Il recente annuncio di Return to Monkey Island ha immediatamente catturato l’attenzione di milioni di fan rimasti a bocca asciutta per molti, troppi anni. È soprattutto il coinvolgimento diretto di Ron Gilbert, autore dei primi due leggendari capitoli, a costituire il punto di maggiore interesse per i giocatori di vecchia data. Leggere quel nome, infatti, ha subito fatto crescere le speranze per un ritorno della serie ai fasti di un tempo, oltre a rievocare l’immancabile nostalgia.
Quello che per alcuni è un semplice nome, dunque, per altri è una tacita promessa: quella di poter tornare a provare le stesse emozioni, immutate o addirittura intensificate, che The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge furono in grado di suscitare in loro. Ma è davvero possibile?
Good old days
Viviamo in un’epoca caratterizzata da un costante ritorno al passato, dove remake e remastered sono all’ordine del giorno e i reboot promettono di dare “nuova vita” a franchise che, nel corso degli anni, ne hanno provate di ogni. È un’epoca dove la nostalgia verso un passato più lieto regna sovrana, e il desiderio di riprovare sensazioni ormai perdute da tempo si fa sempre più incessante. Consapevoli di ciò, le aziende cercano dunque di venire incontro ai fan, restituendo loro quanto più ardentemente sembrano volere: ritornare, giocando, agli stessi anni in cui avvenne il colpo di fulmine.
Sebbene si tratti di un sentimento diffuso in tutti i settori dell’intrattenimento, è forse nei videogiochi che questa tendenza si manifesta con maggior forza. Se si considera la velocità con cui si succedono le trasformazioni tecnologiche, da cui dipende l’evoluzione di hardware e software, ecco come, nel giro di pochi anni, l’aspetto di un videogioco ed i contenuti che questi è in grado di offrire possono cambiare enormemente.
I 5-6 anni di vita di una generazione possono sembrare pochi, pochissimi se si considera che ciò che hanno offerto potrebbe non tornare più, lasciando solo un ricordo indelebile in quei “fortunati” che hanno avuto modo di vivere nello stesso momento storico, ed ecco perché emerge con dirompenza la necessità di mettere un punto fermo a qualcosa che sembra sfuggire al nostro controllo.
L’ironia del ritorno al passato
Quando una compagnia videoludica decide di rimettere mano ad una vecchia IP per realizzarne un remake o una remastered si tratta sempre di un’operazione commerciale dai molteplici intenti. Da un lato, promette di restituire ai vecchi fan esattamente le stesse sensazioni che provarono un tempo, svecchiando e rimodernizzando il comparto tecnico dei titoli che tanto hanno amato; dall’altro, costituisce un’occasione per sondare il terreno, scoprendo così nuovi potenziali interessati ad un’eventuale rinascita del franchise, essenziali per determinare se finanziare (o meno) la realizzazione di nuovi giochi di una data serie. Come ha dichiarato lo stesso Gilbert:
“Volevamo realizzare un Monkey Island davvero ben fatto e autentico, qualcosa che potesse davvero soddisfare la sete dei giocatori per una nuova avventura. Ma eravamo anche estremamente consapevoli del fatto che, probabilmente, ci sono molte più persone al mondo che non hanno mai giocato a Monkey Island ma ne hanno solo sentito parlare. Volevamo creare qualcosa che fosse loro accessibile in modo che potessero entrare facilmente nel mondo di Monkey Island senza sentirsi estranei nel momento in cui iniziano il gioco. Questi sono aspetti della storia e del design davvero importanti, di cui ci siamo occupati.”
Ecco quindi che comincia a rendersi evidente una certa ironia che permea, più o meno, tutte le operazioni di questo tipo.
Pur trattandosi di produzioni veicolate e rese possibili da un forte senso nostalgico, queste finiscono sempre con l’ottenere un maggior seguito proprio tra i neofiti, coloro cioè a cui quella nostalgia non appartiene ma da cui non vogliono sentirsi esclusi (una vera e propria nostalgia verso un passato mai vissuto), piuttosto che ai nostalgici propriamente detti che, pur apprezzando il ritorno di certi volti noti, finiranno spesso e volentieri per preferire invariabilmente le loro versioni originali, quelle con cui è avvenuto il primo impatto, con cui sono cresciuti, e che hanno reso “inarrivabili” nella loro memoria. La “prima volta”, del resto, oltre a essere unica è anche irripetibile.
Tradizione e innovazione
Ripetere il passato così come ce lo si ricorda è, semplicemente, impossibile. Cambiano i tempi, cambiano i giochi e, soprattutto, cambiamo noi videogiocatori: i nostri ricordi non costituiscono una fotografia precisa del passato, quanto piuttosto una sua versione che scegliamo di raccontarci nel tempo, giorno dopo giorno. Non per questo però la nostalgia dovrebbe essere intesa come un sentimento assolutamente negativo. Quando non diventa frustrazione e si discosta dalla volontà disperata di rivivere il passato comprendendone l’impossibilità, diventando invece il motore necessario che spinge a recuperare ciò che è stato perduto nel tempo, declinandolo a nuova vita, ecco che ne emerge qualcosa di davvero originale.
Se si pensa a Shovel Knight di Yacht Club Games, ad esempio, è subito evidente la diretta ispirazione all’era 8 bit: lo stile grafico in pixel art, la mappa à-la Super Mario Bros. 3, la meccanica pogo recuperata da Ducktales, l’istantaneità degli action platform come Castlevania e boss e livelli tematici sulla falsariga di Mega Man. Si tratta di un titolo che dal passato ha sì attinto a piene mani, ma non esattamente in modo fedele.
Limando tutti quegli aspetti figli del loro tempo (difficoltà artificiale su tutti) e riconfigurando il tutto secondo una filosofia di design decisamente più moderna, ha finito col dimostrare che rinnovare l’interesse verso una tipologia di giochi da molti ritenuta superata, se non addirittura antiquata, era invece possibile.
Sono gli stessi motivi che rendono Crash Bandicoot 4: It’s About Time un seguito assolutamente meritevole di attenzione. Dopo aver risvegliato l’interesse verso il marsupiale con la remastered dei primi tre capitoli, Toys for Bob, tenendo bene in mente quali fossero i punti di forza di quei classici tanto amati, ha infuso il nuovo gioco con una marea di idee innovative senza contraddire la tradizione ma, anzi, portandola avanti in una nuova direzione, dandole nuova linfa vitale.
Lasciar andare
Con la nostalgia è bene scendere a patti il prima possibile. Per quanto bello possa essere stato il passato, non bisogna far sì che questo si fossilizzi e ci tenga ancorati a discapito di qualcosa di davvero innovativo, che è bene lasciar andare per la sua nuova strada.
Il cambiamento, specie se graduale e portato avanti nel tempo, è sinonimo di evoluzione e crescita. È un po’ come quando si vede un amico per la prima volta dopo molto tempo: le situazioni e l’età cambiano, ma la scorza dura, quella che ci permette di riconoscere quell’amico come tale, persiste.
E poi, se proprio dovesse emergere l’impellenza di un viaggio nella memoria, i capolavori di un tempo saranno sempre lì dove li abbiamo lasciati: nel passato.
Se penso al mio rapporto con il passato non può che venirmi in mente la figura del gatto. Così come il gatto si allontana dalle mura domestiche, va a farsi un po’ di giri e poi, quando se la sente, torna a casa, così anche io faccio col passato. Ogni tanto mi allontano un po’, non perché abbia qualcosa da dimenticare, anzi, ma per l’esatto opposto: per far sì che il ricordo non svanisca mai. Mi faccio un po’ di giri, aggiungo nuove persone e nuovi ricordi alla mia collezione antropologica, e poi torno a casa. D’altronde, non si chiude mai davvero con qualcuno o qualcosa.