Bentornato all’ultima tappa di Nintendo Unplugged, questo viaggio in tre puntate nella storia centenaria del colosso di Kyoto! Nel primo episodio abbiamo narrato delle origini di Nintendo a fine ‘800, mentre nel secondo ci siamo soffermati sul passaggio di potere a Hiroshi Yamauchi, che ha portato aria di cambiamento nella compagnia trasformandola da una casa produttrice di carte da gioco a un’affermata azienda di punta nell’industria dei giocattoli. Ma quando sarebbe arrivato l’ultimo passaggio, quello dedicato ai videogiochi? E quando sarebbe entrato in gioco Shigeru “il papà di Mario” Miyamoto? Non scalpitare, pellegrino: stiamo per scoprirlo.
“But they soon zeroed in on games, like the Game & Watch and Color TV…”
Le invenzioni ludiche, in casa Nintendo, continuavano a venire alla luce, come il Ten Billion Barrel, antesignano del cubo di Rubik in salsa matematica, l’Ultra Machine che lanciava con una piccola catapulta le palline da ping pong al suo interno (rivisto nel primo WarioWare come boss dello stage di 9-Volt) e il periscopio giocattolo chiamato Super Scope, riproposto nella serie Super Smash Bros. come mitraglietta laser. In tutto questo, il semino piantato da My Car Race iniziò a germogliare, amplificando la presenza dell’elettricità nelle creazioni di Nintendo.
Mentre Yokoi era al lavoro sulle proprie creazioni, Nintendo strinse un accordo con un colosso dell’industria elettronica: stiamo parlando di Sharp Electronics, che concesse alla Grande N l’utilizzo delle proprie fotocellule. La collaborazione tra Yokoi e Masayuki Uemoura di Sharp diede alla luce il progetto “Beam Gun Games”, ovvero un ignaro prototipo della periferica “bellica” del primo Nintendo Entertainment System: la pistola NES Zapper.
Il giocattolo, manco a dirlo, è stato rivisitato anch’esso nella serie WarioWare sotto forma di ennesimo minigioco. Questo innovativo gadget presentava due varianti: una in cui il bersaglio era un cowboy (da cui il minigioco in questione), e un’altra dove bisognava sparare a un leone. In entrambi i casi, la pistola conteneva un laser, captato dai bersagli attraverso una cellula fotosensibile. Poco sorprendentemente, un’idea tanto innovativa seppe accattivarsi una buona fetta di pubblico, tanto da soppiantare l’allora enorme popolarità delle sale da bowling.
Le grane vennero con una crisi petrolifera nel 1973, che ebbe ripercussioni gravi sull’economia dell’intero Giappone. Nintendo, ovviamente, non faceva eccezione, ma per contestualizzare il successivo colpo di genio di Yamauchi dovremmo fare qualche piccolo passo indietro. Per la precisione, dovremmo tornare indietro di cinque anni, portando i nostri riflettori in occidente.
Era il 1968 quando l’ingegnere Ralph Baer mise a punto una straordinaria invenzione, dall’apparentemente ordinario nome di Brown Box. Questo dispositivo elettronico poteva venire collegato ai televisori per dare vita a simulazioni sportive approssimative, quasi astratte: poca roba, oggi, ma di certo non ai tempi della protesta studentesca. Non stiamo parlando di una “scatola marrone” qualsiasi, ma di quella che era a tutti gli effetti la prima console della storia, per quanto l’opinione comune attribuisca questo primato al Pong creato da Nolan Bushnell prima della fondazione di Atari. Ad ogni modo, la versione definitiva di Brown Box fu commercializzata da Magnavox nel 1972, dopo aver acquistato i diritti da Baer.
Tre anni dopo, Hiroshi Yamauchi contattò Magnavox per stringere un accordo mirato a commercializzare l’Odyssey in Giappone (in seguito a un numero modesto di vendite in occidente), sancendo così ufficialmente il debutto effettivo di Nintendo nell’industria videoludica sebbene solo in qualità di distributore. Il lampo di genio a cui si era alluso qualche riga fa, però, si sarebbe concretizzato quando la scintilla di ambizione tipica di Hiroshi Yamauchi lo convinse a creare una vera e propria console casalinga targata Nintendo, rifacendosi alle idee già valide dell’Odyssey per creare qualcosa di nuovo. I frutti si videro nel 1977, dove l’unione tra il genio creativo di Gunpei Yokoi per i contenuti, l’assunzione di alcuni dipendenti della Sharp Electronics e l’efficienza di Mitsubishi per quanto concerne l’hardware diede alla luce il Color TV Game 6, la prima console “made in Nintendo” a tutti gli effetti.
Per quanto stiamo ancora parlando di una “macchina da Pong”, in realtà il “Light Tennis” creato da Nintendo per il suo Color TV Game 6 mostrava da subito qualcosa di nuovo: i colori, per la precisione quattro. In quanto al numero sei presente nel nome della console, quest’ultimo è dovuto alla quantità di varianti dello stesso gioco presenti nell’hardware. Nintendo in seguito bissò il successo con il Color TV Game 15, che si distinse non tanto per i quindici diversi tipi di tennis presenti, bensì dalle manopole presenti sulla console.
Il cambiamento successivo, però, sarebbe stato più incisivo: con il Color TV Racing 112, avremmo avuto il primo, vero gioco inedito di Nintendo – un gioco di guida con visuale dall’alto, anch’esso ripreso, manco a dirlo, in WarioWare. Ma è solo con il Color TV Game Block Kuzushi, e con l’apparentemente insignificante clone di Breakout/Arkanoid al suo interno, che sarebbe entrato a far parte di Nintendo un programmatore destinato a diventare una leggenda, un certo Shigeru Miyamoto, che a distanza di pochi anni avrebbe dato vita al personaggio baffuto più iconico della cultura popolare.
La serie dei vari Color TV Game riuscì nel suo complesso a superare il milione di copie vendute, ma nel 1980 fu Gunpei Yokoi ad avere un’intuizione folgorante prima ancora di Yamauchi. Galeotto fu, a quanto pare, l’incontro fortuito con un passeggero di un mezzo pubblico intento a giocherellare con i numeri della propria calcolatrice. La domanda retorica fu rapida: “e se anziché dei semplici caratteri alfanumerici, si usasse la stessa tecnologia per mostrare sagome più definite”? A rispondere al monologo interiore di Yokoi fu, lo stesso anno, un dispositivo mirato a svolgere due funzioni: fornire l’orario, e permettere all’utente di giocare. Era nato il Game & Watch, la prima console portatile della storia.
Di Game & Watch si può dire di tutto e non dire niente, e credo di essere già stato abbastanza prolisso fino ad ora. Basti ricordare che si presentarono le varianti più disparate dell’hardware, dal più semplice Ball a giochi più complessi come un port di Donkey Kong comprensivo di due schermi (decenni prima di Nintendo DS) o un gioco di hockey comprensivo di due microscopici controller cablati. L’eredità dei Game & Watch oggi sopravvive in due modi: nel male, come esempio di videogiochi portatili con tecnologia di bassa lega, economici e, nel 90% dei casi, scadenti; nel bene, invece, attraverso il personaggio Mr. Game & Watch nella serie Super Smash Bros., le cui abilità omaggiano l’intera famiglia di questa piccola rivoluzione.
“… in ’81, they made Donkey Kong, and the rest is history”
Per concludere questa lunga storia, dopo un’ultima citazione a The History Of Nintendo dobbiamo ancora fare un piccolo passo indietro, per la precisione nel 1977. Il sogno di Shigeru Miyamoto, allora fresco di università, era quello di progettare giocattoli. Hiroshi Yamauchi, dal canto suo, era però già coinvolto pienamente nel mercato videoludico, e aveva già intenzione di sfruttarne il talento in questa nuova avventura aziendale. Come ben sappiamo, mai scelta fu più azzeccata.
A differenza dei precedenti cabinati di Nintendo, prevalentemente di natura meccanica (pensa al gioco della gru), i nuovi macchinari come Sheriff (noto oggi come Assistente micidiale in Super Smash Bros. Ultimate) e Radar Scope miravano a competere con Taito, che al tempo aveva rivoluzionato le sale giochi con Space Invaders. Il reparto di ingegneria di Nintendo ancora non era uno studio di sviluppo videoludico, così l’azienda si rivolse ad Ikegami Tsushinki, che accettò di lavorare per Nintendo sia a livello hardware che a livello software. La Grande N, dal canto suo, si sarebbe occupata di creare la scocca dei cabinati e occuparsi del marketing: uno scambio equo.
L’unico problema consisteva nella discrepanza tra il successo plateale riscosso da Nintendo in Giappone e la preferenza del pubblico americano per Taito e Namco, una fetta di pubblico che Yamauchi, ambizioso e affamato di sfide, non intendeva lasciarsi sfuggire. Purtroppo, nemmeno le difficoltà incontrate da Nintendo nel produrre abbastanza unità di Radar Scope per l’America vennero ricompensate adeguatamente: il gioco fu un flop, vendendo solo 1000 cabinati. Le uniche due opzioni erano arrendersi o convertire quei cabinati in qualcosa di vendibile. Ed è con la seconda possibilità che entrò in gioco Miyamoto.
Dal nulla ecco che Shigeru Miyamoto, artista da sempre, si ritrovò di colpo dal disegnare personaggi per i cabinati al creare un videogioco. Anche qui l’intuito di Yamauchi si rivelò provvidenziale: era talmente sicuro del suo potenziale e della sua fantasia da rassicurarlo, asserendo che la sua mancanza di esperienza nel game design non sarebbe stata affatto un problema. Per fortuna di Miyamoto stesso, quest’ultimo avrebbe avuto dalla sua l’aiuto di Ikegami Tsushinki e Gunpei Yokoi.
Era un primato in ogni senso: il primo gioco creato da Miyamoto, il primo gioco progettato interamente da Nintendo e il primo a non fare leva sui sogni di gloria del giocatore. In altre parole, Nintendo videoludica evitò di puntare sull’aspetto “figo” dei videogiochi sin da subito, in quanto Miyamoto volle piuttosto riversare in questo nuovo gioco il suo amore per le strisce a fumetti americane e dare vita ad un titolo quanto più “fumettoso” possibile.
Persino il fatto che si iniziasse a parlare di personaggi con personalità individuali era un concetto fondamentalmente nuovo. E infatti il gioco avrebbe dovuto trattare del triangolo amoroso tra Braccio di Ferro, Olivia e Bluto. Dal momento che gli accordi con King Features Syndicate non andarono in porto, il triangolo rimase, ma venne applicato a uno scenario in stile King Kong: un gorilla provolone rapisce la prima ragazza che trova, quella del carpentiere impersonato, e la porta in cima a un palazzo in costruzione.
Il ragazzo non ci sta e parte all’avventura, per sconfiggere quello che doveva chiamarsi in origine Monkey Kong, per poi venire storpiato in Donkey, cioè “asino”, per enfatizzare sullo scenario assurdo e goffo che, nella sua semplicità, riuscì a fare quello in cui qualunque altro gioco dell’epoca avrebbe fallito: raccontare una storia in mezzo alla sala giochi.
Il fatto di saltare, in un videogioco, non era certo una novità, ma non era mai stato tanto importante come in Donkey Kong. Il giocatore doveva saltare continuamente barili e altri ostacoli in movimento, per arrivare in cima al palazzo e salvare la sua bella. Un concetto innocuo, ingenuo e semplice, ma capace di fare breccia nel cuore di tutti. Una breccia che aprì anche i vari borsellini dei giocatori, mettendo Nintendo definitivamente sulla mappa dei giganti della storia videoludica. Il resto, però, è storia: una storia che sanno bene o male tutti, ma che è bello scoprire come una continuazione di qualcosa nato un secolo prima, tra la perseveranza di un artigiano e una mano fortunata offertagli dal destino.
Se vuoi leggere il viaggio della storia Nintendo dall’inizio, clicca qui. Se invece ti sei perso la seconda puntata, siamo qui per questo! È stato un vero piacere averti a bordo: ci vediamo al prossimo viaggio nel tempo!
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