La nostra macchina del tempo di Old But Gold ci riporta di nuovo indietro nel tempo. Abbiamo rinunciato volentieri alla patata bollente di un titolo in tema con Halloween (non avrei saputo di che parlare), in favore di una spada di Damocle ancor più onerosa: il centesimo episodio del nostro speciale. Poi, grazie ad un vecchio amico della redazione, ho ricordato uno dei romanzi più terrificanti di sempre: 1984. Quest’annata, oggigiorno meglio nota per la campagna di Fortnite contro Apple, nel mondo reale ha visto la pubblicazione di un titolo oggi forse anche troppo poco noto. Parliamo di Boulder Dash.
Di questi tempi, il ritorno di Boulder Dash viene accompagnato dall’occasionale commento del tipo “ah, sì, ma è ancora in giro?”. La semplicità di un gioco a cavallo tra il debutto di Mario in Donkey Kong e il suo secondo lavoro da idraulico in Mario Bros. porta i più a sottovalutare l’appeal di un gioco dalla premessa di gameplay tanto semplice, ma in realtà c’è qualcosa di affascinante nel semplice atto di raccogliere diamanti in una miniera. Se poi contiamo i pericoli che in miniera cercano di ucciderci a piè sospinto, avviene la magia: abbiamo trovato un pretesto per agganciarci ad Halloween.
La roccaforte di Rockford
Partiamo da una piccola chicca. Il titolo del gioco, Boulder Dash, potrebbe farci pensare alla “corsa dei massi”, ovvero “caduta massi”. Per quanto appropriato, in realtà la spiegazione è molto più astrusa (o, per un anglofono, più semplice): si tratta di un gioco di parole su “balderdash”, traducibile in italiano come “baggianate”. Non sappiamo se l’omonimo livello (segreto) del primo Crash Bandicoot si basasse sulla stessa battuta, ma non ci sorprenderemmo se invece l’ispirazione fosse un gioco indubbiamente degno del trattamento Old But Gold.
Non possiamo propriamente parlare di trama, ma il sito ufficiale del gioco ci permette di raccontare la storia del suo sviluppo. Dobbiamo questo grande classico “facile da apprendere ma difficile da padroneggiare” alla collaborazione tra Peter Liepa e Chris Gray, entrambi canadesi. Il prototipo ancora incompiuto coinvolse Richard M. Spitalny, il presidente dell’editore newyorchese First Star Software, al punto tale da venderlo così. Scoprire che uno dei più grandi classici per Atari e Commodore 64 era in realtà quella che il lessico contemporaneo definirebbe una beta, in realtà, spiega tante cose.
Al di là della presenza di caverne contrassegnate con le lettere dell’alfabeto anglosassone “solo” fino alla P, la mancanza di una sorta di back story per il protagonista dà credito a un ciclo di sviluppo ben lontano dai travagli che siamo abituati a vedere oggi. A differenza dei titoli del tempo, l’aumento di difficoltà in Boulder Dash era (ed è) da attribuirsi più al level design che ad un semplice incremento nella velocità, non che quest’ultimo manchi. La First Star Software, dopo l’introduzione dei livelli bonus e di più schemi di colori – unici elementi mancanti nel prototipo – comprò sul momento i diritti del gioco. Vorremmo aggiungere di più sul protagonista, ma non c’è molto da dire.
L’avatar di cui prendiamo il controllo nel gioco si chiama Rockford. L’abbiamo scoperto di recente, grazie alla presenza di spin-off, seguiti e materiale ufficiale, dopo un’infanzia intera passata a chiamarlo “boulderino” nella nostra ignoranza. In modo prettamente “nintendiano”, il ruolo di Rockford è quello di agire da finestra sul mondo di gioco, ma qualunque sia la motivazione che spinge questa (supponiamo) talpa non è ben chiara. L’aspetto canonico del personaggio è cambiato a più riprese nell’arco dei vari giochi; solo Boulder Dash EX di Kemco, su Game Boy Advance, ha apertamente alluso al protagonista Alex come un discendente diretto di Rockford.
Entrata in scena col botto!
Boulder Dash si basa su una premessa tanto semplice quanto riuscita. All’interno di ogni caverna, il nostro scopo sarà quello di fare nostri i diamanti necessari ad aprire l’uscita, per poi raggiungerla tutti interi. Data la gravità selettiva del gioco (supponendo che la cosa non sia invece da imputare a una superficie diagonale per le miniere), solo i diamanti e i massi sono soggetti alle cadute; noi, invece, no. Trattandosi di un gioco proveniente da un periodo ancora estraneo al concetto di punti vita, qualunque cosa si muova è in grado di vaporizzarci al contatto. Nel caso delle pietre – preziose e non – questo vale quando ci cadono in testa, ma toccare i nemici da qualsiasi direzione darà il via ad una fragorosa deflagrazione.
I muri esterni delle caverne non sono soggetti al raggio d’azione da nove “caselle” di ogni esplosione, ma le mura di mattoni possono invece sbriciolarsi con relativa facilità. Le cose iniziano a farsi problematiche quando, partendo dalla seconda caverna (“B”, o “Rooms” stando alla nomenclatura ufficiale), vengono introdotti i nemici. Possono essere di due tipi, o volendo tre: lucciole, che causano un’esplosione; farfalle, che fanno lo stesso rilasciando un numero di diamanti pari al raggio d’azione dello scoppio; infine, l’ameba (che appare solo in alcuni livelli) va a generare una meccanica di gameplay a sé.
Il level design di alcuni dei livelli in cui appaiono le amebe, uno su tutti l’iconica caverna “M” (“Apocalypse”), si basa quasi interamente sulla loro presenza. Mentre l’ameba non causa alcun danno a Rockford, lo stesso non si può dire dei nemici. Qualunque nemico abbia la sfortuna di imbattersi nella sostanza monocellulare finirà infatti per esplodere, ma questo non la rende meno pericolosa. Se la costante espansione dell’ameba viene contenuta con i massi, il suo soffocamento premierà i giocatori con un diamante per ogni casella da lei raggiunta; in caso contrario, l’ameba essiccata si tramuterà in rocce.
Un altro elemento di gameplay sono i muri magici, che trasformano ogni diamante che cade su di essi in un masso e viceversa. Ci sono molte idee, sebbene il primo Boulder Dash non le esplori mai più di tanto: raramente questi elementi vengono combinati in modo armonico per dare vita ad enigmi elaborati, al di fuori del diabolico picco di difficoltà causato dalla caverna “P” (“Enchanted Boxes”). A fare ciò ha provvisto invece il seguito, a cui ha lavorato Peter Liepa in persona. Si trattava di quello che oggi sarebbe un DLC (o, per un confronto più adeguato, Super Mario Galaxy 2). Un gioco concepito tenendo a mente chi conosce il predecessore a menadito, nel bene e nel male.
Boulder Dash, negli anni: un Old but Gold (quasi) sempre scintillante
Da allora, i detentori dei diritti di Boulder Dash hanno sfruttato la IP in modo abbastanza funzionale. Ci vengono in mente tre seguiti, e vorremmo parlare brevemente di ciascuno di loro. Partendo dai primi anni duemila, abbiamo il già citato Boulder Dash EX di Kemco. Oltre a contenere un port del gioco originale ricreato ad-hoc (con tanto di quattro caverne inedite come tutorial!), il gioco ha svecchiato la formula originale con l’implementazione di strumenti in stile Bomberman, una modalità storia e addirittura una modalità multiplayer fino a quattro giocatori. Sono presenti anche delle carte collezionabili per qualunque elemento di gioco incontrato negli schemi inediti.
Discorso diverso per Boulder Dash Rocks!, per PlayStation Portable e Nintendo DS. Il primo redesign “moderno” di Rockford si è visto proprio qui, ma il gioco è stato completamente castrato da una scelta cromatica per i livelli capace di rendere l’azione difficile da seguire. Non sappiamo nemmeno noi come sia possibile rendere difficile seguire l’azione in un Boulder Dash, ma in qualche modo il team di sviluppo incaricato di rendere giustizia (fallendo) alla proprietà di First Star ci è riuscito.
https://www.youtube.com/watch?v=Oewcg5MaAc8
Boulder Dash XL, per fortuna, riporta la serie in carreggiata. Al di là di un secondo redesign che reimmagina Rockford (e l’inedita controparte femminile Crystal) come se fosse una sorta di robottino in stile Clank, il gioco ha saputo dar vita a molti intricati schemi inediti che hanno ridotto gli espedienti di gameplay visti in EX anni prima. Nonostante ciò, il motore grafico poligonale ha giovato sia alla formula in sé sia, sorprendentemente, alla modalità Retro ispirata al gioco originale. Questo capitolo è attualmente reperibile solo tramite il (comunque ottimo) port per Nintendo 3DS.
Considerazioni finali
Tornando al 1984, valuteremmo il titolo da cui ha avuto inizio tutto partendo proprio dalla grafica. Chiaramente, quest’ultimo fattore va valutato all’interno del suo contesto, nel cui merito siamo più che felici di poter parlare di uno stile semplice ma efficace. Le varie palette che contraddistinguono ogni caverna attribuiscono a ciascuna di esse quel minimo di identità che, per un gioco dalla durata media di mezz’ora in mano a un giocatore esperto, non guasta. Non dubitiamo inoltre che i giochi di luce applicati ai diamanti siano stati, al tempo della pubblicazione originaria, semplicemente rivoluzionari.
Diverso il contesto del sonoro, minimalista come impone la tradizione dell’epoca. Al di là dell’ormai iconica melodia della schermata del titolo, l’unica altra musica presente nel gioco fa capolino quando al timer mancano solo dieci secondi. Per ciascuno di questi ultimi avremo modo di udire, nel silenzio tombale dei livelli, una singola nota, che sale man mano che – si suppone – il nostro ossigeno va ad esaurirsi. Se Masato Nakamura ci confessasse di essersi ispirato a questo per la famigerata musica dell’annegamento dei primi Sonic, ci limiteremmo ad annuire con una smorfia di tacita complicità.
La longevità di Boulder Dash, per gli standard moderni, ovviamente lascia il tempo che trova. Non vogliamo mentire: il tasso di difficoltà sa essere bello alto (caverna J, “Tracks”), ma come abbiamo anticipato un giocatore navigato può digerire l’intero titolo nell’arco di mezz’ora. Tuttavia, tra i cinque livelli di difficoltà e le diaboliche caverne bonus (uno su tutti, quella dal layout a forma di “V”), la carne al fuoco non manca. Puoi giocarlo sullo stesso sito ufficiale, connessione permettendo, ma se vuoi una vera sfida, puoi fiondarti sul seguito ufficiale curato da Peter Liepa in persona.
In generale, dunque, si parla di un gioco tanto amato dalla nicchia che si è scavato quanto poco noto tra coloro che non ne fanno parte. Un vero peccato, questo, visto che ultimamente First Star Software non ha praticamente pubblicato altro: la dipendenza dall’eredità di Boulder Dash ha portato il publisher a scontrarsi con i tanti cloni nati dall’idea, come SupaPlex e Diamond Caves. L’ultimo di questi ultimi, Digger Dan su Nintendo 3DS, ha avuto problemi al momento della pubblicazione su eShop proprio a causa dell’ostilità legale di First Star.
A noi, però, piace più ricordare Boulder Dash per essere un gioco tanto iconico da assicurarsi un posto nella line-up della riedizione Mini del Commodore 64 (The C64 Mini), nonché un ruolo da pioniere per un’intera piattaforma al debutto del servizio Virtual Console di Wii. E se ce lo permetti, non ci sembra un risultato da poco. Nemmeno per un nonnino pixellato di cui a stento la gente parla più.