Decidere cosa giocare, si sa, non è così semplice come può sembrare a prima vista. Sebbene il nostro impulso primario sia quello di cercare sempre nuove esperienze, a volte ad imporsi è il richiamo verso qualcosa di già conosciuto, un ritorno al passato che però, spesso, può riservare alcuni elementi di assoluta novità.
Nei giorni scorsi, non sentendomi pronto per affrontare mondi o tipi di gameplay a me completamente estranei, ho deciso di rigiocare la Crash Bandicoot N. Sane Trilogy. Si tratta di tre titoli con i quali sono cresciuto e che conosco nel profondo, ideali per evitare quell’impegno che accompagna sempre l’inizio di un percorso sconosciuto, a favore invece del comfort offerto da un’esperienza già vissuta in precedenza. Nonostante la mia familiarità con le prime tre avventure della storica icona anni ’90 (giocate e rigiocate nel corso degli anni), però, un elemento di novità ha comunque finito per trovare il modo di far breccia in quella che altrimenti sarebbe stata una semplice ripetizione del passato.
Per la prima volta infatti, non contento di portare semplicemente a termine i giochi (collezionando, comunque, tutto il necessario perché si potessero definire completati al 100% e oltre), ho deciso di cimentarmi in una sfida che in passato avrei definito superflua ma che ora, come a suggellare il mio legame con questi tre classici, ho invece deciso di tentare: l’ottenimento delle reliquie di platino in tutti i livelli dei tre giochi, in particolar modo dei primi due, che ne erano sprovvisti al tempo della release originale.
Inutile dirlo, è stata un’impresa decisamente ardua, con picchi di difficoltà improvvisi e che ha richiesto un approccio notevolmente diverso a quei livelli altrimenti così ben conosciuti, arrivando spesso a vederli sotto una luce completamente nuova. Tanta la soddisfazione provata a impresa conclusa, ma ad emergere è stata soprattutto la consapevolezza di essersi cimentati in un’esperienza che, pur essendo costruita su di una base ben nota, apparisse come inedita e mai vissuta prima, nonostante fosse sempre stata in larga parte sperimentata, accessibile e a portata di mano.
Portare a termine, completismo e… oltre?
Con i videogiochi capita spesso che il concetto di “fine” si presti a molteplici interpretazioni. Potrebbe combaciare con la conclusione della storyline principale (quella cui seguono i titoli di coda, per intenderci); o con il completamento al 100% (e oltre, in alcuni casi), che comporta il fare esperienza di tutti i contenuti offerti dal gioco fino a quando questi, almeno sulla carta, finisce di “dirci quel che ha da dire”; o ancora casi in cui la fine risulta semplicemente inesistente, corrispondendo più che altro al momento in cui ci dichiariamo soddisfatti dell’esperienza complessiva, che può così definirsi conclusa, e riteniamo di essere pronti per passare a qualcos’altro.
Nel caso della mia esperienza con la Crash Bandicoot N. Sane Trilogy, come dicevo, ho ritenuto opportuno spingermi oltre la normale conclusione del gioco ed il suo completamento, ricercando piuttosto un livello di sfida aggiuntivo. Ma esattamente da cos’è che dipende questo slancio “straordinario”?
Quand’è che ci sentiamo catturati a tal punto da un gioco, da essere spronati a cercare qualcosa in più al suo interno, arrivando persino a rigiocarlo per intero? Quando, invece, ci basta solo saziare la nostra curiosità per ritenerci soddisfatti, senza avvertire il bisogno di dedicare altro tempo al titolo che abbiamo davanti? Sebbene solitamente sia la struttura stessa dei giochi a consigliarci e indurci a “insistere”, a volte sono le nostre preferenze personali a determinare il tipo di esperienza che si andrà a ricercare e, di conseguenza, vivere.
Un buon punto di partenza è chiedersi da cosa deriva la nostra soddisfazione con un videogioco. Dopotutto, quello col videogiocatore non è un rapporto unidirezionale, dove insomma sono le qualità intrinseche dei giochi a fare tutto il lavoro. Piuttosto, gran parte della natura dell’esperienza videoludica è strettamente legata alla gratificazione che si prova nel viverla, agli effetti scaturiti su chi gioca. Quando sentiamo che un contenuto “fa per noi”, quando si crea un certo senso di appartenenza, ecco che si manifesta il desiderio di approfondire.
È su questo legame che si poggia, per esempio, la natura stessa dei contenuti secondari, una definizione che troppo facilmente si presta ad essere fraintesa e ridotta alla sua accezione negativa di non necessità e superfluità. In realtà però, quando eseguito a dovere, quel legame ristabilito e rinnovato costituisce l’occasione perfetta per approfondire il mondo narrativo di un dato gioco, presentando variazioni sul tema altrimenti impossibili o comunque non particolarmente adatte alla storyline principale. Quando invece un contenuto secondario viene ripetuto fino allo sfinimento, fungendo perlopiù da riempitivo, limitandosi a riproporre (peraltro in chiave più debole) quanto già visto nella storia principale, si può essere certi del fatto che non valga il proprio tempo.
L’ideale per un contenuto secondario dovrebbe essere quello di ampliare l’esperienza e aggiungervi varietà, e non di diluirla fino a renderla insapore. In questo caso, la secondarietà della sua natura fa riferimento ad un tipo di approfondimento che avviene in seguito, che beneficia proprio del suo arrivare dopo (in un secondo momento, appunto), ed è così definito per la sua forma e per il tipo di fruizione che suggerisce, più che per il suo impatto, assolutamente da non sottostimare.
In questo senso è importante considerare i contenuti secondari non tanto come superflui e derivativi per importanza, quanto piuttosto opzionali, ovvero messi a disposizione di chi vuole percorrere quel famoso passo in più. Possono presentarsi sotto forma di sfide aggiuntive per i più temerari, che variano sul tema e lo portano all’estremo (pensiamo alle B-sides e C-sides di Celeste), oppure apparire come delle occasioni per fare un racconto più piccolo all’interno di un mondo vasto, rendendolo così più dettagliato, completo e credibile (pensiamo alle missioni secondarie di Dishonored, che spesso ruotano attorno ai problemi della gente comune di Dunwall).
Insomma, chi vuole addentrarsi più in profondità è libero di farlo: ad attenderlo troverà quasi sempre nuove esperienze, indipendentemente dal genere di gioco che si troverà davanti.
Approfondire tra maestria…
Se si prendono in considerazione i giochi fortemente skill based, a venire subito in mente è il concetto di maestria. Con questo termine possiamo intendere il raggiungimento di un livello di abilità tale da padroneggiare pienamente tutte le mosse a disposizione del nostro personaggio ed il superamento senza alcuna (o quasi) difficoltà degli ostacoli che un gioco può pararci dinanzi.
Ovviamente, raggiungere un certo livello di maestria richiede tempo e dedizione, ed è per questo motivo che diventa particolarmente importante per il giocatore sentirsi stimolato nel perseguire un dato obiettivo: dinanzi all’assenza totale di sfida, o al contrario ritrovandosi ad avere a che fare con dei livelli di difficoltà troppo estremi e/o ingiustificati (che, più dell’abilità, sembrano voler testare la pazienza…), chi ha il pad alla mano non avrà motivo di continuare ad investire il proprio tempo in un’esperienza che non offre nulla di gratificante.
Qualora l’ostacolo incontrato dovesse invece dimostrarsi ben calibrato e portatore di una sfida stimolante, ecco allora che si manifesterebbe apertamente il desiderio di continuare a giocare per perseguire un nuovo obiettivo, percepito stavolta come alla portata delle proprie abilità. È proseguendo su questa strada che infine si arriva a quello “stato di grazia” in cui sembra quasi che sia il gioco a piegarsi al volere di chi gioca, e non più il contrario.
Curiosamente, è proprio in questo tipo di titoli che spesso il livello di maestria viene raggiunto ben oltre la normale conclusione degli eventi di gioco, palesandosi piuttosto nel corso delle run successive. Il miglioramento delle proprie abilità attraverso la ripetizione è, dopotutto, uno dei maggiori punti di forza dei generi roguelike e roguelite. Col pretesto di una nuova run, ecco che si ha occasione di tentare molteplici approcci diversi, finendo col diventare, tentativo dopo tentativo, sempre più abili ed esperti.
Anche gli hack ‘n’ slash con sistema di rating (come Devil May Cry o la stragrande maggioranza dei titoli PlatinumGames) ripongono gran parte della loro attrattiva nella ripetizione: se la prima avventura costituisce l’occasione perfetta per prendere dimestichezza con i comandi e godere senza troppo impegno della trama del gioco, nelle run successive il punto non è più tanto fare piazza pulita dei nemici per proseguire, quanto piuttosto riuscire a “farlo con stile”, tentando e ritentando fino ad ottenere il rating più elevato possibile, premio tangibile per la conoscenza che si ha del gioco.
Strettamente legata tanto al concetto di rigiocare quanto a quello di maestria, è la speedrun. Anche in questo caso, dopo aver fatto esperienza del gioco in modo piuttosto lineare, attraverso la speedrun emerge per molti titoli una sorta di seconda natura nascosta, accessibile solo piegando al massimo le regole stabilite dal gioco stesso, che arriva così ad offrire un’esperienza completamente nuova.
Sebbene in teoria sia possibile cimentarsi nella speedrun di qualsiasi gioco, questa è particolarmente apprezzabile laddove siano gli stessi titoli – chi più chi meno – a suggerire attivamente di abbracciare questo approccio, magari attraverso ricompense tangibili in-game, come gli artwork per i giochi della serie Metroid, o le stesse reliquie di Crash Bandicoot.
Si potrebbero elencare tanti altri casi di questo tipo, ma più interessante è invece rimarcare ancora una volta come ad accomunare tutti questi diversi approcci ci sia proprio la secondarietà. Queste esperienze aggiuntive, sebbene per molti costituiscano la vera anima di certi giochi, non costituiscono mai (o quasi) il primo contatto con essi. Piuttosto, hanno ragion d’essere proprio in quanto possibilità messe a disposizione di quei giocatori che la sfida non solo la cercano, ma la scelgono.
Possibilità quindi, e mai imposizioni. Qualora non si manifestasse alcuna attitudine ad approfondire, si potrà fare comunque esperienza del gioco senza mai scavare oltre la superficie. Chi è interessato a seguirne solo la trama o è curioso di scoprire come va a finire potrebbe ritenersi comunque soddisfatto senza per questo avere la sensazione di essersi perso qualcosa di “imperdibile” o aver vissuto un’esperienza di serie B rispetto a chi quella possibilità sceglie di coglierla.
…e immersione
Se un certo livello di sfida può spingere i giocatori a investire più tempo su determinati titoli, per altri un simile slancio può essere scaturito dalla necessità di approfondire il mondo di gioco da un punto di vista prettamente narrativo, talvolta arrivando a suggerire, anche in questo caso e per ragioni tanto diverse quanto affini, molteplici run.
Difficile non pensare a questo punto ai giochi che presentano bivi, situazioni dove le scelte effettuate si dimostrano in grado di influenzare lo sviluppo della trama nei modi più disparati. Attenzione però, perché l’esistenza di uno o più finali alternativi, per quanto valido, spesso si rivela non essere un motivo sufficiente a spingere un giocatore a ripetere un’intera avventura che si dispiega in maniera identica alla precedente, specialmente se questa si è da poco o appena conclusa. È necessario che le varie scelte influiscano sulla narrazione in corso d’opera, sull’intero viaggio e non solo sulla sua meta, rafforzando così la sensazione di aver vissuto due esperienze nettamente diverse.
Anche la presenza di un morality system con effetti evidenti e tangibili sul mondo di gioco può spingere a rivisitare un titolo, tentando però un approccio differente rispetto a quello perseguito la prima volta. Così come delle missioni secondarie propriamente dette, una seconda run è in grado di espandere l’universo narrativo, permettendo di osservarlo sotto una prospettiva diversa, introducendo situazioni precedentemente inaccessibili e finendo col rispondere anche a quell’irrealizzabile curiosità che si prova al pensiero di vivere più di una sola vita.
È evidente quindi come, anche avendo a che fare con giochi molto diversi fra loro, la necessità di approfondire emerge quando si ha la possibilità di aggiungere varietà alla propria esperienza, arrivando ad acquisire, talvolta grazie a più run, una padronanza quanto più completa degli aspetti ludici e/o narrativi di un certo titolo. A fare da molla a questa ricerca è, e a questo punto non dovrebbe stupire, la continua ricerca di novità.
Non per tutti
Come mai però, se fino ad ora se ne è dipinto un quadro così ottimistico e invitante, non tutti i giocatori scelgono di scavare più a fondo? Se la varietà e le novità costituiscono un richiamo così forte per molte persone, perché non arrivano ad essere attrattive universali, nonostante la presupposta bravura dei game designer nel suggerirla direttamente ai giocatori?
La risposta si cela in un limite di natura umana. Il raggiungimento di un certo livello di maestria, ad esempio, può essere ostacolato da quelle che sono le semplici preferenze di una grossa fetta di giocatori che, nel tempo che decide di dedicare ai videogiochi, preferisce rilassarsi senza troppo impegno. In questi casi, la prospettiva di automigliorarsi calandosi in sfide sempre più ardue, semplicemente, non offre alcun motivo d’interesse.
Non è solo l’approccio ludico a presentare limiti di questo genere. In un titolo dove siamo portati a prendere delle scelte con un impatto sulla narrativa, che nulla hanno a che vedere con il livello di sfida richiesto, potrebbe presentarsi un altro tipo di ostacolo: il distacco.
Per quanto cimentarsi in seconde run con diverse scelte morali possa offrire ad alcuni giocatori un grande stimolo ad approfondire il mondo narrativo testando al contempo i limiti della propria empatia, per altri le scelte effettuate rispecchiano a tal punto la propria visione delle cose che l’idea di “tradirle” in una seconda avventura nuova, ma nella quale non è possibile immergersi alla stessa maniera, diventa fuori questione. Come biasimarli, del resto, quando sono gli stessi giochi a invitarci a decidere più col cuore che con la testa?
Una fine
Siamo giunti alla fine (ha!) e, nonostante siano state proposte delle risposte alle domande che hanno generato questo articolo, nessuna di esse può valere allo stesso modo per tutti i tipi di giocatori esistenti.
Piuttosto di additarlo come difetto, magari imputabile alla natura stessa del videogioco o dei videogiocatori, è invece stimolante considerare questa mancanza di assoluti come una dimostrazione tangibile della versatilità che domina il rapporto tra le due parti. È quasi come se nel videogioco ci fosse sempre (o quasi) una tendenza al compromesso, una volontà a trovare un punto d’incontro ideale per la persona che si ritrova ad interagire con esso, raggiungibile solo grazie al dialogo tra le due parti reso possibile dall’interattività stessa che lo caratterizza; un approccio, questo, spesso impossibile con altre forme d’intrattenimento.
E poi chissà, una volta trovato il proprio equilibro, a chi gioca potrebbe venir voglia di scavare un po’ più a fondo. Il bello è proprio questo, no? La porta è sempre aperta, aspetta solo che qualcuno decida di attraversarla.