Dato l’imminente arrivo di Nier Replicant, potrebbe essere una buona idea rigiocarsi Nier: Automata. Meglio ancora, possiamo spiegarti tutti i concetti filosofici che permeano la trama, in modo da fare un rapido recap, in attesa di immergersi in una “nuova” storia di Yoko Taro.
Nier: Automata è stato un fulmine a ciel sereno. Un gioco uscito quando nessuno se lo aspettava e diverso dai canoni odierni, sia per la narrazione sopra le righe, sia per il gameplay stesso. Con intelligenti cambi di inquadratura, infatti, il titolo Square Enix passa velocemente da un genere all’altro, diventando un Action GDR con componenti da Shoot’em up, un platform o un picchiaduro a scorrimento. Tutto questo è accompagnato da una colonna sonora magistrale, arrivata persino su Spotify, e da una trama caratterizzata da diversi momenti memorabili.
Ma Nier: Automata non è solo un ottimo gioco. La storia propone una vera e propria riflessione filosofica, che si rifà più volte all’esistenzialismo di Nietzsche. Prima di cominciare però, è da segnalare la presenza di SPOILER, quindi se non hai giocato il titolo, e vuoi scoprirlo da solo, ti invito a non proseguire la lettura.
Nel corso dell’esperienza, il messaggio della trama stessa del gioco viene proiettato nel gameplay, sfruttando il classico comportamento che i videogiocatori adottano nella maggior parte dei titoli: seguire l’obiettivo senza pensarci troppo, perché è necessario per proseguire. In tutti i giochi noi eseguiamo ciò che ci viene detto a schermo, a volte senza capire fino in fondo le nostre motivazioni, spesso uccidendo chi si para davanti prima ancora di sapere perché lo stiamo facendo.
La prima parte dell’avventura è proprio questo: ripetiamo in modo quasi meccanico alcune azioni, cercando di capire cosa ci stia spingendo a farle, dato che in quel momento sappiamo solo che stiamo svolgendo le missioni per conto dell’umanità rifugiata sulla Luna. Tuttavia non sappiamo se le singole battaglie siano davvero utili a questo fine.
Allo stesso modo sappiamo che le Biomacchine (i nostri nemici) sono state create dalla razza aliena che ha invaso la terra, allo scopo di affrontare e sterminare gli umani, e che quindi sono solo armi. Questa conoscenza su ciò che stiamo facendo ci dona una piccola giustificazione per le nostre azioni, che trovano un senso grazie alla frase “Glory to Mankind” ripetuta dai protagonisti: per l’umanità e per la sua futura gloria, ecco per quale motivo massacriamo le Biomacchine.
Quindi, le nostre azioni sono giustificate da un bene superiore e da una forza maggiore?
Una giustificazione è ciò che cercano i giocatori e i protagonisti quando a un certo punto della storia si apprende che le Biomacchine non sono dei semplici gusci vuoti, ma sono degli esseri senzienti in grado di provare emozioni, addirittura molto simili agli umani. Noi (gli androidi, insieme ai giocatori) abbiamo fatto strage di loro senza farci domande e soprattutto “per la gloria dell’umanità“, che ormai resta l’unico motivo in grado di dare un senso a ciò che è stato fatto fino a quel momento.
Andando avanti nel gioco anche questa convinzione viene meno: scopriamo che umani e alieni sono morti ed estinti da molto tempo. Questo significa che quegli esseri “superiori” (i quali metaforicamente rappresentano le divinità che danno uno scopo) ai combattenti sul campo di battaglia non ci sono mai stati. L’intero conflitto attualmente in corso, quindi, è insensato? Qui il giocatore deve riconsiderare la sua direzione insieme ai protagonisti: per che cosa ho fatto tutto quello necessario ad arrivare fin qui? Cosa giustifica le mie stragi se l’entità superiore per cui ho combattuto non c’è mai stata? Qual’è il movente dietro tutta questa sofferenza?
La prima frase che sentiamo nel gioco cita Nietzsche, riportando alla mente il suo famoso “Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso”.
Questa citazione richiama chiaramente la situazione attuale. Il giocatore, insieme agli androidi, si ritrova a dare significato alle sue azioni, cercando la giustificazione in ciò che fa nella volontà di un essere superiore (l’umanità è sulla Luna, letteralmente sopra di noi, come una divinità). Questo modo di pensare ha accompagnato tantissime società nel corso della storia e ci accompagna ancora oggi in alcuni casi; addirittura ai tempi del filosofo si pensava che l’intera vita fosse già predeterminata da Dio, che dava a essa un significato superiore e inevitabile.
Questo è proprio ciò che accade ai nostri androidi, che nascono con lo scopo ultimo di combattere per un “dio” che ha predeterminato la loro esistenza prima ancora della loro creazione. Eppure quel dio è morto, letteralmente, quindi cosa che significato hanno avuto le loro azioni fino a quel momento?
Nietzsche afferma chiaramente che siamo noi, con le nostre scelte, a dare significato alla nostra vita, non un essere superiore che non c’è, dato che è morto. Di fatto, andando oltre le nostre credenze religiose, possiamo affermare chiaramente che nessun dio interviene nei conflitti tra gli esseri umani.
https://www.youtube.com/watch?v=Egn_VNVKzI4
“Il futuro non viene assegnato. Bisogna prenderselo”
La stessa frase finale di Nier: Automata richiama questo concetto, affermando che dobbiamo essere noi a prendere in mano il nostro futuro e a dare un senso alle nostre azioni. Il messaggio della storia è chiaro e punta in modo evidente verso questa ideologia. Per valorizzare questo concetto, il gioco spesso toglie il significato a ciò che abbiamo appena fatto, dopo che l’azione è già conclusa, per costringerci a riconsiderare le nostre linee guida e a trovare un senso soggettivo a ciò che si è appena compiuto.
Persino la pacifica macchina Pascal richiama a questo, dato che cerca chiaramente di dare un significato personale alla propria esistenza, rifiutandosi di combattere (quindi, rifiutando di accettare il fine “superiore” che seguono 2B e 9S e perseguendo un senso personale alla sua vita) e scegliendo in autonomia, creando un significato per le sue azioni dopo la sua nascita nel mondo. Senza contare che in una scena la si vede chiaramente leggere un libro di Nietzsche, creando un riferimento esplicito al filosofo.
Secondo Nietzsche, infatti, la risposta alla consapevolezza che Dio è morto e che nessun significato superiore dà senso alla vita è proprio questa: occorre fare come Pascal, creare un significato per le nostre azioni da soli, poi, sempre in autonomia dobbiamo dare un senso alla vita, dato che nessuno lo farà per noi. Nessun essere superiore. Tutto questo è esattamente ciò che devono fare i protagonisti, dato che sono stati creati per uno scopo che non esiste più e che non è mai esistito fin dall’inizio del gioco. Nella storia di Nier: Automata, quindi, “dio” è morto in senso letterale e questo rende l’intera vicenda una grande lezione rivolta al giocatore e alla sua personalissima esistenza.
Tutto ciò, sia nel gioco che nella realtà, ha una sorta di effetto collaterale: noi abbiamo la responsabilità ultima delle nostre azioni. Questo significa che è stato il giocatore, insieme alla protagonista, ad uccidere le Biomacchine consapevolmente, per sua scelta, per poi scoprire che sono come gli umani. A questo punto l’utente cerca una giustificazione che però viene spazzata via, mostrando chiaramente che le azioni sono state una sua scelta.
Quello che ha fatto il giocatore è accettare tutto con un “sì” passivo, senza riflettere su ciò che stava accadendo. Lo facciamo in automatico con ogni gioco e alcune volte persino con la nostra vita (basti pensare all’ordine sociale in cui nasciamo, ai ruoli di genere, alla religione, ecc), accettando ciò che abbiamo davanti senza pensare a come potrebbe essere diversamente. In altre parole, prendiamo ciò che il passato ha messo sul piatto e lo accogliamo come unica realtà possibile.
Nier Automata ci mostra questo anche creando un certo significato durante la prima partita, rispondendo alle classiche domande che ci poniamo all’inizio di un conflitto in una storia (chi siamo? chi sono i nemici? per cosa stiamo combattendo?), e poi cancella quel significato all’inizio della seconda partita, facendoci controllare brevemente una Biomacchina che piange il fratello caduto, mettendoci nei suoi panni e facendoci provare empatia, per farci vedere chiaramente che i nostri nemici, in teoria solo armi, provano emozioni.
Durante la terza partita l’esistenzialismo di fondo diventa ancora più evidente. Scopriamo infatti che le unità YorHa sono state concepite per essere distrutte dopo un certo periodo di tempo e che sono state create solo per perpetrare l’inganno secondo cui gli umani vivono sulla Luna e motivare gli altri androidi sulla terra; infatti avrebbero dovuto combattere per essere completamente annientate da una falla nel loro sistema dopo un certo periodo di tempo. Anche questa è una metafora sulla vita, che è breve e passeggera.
Gli YorHa sono quindi stati creati per combattere una guerra senza senso, dato che il motivo di fondo della stessa è scomparso, e per essere distrutte al fine di far credere a tutti gli altri androidi che quel “dio” superiore per cui combattono esista ancora. Oltre a questo si viene a conoscenza che il loro “cuore”, ovvero la scatola nera, è composta in parte con la stessa struttura delle Biomacchine, e che quindi gli androidi stessi sono molto più simili al loro nemico di quanto credessero.
Ricapitolando: i nostri protagonisti sono stati creati per combattere una guerra insensata, contro un nemico che credevano privo di emozioni, e a cui sono molto simili; per lo scopo ultimo di essere annientati per perpetrare un inganno che possa far continuare la guerra che è lo scopo dell’esistenza di tutti gli altri androidi. Sembra assurdo. Che senso ha tutto questo? Che senso ha avuto tutto ciò che abbiamo fatto nel gioco dato che non ha portato a nulla, se non a morti non necessarie? E soprattutto, che senso ha l’esistenza di forme di vita (gli YorHa) create solo per essere distrutte?
Il fatto che i protagonisti siano stati creati solo per morire dopo una lotta senza senso è solo una metafora del ciclo di vita e morte in cui ci siamo anche noi. Siamo stati creati solo per morire dopo una vita di lotte che non hanno nessun fine “più grande”. Lo scopo ultimo della nostra esistenza è posto interamente sulle nostre spalle e, per alleggerire questo grande fardello, proiettiamo le nostre responsabilità verso un essere superiore che, di fatto, non abbiamo mai visto.
Ritorna il tema di tutta la storia di Nier: che senso hanno la nostra vita e le nostre azioni, dato che non sono giustificate da un fine superiore?
La risposta a questo grande quesito è nella conclusione dello stesso Nier, e in diversi momenti della storia, oltre che in questo articolo: siamo noi, e noi soltanto a dare un senso alla nostra vita e alle nostre azioni, nell’infinito ciclo di morte in cui siamo nati. Sono le nostre scelte a definire la nostra vita.
In fondo, vita e morte fanno parte di un ciclo infinito, anch’esso richiamato dal gioco: gli androidi YorHa possono morire e rinascere infinite volte, dato che fanno il backup della loro memoria sul server, che poi manda quei dati in un nuovo corpo, e la loro stessa esistenza è concepita per perpetrare un ciclo di vita e morte, che è il conflitto tra androidi e macchine. Quindi lo stesso respawn del gameplay nasconde il tema del gioco. Oltre a questo, una scelta particolare nei titoli di coda richiama nuovamente questo concetto.
Alla fine di Nier: Automata, infatti, abbiamo l’occasione di salvare 2B e 9S, ma per farlo occorre superare una parte “danmaku” molto difficile, dalla quale è impossibile uscire senza l’aiuto di altri giocatori, le cui navette vengono in soccorso per darci la potenza di fuoco necessaria a concludere la sfida. Tuttavia alla fine scopriamo che, per darci la possibilità di vincere, queste persone hanno sacrificato i loro salvataggi, i quali sono stati cancellati definitivamente per creare una delle navette che ci ha aiutato ad arrivare alla conclusione.
A questo punto ci viene proposta la stessa scelta: sacrificherai i tuoi salvataggi per aiutare un perfetto sconosciuto, che forse non ti ringrazierà mai, e che forse potrebbe anche esserti antipatico? Anche questa scelta di game design non è casuale.
Il senso di questo sacrificio è chiaro: sacrificarti a tua volta per gli altri continua il ciclo in cui sono inseriti tutti i giocatori di Nier: Automata, che finiscono il gioco per poi diventare la speranza di altri, in un ciclo infinito che durerà finché qualcuno giocherà il titolo.
Oltre al concetto di ciclo questa scelta pone anche un altro quesito: che senso ha videogiocare, per noi?
Lo facciamo per ottenere un “progresso” che poi ci viene riconosciuto una volta per tutte, solo per finire quel titolo e tenere i salvataggi come “trofeo”?
Oppure lo facciamo per vivere un’esperienza nuova, con la volontà di trovare una sfida, magari ripetendo un ciclo di morte causato dai nostri errori (in fondo, è quello che accade quando ritentiamo più volte un certo scenario di un dato gioco), ma che alla fine ci lascia qualcosa?
Nier: Automata rappresenta il viaggio, non soltanto la destinazione!
Il senso del gaming sta nel viaggio che facciamo, o soltanto nella gratificazione di ottenere la consapevolezza di aver finito il gioco?
Con questa proposta di sacrificare i salvataggi, Nier Automata vuole sottolineare come la cosa più importante sia il viaggio e l’esperienza, magari fatta di errori, e non l’ottenimento di qualcosa alla fine.
Lo stesso discorso si applica alla nostra esistenza. Ciò che conta è trovare un senso alla vita e godere del tempo che abbiamo qui ed ora, senza pensare a un obiettivo “in fondo al tunnel”. Forse Dio è morto davvero, o forse non c’è mai stato, forse non c’è un bene superiore o una vita dopo la morte, quindi sta a noi scegliere cosa fare con la nostra esistenza, di cui abbiamo la responsabilità ultima.