Esistono 2,8 miliardi di giocatori al mondo. Una cifra davvero impressionante, soprattutto se consideriamo che siamo aumentati di quasi 1 miliardo dal 2015. Forse ancora più sorprendente è sapere che l’età del giocatore medio è tra i 34 e 36 anni e consuma in media 7 ore di videogame a settimana, solitamente in sessioni di 4-5 ore circa. (fonte)
Questi numeri alla meglio potrebbero provocarti una tiepida reazione e sicuramente ti starai chiedendo dove io voglia andare a parare. Risponderò dunque alla tua domanda scortesemente, cioè con un’altra domanda: quante di queste 5 ore di gioco abbiamo passato in tutorial, in attività ripetitive, ad aspettare e a svolgere attività inconsequenziali e, fondamentalmente, inutili?
Non esistono statistiche al riguardo purtroppo, ma sospetterei siano molte. Dal percorrere un’enorme, e spesso vuota, mappa nei titoli open world al collezionare livelli e risorse negli RPG, navigando tra menù infiniti per ottimizzare ogni singolo dettaglio per le lunghissime e ripetitive battaglie a venire.
La durata media di un videogame al momento è di circa 20 ore, un risultato eccezionale, specie se paragonato alle 3, 4, 5 ore che duravano solo venti anni anni fa. Certo, la tecnologia stessa, ormai obsoleta, limitava la quantità di dati disponibili su una determinata cartuccia, e di conseguenza la lunghezza possibile.
Ma già dagli anni ’70 era possibile assistere a come il tempo sarebbe diventato il fattore determinante tra un videogioco di successo e uno che sarebbe finito presto nel dimenticatoio. Andiamo allora a dare un’occhiata alla storia del design e la sua relazione con la quarta dimensione. Tick tock!
I primi videogames: il tempo è denaro (o gettoni…)
Chi di noi non ha mai provato un cabinato retrò in una sala giochi, magari in vacanza al mare? Veri e propri pezzi della storia, contano numerosissimi fan intorno al mondo, tanto che un museo dedicato a loro è stato recentemente aperto in Giappone, e l’unico prezzo da pagare per giocarci è quello d’ingresso.
I lettori più hardcore però sapranno benissimo quanto sono difficili i titoli proposti, e ricorderanno mestamente quante monete sono state spese alla ricerca di un punteggio sempre migliore. L’elevato livello di difficoltà è di design; l’obiettivo degli sviluppatori era, d’altronde, far spendere più gettoni possibile all’utente, in modi spesso anche insidiosi e fondati nella psicologia.
Ironicamente, si voleva far passare meno tempo possibile tra una sessione di gioco e l’altra. Se con solo 50 centesimi potessimo arrivare al famigerato 256esimo livello di Pac-Man, non converrebbe certo ai proprietari della sala giochi acquistare il cabinato, ed ecco spiegata la natura della punitiva difficoltà.
Quello di competizione è un istinto naturale per tantissimi gamer, e inserire alla fine della partita l’elenco dei giocatori migliori, quelli con il punteggio più alto, divenne la prassi. Se non puoi battere il gioco, batti i tuoi amici! Il nome dei più capaci venne quindi immortalizzato per i posteri in 3 comode lettere, un precursore dei gamertag che esistono ancora oggi.
Per finire, un altro “trucco” di design era la schermata “Continua?” dopo il game over. Questa venne ideata appositamente per creare una pressione psicologica nel giocatore, che in soli 10 secondi non ha il tempo di considerare se è economicamente vantaggioso proseguire la partita in corso. È una meccanica che possiamo rivedere anche oggi nel gioco d’azzardo, e in moltissimi titoli “free”-to-play, con le offerte a tempo limitato che propongono quotidianamente.
Come vedi, già allora il tempo era un elemento integrato dei videogiochi, che informava le scelte dei suoi produttori in funzione di un determinato obiettivo… in questo caso spillarti quattrini!
L’era delle console: la mela non cade mai lontano dall’albero
I developer migrarono dai cabinati alle console casalinghe, che non avevano però uno slot per inserire gettoni. Il principale fattore limitante di queste era lo spazio disponibile; la tecnologia del tempo impediva ai titoli di protrarsi troppo a lungo, e nessun giocatore che si rispetti sarebbe stato soddisfatto da solo 3 ore scarse di gameplay.
In parte a causa della loro esperienza precedente, in parte per dilungare artificialmente questa durata, anche i videogame domestici ereditarono i tratti dei loro progenitori: tra controlli legnosi, nemici troppo potenti, nessun salvataggio e tantissime opportunità per un game over imprevisto, il design era deliberatamente difficile per impedirti di completare il gioco in poco tempo.
Quale genitore avrebbe voluto sborsare una piccola fortuna per una console e una cartuccia se poi il figlio gliene avrebbe chiesta una nuova il giorno seguente? Ghosts ‘n Goblins, Battletoads e Ninja Gaiden furono tra le più celebri cause di stress post-traumatico videoludico e crampi al polso dei giovani negli anni ’80.
Hai mai sentito qualcuno lamentarsi che oggi i videogiochi sono “troppo semplici”? Magari tu stesso rimpiangi i bei vecchi tempi? La causa è sempre la stessa: il tempo. Andiamo a vedere perché!
Un tuffo nel presente
Giungiamo così al giorno d’oggi. Per la gioia degli sviluppatori le nostre console costano comunque tanto, così come i giochi, ma le SSD sono abbastanza capienti da contenere decine di videogames o in alternativa una singola patch al day one.
Ironia a parte, le innovazioni tecnologiche hanno permesso di concentrarsi su aspetti di design differenti, introdurre più livelli, più contenuti, più tempo di gioco disponibile insomma. Non c’è più bisogno di impedire artificialmente all’utente di “vincere” troppo in fretta, perché il traguardo è sempre e comunque ad almeno 20 ore di distanza, e ad ogni patch viene spostato un pochino più in là.
Il realismo poi è sempre stato un elemento di vanto e un obiettivo da rincorrere per i produttori di videogiochi, dall’ormai onnipresente ciclo giorno/notte che era considerato l’apice dell’immersione ai tempi, alle showcase in cui sfoggiano paesaggi magnifici, fisica simulata paragonabile al mondo reale, dettagli grafici nascosti e intessuti nella fitta trama intrecciata durante la creazione.
Ci perdiamo così per ore e ore (circa 7 a settimana, se ricordi) nell’universo di gioco, che continua come una sirena ad invitarci a tornare. I titoli open world non per questo sono tra i più gettonati, perché garantiscono il miglior rapporto tempo/prezzo… almeno in teoria.
Nella pratica, purtroppo, la verità è che il brodo che sono i videogames viene continuamente allungato con acqua, o nel loro caso, con espansioni, dlc, missioni opzionali, collezionabili, trofei, multiplayer esclusivo, eventi, season pass, e potrei continuare! Ricordi le orribili torri di Far Cry? O le 100 piume da collezionare in Assassin’s Creed 2?
Creare videogames è un lavoro, uno anche molto remunerativo per le case videoludiche che ora pubblicano i cosiddetti “giochi come servizi”, paragonabili in tutto e per tutto ai cabinati di cui abbiamo parlato prima.
Il tempo è un lusso che non tutti si possono permettere
“Live Service” è una nomenclatura sorta in questi ultimi anni per indicare un modello economico che cerca di trattenere il giocatore il più a lungo possibile in un videogioco con la speranza che continui a pagare per le microtransazioni. Vi sono moltissimi esempi di titoli come questo; ad esempio, Fallout 76, Anthem, Red Dead Online, Marvel’s Avengers e molti altri.
Hanno degli elementi in comune; una roadmap che elenca come il gioco verrà continuato ad essere sviluppato, espansioni sempre all’orizzonte, e la promessa di non finire mai grazie a costanti innovazioni. Tutti vogliono i tuoi soldi ma soprattutto il tuo tempo, vogliono che compri lootbox e dlc, e che non ti separi mai da loro.
Tramite tecniche di pressione psicologica, simili a quelli che abbiamo visto prima, ti informano che se non fai il log-in anche il giorno dopo perderai qualche bonus gratuito, un po’ come lo schermo con scritto “continua?” degli arcade; fai la tua scelta in fretta, o è davvero game over.
In questo senso, sono molto simili ad un ex particolarmente appiccicoso.
Il problema è che i giocatori sono umani, e oltre alle risorse finanziarie, anche le loro ore disponibili sono limitate, e con titoli AAA nuovi sempre dietro l’angolo non è fisicamente possibile giocarli tutti al ritmo che vorrebbero imporre. Il tempo è una risorsa preziosa, la moneta di scambio fondamentale che ogni essere umano, in misura diversa, possiede.
Per quanto profondo e genuino possa essere il nostro amore per i videogiochi, sono uno svago, un momento ricreativo a cui noi scegliamo di dare attenzione, non un impegno scandito e regolato dal design del prodotto stesso.
Io dunque vorrei invitarti a fare attenzione, a lamentarti quando Rockstar non ti permette di correre dentro all’accampamento in nome del realismo, a ridere quando ti viene offerto un boost all’esperienza guadagnata in un RPG per “risparmiare tempo“, a pensare “ma ne varrà la pena?” quando stai considerando se acquistare l’ultimo videogame che promette supporto continuo vita natural durante.
In ogni caso, i gamer sono tutto tranne che stupidi, e ogni giorno spuntano sempre più forum di persone preoccupate per la piega che stanno prendendo le cose, e sono pronti a dare voce alla propria opinione. Anche se la situazione è negativa, il futuro appare raggiante… basta dare tempo al tempo!