tirare in ballo i giochi fortemente cinematografici (e per questo strettamente vincolati alle esigenze della sceneggiatura) in stile Uncharted, ma basterà rifarsi al primo Dark Souls, restando in tema FromSoftware, per dimostrare quanto appena affermato.
Nel primo gioco della serie infatti, sconfiggere un boss particolarmente ostico, magari posto al termine di una zona difficile da attraversare, oltre a restituire al giocatore un momento di pura gratificazione e meritato trionfo, costituisce anche il momento ideale per terminare una sessione di gioco.
Perfetto finale per una mini sequenza lineare (l’intero “dungeon”, appunto) tra le tante accessibili, nel momento della vittoria risulta quanto mai evidente agli occhi del giocatore di trovarsi dinanzi al momento più adatto a fermarsi, consapevole che la volta successiva toccherà intraprendere un cammino ancor più arduo verso una zona inesplorata, per la quale è meglio arrivare pronti, freschi e riposati. In Elden Ring invece, anche dopo aver sconfitto uno dei boss principali posti al termine dei dungeon più vasti e complessi sembra esserci sempre tempo per un’altra caverna, un altro boss, un’altra faccenda da sbrigare…
Di chi è la colpa?
Sebbene leggendo questa mia riflessione potrebbe sembrare che io voglia gettar luce su un difetto del gioco misteriosamente non discusso da nessuno, è vero piuttosto il contrario: è Elden Ring a far emergere un difetto nel giocatore (me in questo caso, ma ritengo di non essere il solo) che, ritrovandosi a poter esercitare un’inusitata libertà decisionale nell’interagire con una così sterminata mole di contenuti e trovandosi sprovvisto dei consueti strumenti indicativi tipici della linearità, non è in grado di regolare il proprio tempo di gioco secondo un ritmo sostenibile.
L’ultima fatica FromSoftware costituisce un risultato epocale sotto tantissimi punti di vista, ma, per essere apprezzato pienamente, richiede un tipo di dedizione che non tutti, non sempre, sono in grado di restituirgli, costituendo di fatto un ostacolo per la riuscita dell’esperienza assai più insormontabile di qualsiasi boss fight, e che porta a chiedersi: “Questo gioco è adatto a me in questo momento? O meglio, sono io, ora, pronto per questa esperienza?”