Sul finire della scorsa generazione, il primo e indimenticabile The Last of Us ha sancito un nuovo standard per il videogioco, e a distanza di sette anni, The Last of Us Part II ha alzato ulteriormente l’asticella. Sembra strano tirare in ballo questi due mostri sacri targati Naughty Dog per la recensione di un titolo che ha in sé premesse e intenti del tutto differenti, eppure Manifold Garden, e lo stupore che mi ha lasciato addosso, mi ha fatto riflettere in questo senso.
Nel corso di tutta l’attuale generazione, sulla quale sta per calare un glorioso sipario, le produzioni più blasonate hanno avuto lo scopo di sorprendere il giocatore con trama e regia, tirando spesso in ballo gameplay che, talvolta, non avevano nulla di nuovo da raccontare. Death Stranding, ad esempio, non vanta una singola guest star come tante altre produzioni, ma un intero cast stellare, al pari di una produzione hollywoodiana. Come da tradizione per le opere del maestro Kojima, il videogiocatore era chiamato in varie occasioni a vestire i panni di spettatore.
Amo questo genere di titoli, come buona parte dell’utenza che è stata cullata da questa generazione, eppure Manifold Garden, titolo letteralmente all’opposto in quanto si spoglia di ogni orpello narrativo e tecnico, si è fatto ugualmente amare, tenendomi incollato allo schermo e portandomi ad arrivare fino in fondo in sole due sessioni gioco.
Vieni, (non) ti racconto una storia…
Voglio svelarti un piccolo retroscena “tecnico”. Quando si riceve un titolo da recensire, la key di gioco fornita viene, nella maggior parte dei casi, accompagnata da alcune raccomandazioni: ad esempio, su un titolo fortemente narrativo può essere richiesto di non fare spoiler sulla trama in sede di recensione; oppure di rispettare un embargo per il quale non è consentito parlare del gioco prima di una precisa data e via dicendo…
Con Manifold Garden mi è stata fatta una richiesta strana per il tipo di gioco che avevo davanti. Sapevo di avere a che fare con un puzzle game, eppure l’unica restrizione era di non parlare della fase finale del gioco e di non mostrare sequenze prolungate per non svelare la soluzione a qualche enigma. Questa seconda richiesta non mi ha stupito, anzi, l’ho trovata molto appropriata, fatto partire però il titolo, e giocato il primo quarto d’ora, mi chiedevo cosa avrei trovato di tanto unico nelle fasi finali.
Il titolo infatti, fin dalle prime fasi, è immerso in un silenzio che non viene mai rotto (se non dalla colonna sonora su cui tornerò più avanti); date un paio di indicazioni spartane sui comandi si viene subito lasciati soli: noi e il mondo infinito del gioco, nient’altro. Mi ci è voluto un po’ a capire, ma da un certo punto in poi si intuisce che non servono parole, abbiamo effettivamente un obiettivo, e non solo la sua realizzazione si ritrova nel finale, ma, seppure inizi man mano a palesarsi durante il gioco, dovremo comunque arrivare fino in fondo per capirlo del tutto.
Questo silenzio insistente, che ben presto si rivelerà una caratteristica peculiare dell’esperienza, è voluto perché la scoperta graduale del mondo di gioco ci porta di paripasso a creare un mondo nella nostra mente in cui quel puntino che indica lo sguardo del nostro avatar può essere di tutto: un esploratore, un astronauta, il monarca di un regno caduto, letteralmente: tutto!
Sia chiaro, siamo ben distanti dalla narrativa silenziosa che ha reso iconica la serie dei Souls di FromSoftware, anche perché non c’è possibilità che il world building possa nascondere una lore. Ci troviamo in un mondo pieno di strutture bianche che si ripetono all’infinto in uno scenario che sembra sospeso nel nulla, uscendo dai limiti di questi edifici infatti ci ritroveremo a cadere nel vuoto all’infinito, fino ad atterrare, dopo una lunga caduta, su una struttura simile in tutto e per tutto alla precedente.
Questo non è indice di pigrizia da parte degli sviluppatori, perché comunque fino alla fine dell’avventura troveremo enigmi ed edifici sempre nuovi e unici, anzi, rappresenta una soluzione visiva davvero interessante che, di tanto in tanto, si rivela anche funzionale alla risoluzione di alcuni rompicapo proposti. Inoltre, è l’unico modo di tenere sempre viva un’atmosfera che, per quanto surreale, si rivela sempre incredibilmente tangibile.
Ci vuole una fisica bestiale
Dal punto di vista del gameplay, Manifold Garden si presenta come un puzzle game basato principalmente sul controllo della gravità. Potremo muoverci liberamente negli spazi di gioco e, avvicinandoci a una parete e cliccando l’apposito comando, la parete indicata diventerà il piano di riferimento, andando quindi a modificare completamente la gravità e la superficie su cui potremo muoverci, inoltre il mondo di gioco cambierà anche colore proprio in base al piano di riferimento.
Può sembrare una feature da poco, e in effetti nelle prime fasi di gioco l’avanzamento si rivelerà abbastanza lineare, ma procedendo nella scoperta di questo misterioso mondo, verranno dati al giocatore sempre più elementi da sfruttare. Per esempio, faremo ben presto la conoscenza degli alberi, dalle cui chiome spuntano dei cubi di determinati colori su cui sono raffigurate delle frecce che rappresentano la gravità a cui rispondono.
In effetti può sembrare complesso, e a tratti lo è anche, dal momento che ci vorrà un po’ ad abituarsi alle regole di questo mondo anche pad alla mano, ma provo a spiegarmi meglio: a un certo punto troveremo un albero la cui chioma è gialla, prelevando da quest’albero un cubo noteremo che ha incisa una freccia che va verso il basso, ciò vuol dire che lasciando andare il cubo in questione questo cadrà verso il basso; inoltre, i cubi rispondono alla gravità solo quando siamo nel loro piano di riferimento, quindi se raccoglieremo un cubo giallo mentre il piano è giallo potremo trasportarlo liberamente, ma se cambieremo la gravità e quindi il piano, rendendolo, per esempio, rosso, non potremo più interagire col cubo giallo.
Il gameplay poi si arricchisce man mano che si prosegue con feature uniche come la possibilità di modificare il colore di un cubo, e di conseguenza la gravità al quale risponde; oppure, a un certo punto faranno la propria comparsa delle fonti d’acqua, il cui corso potrà essere deviato per attivare dei meccanismi, oppure per creare dei passaggi e raggiungere zone altrimenti inaccessibili, dal momento che anche l’acqua risponderà a una specifica gravità e quindi, restando immobile, farà le veci di un vero e proprio percorso.
Queste sono solo alcune delle feature che il titolo ci metterà davanti, ma riesce a disseminarne con sapienza tante altre che faranno in modo di rendere sempre innovativa la risoluzione degli enigmi. Con un incedere ben calibrato e novità che arrivano esattamente al momento giusto, ovvero poco prima che le soluzioni diventino ridondanti, le ore che passeremo nel mondo di Manifold Garden saranno piacevoli fino all’ultimo secondo. C’è da dire che, non restando bloccati davanti a qualche enigma un po’ più ostico, il finale arriverà in poco meno di tre ore, una durata che ritengo soddisfacente perché, in quanto puzzle game, a lungo andare si sarebbe potuto rivelare noioso.
L’arte, protagonista indiscussa
Per quanto il titolo si riveli più che soddisfacente anche da altri punti di vista, ciò che si rivela il punto forte dell’intera produzione è il comparto artistico, sia dal punto di vista grafico che da quello sonoro.
Dietro la produzione si cela l’artista americano William Chyr, questo autore si è a sua volta ispirato alle opere di Maurits Escher, noto ai più soprattutto per la Tribarra impossibile e l’opera Concavo e Convesso, che mostra lo scorcio di una piazza in cui l’autore gioca con le prospettive. I più appassionati d’arte e di illusioni ottiche potranno notare anche alcune similitudini con gli studi di Roger Penrose, la Scala di Penrose in particolare, e la solitudine in cui questo mondo ci avvolge può ricordare anche i quadri del nostrano Giorgio de Chirico.
Gli ambienti virtuali ideati da Chyr sono minimalisti vedono predominare il bianco, così da rappresentare ancor di più la semplicità voluta dall’autore. Non sarà tutto un bianco piatto però, alcune sfumature andranno a dare delle tonalità uniche agli edifici, il cambio di gravità ssegnerà anche il cambio di queste tonalità, andando a rendere il gameplay asservito alla grafica e viceversa, rendendo questi due comparti indissolubilmente legati. Questa indica una forte nota autoriale, di un artista che ha voluto regalare ai videogiocatori un’esperienza unica e indirizzata verso il continuo colpo d’occhio.
Allo stupore della vista si unisce quello dell’udito, la colonna sonora è indirizzata verso tonalità rilassanti, ma è capace costantemente di sorprendere andando a completare quel tutt’uno armonico a cui facevo riferimento poco prima. Ho trovato sinceramente sorprendente e piacevole ascoltare il pezzo di sottofondo che letteralmente si “schiudeva” aggiungendo nuovi strumenti quando ho mosso i primi passi fuori dal primo edifico, a rimarcare il fatto che da un’interno chiuso si stava passando a un mondo infinito.
In conclusione, mentre scrivevo questa recensione, mi sono reso conto di quanto in realtà sia complesso parlare di questo titolo. L’esperienza che mi sono ritrovato davanti è stata pienamente appagante da ogni punto di vista, tanto per la direzione artistica quanto per il gameplay, che tiene il giocatore concentrato senza però frustrarlo, eppure, per quanto ne sia soddisfatto penso che rimanga difficile esprimere a parole ciò che questo titolo può lasciare al giocatore. Mi sembrano decisamente azzeccate in questo momento le parole di Frank Zappa: Scrivere di musica è come parlare di architettura, a conferma del fatto che più che di fronte a un gioco, in questo caso ci troviamo davanti a una vera e propria dimostrazione d’arte interattiva.