Negli ultimi anni ho avuto modo di provare numerosi titoli e di conoscere altrettante software house, ma se ce n’è una che è riuscita sempre a sorprendermi, quella è Arkane Studios. Il team di sviluppo francese si è fatto conoscere principalmente con il primo Dishonored, ha ribadito la propria competenza con il secondo capitolo e si ancorata indissolubilmente al cuore degli appassionati con il reboot totale di Prey.
Ovviamente questi sono i titoli conosciuti dal grande pubblico, quelli usciti da quando Bethesda scelse di fare da publisher ad Arkane Studios. Questi giochi non sono riusciti a diventare un fenomeno di massa, ma hanno ottenuto un successo tale da accaparrarsi una grossa fetta di amanti del genere.
Arx Fatalis, il titolo che ha lanciato Arkane nell’industria videoludica
Scavando ancora di più indietro nel passato, fino a raggiungere gli albori della fondazione dello studio, possiamo trovare un piccolo diamante grezzo, spesso dimenticato da critica e pubblico quando si parla di Arkane. Ovviamente sto parlando di Arx Fatalis, un videogioco di ruolo in prima persona uscito nell’ormai lontano 2002 su PC e successivamente sulla prima Xbox.
Per quanto mi riguarda, ricordo molto bene il giorno in cui giocai per la prima volta a Arx Fatalis, poiché divenne ben presto uno dei tasselli più importanti della mia formazione videoludica. Era un sabato di novembre del 2004, possedevo un PC già da un paio d’anni ma non avevo avuto modo di incontrare su questa piattaforma dei titoli interessanti, un po’ per l’abitare in un paesino di campagna, un po’ per non aver amici appassionati di computer.
Quel giorno decisi, come spesso facevo all’epoca, di recarmi in edicola e comprare una rivista che trattasse della mia passione preferita. Quasi per caso, lo sguardo si posò su il numero 96 di Giochi per il mio Computer, sulla cui copertina svettava Gordon Freeman, complice l’uscita imminente di Half Life 2. Il gioco in allegato era appunto Arx Fatalis. In questo caso voglio fare il vecchio anche se non è richiesto, specificando che in quegli anni alcune riviste erano solite mettere come allegato dei CD o DVD contenenti giochi e software.
Arkane Studio, dal suo ingresso nel mondo videoludico fino ai giorni nostri, si è sempre ispirata alla scuola degli immersive sim di Looking Glass Studios. Questo però è quello che riesco a dire adesso, a undici anni invece rimasi sopraffatto da Arx Fatalis e da quella che mi sembrava una rivoluzione in tutto e per tutto.
I primi passi all’interno del gioco
Iniziando una nuova partita nel mondo di Arx Fatalis, veniamo immediatamente catapultati nella schermata di creazione del personaggio, dove possiamo scegliere fra una manciata di volti predefiniti e distribuire come meglio crediamo le caratteristiche del nostro alter ego. Dopo aver compiuto questa operazione, ci aspetta un breve filmato introduttivo in cui vedremo il nostro protagonista svenire di punto in bianco e venir trasportato da un goblin in una cella umida.
Una volta preso il controllo del personaggio rimasi spiazzato data l’assenza di indicazioni sul da farsi. Ero rinchiuso in una cella senza possibilità di uscire fuori. Girovagando all’interno di essa, notai che sulla sinistra erano presenti due piccole sbarre sospette, che apparentemente sembravano essere solamente ornamentali. Una volta presa familiarità con i controlli, scoprii che il masso posto alla base di esse era pericolante e che poteva essere rimosso semplicemente trascinandolo altrove utilizzando il mouse.
Grazie alla semplice rimozione dell’oggetto, avevo ottenuto la possibilità allargare la fessura fra le due sbarre, creandomi un passaggio di fortuna per poter fuggire. Già solamente questa piccola interazione mi fece apparire Arx Fatalis come una rivoluzione epocale. Giunti alla nona generazione di console può sembrare quasi banale, ma ricordiamo che l’avvento di un motore fisico integrato al gameplay avvenne grazie al sopracitato Half Life 2, mentre in precedenza la maggior parte della fisica in un gioco si basava su script dai contorni ben delineati.
Il combat system di Arx Fatalis
Da qui in poi Arx Fatalis guida il giocatore alla scoperta delle proprie meccaniche di gioco, partendo dal combat system. Il giocatore, per utilizzare la propria arma, dovrà tenere premuta una direzione insieme al pulsante d’attacco. Per rendere efficaci i propri colpi e infliggere danni significativi, sarà necessario riempire un apposito indicatore. Questo stratagemma era stato inserito dai designer per bilanciare i combattimenti corpo a corpo e donare al titolo un minimo di profondità tattica in più, così da evitare di menare fendenti senza alcun criterio.
Col senno di poi, il combattimento all’arma bianca non si è rivelato essere particolarmente ben fatto. Questo non fa però parte degli elementi che hanno reso Arx Fatalis una delle esperienze videoludiche migliori della mia adolescenza. Le peculiarità che mi hanno fatto amare il titolo risiedono principalmente nell’ambientazione, l’interazione con essa e il sistema con cui venivano utilizzate magie e incantesimi.
Esplorazione, magia e segreti a portata di mouse
Nel mondo di gioco il sole ha smesso di splendere ormai da anni, rendendo la superficie del globo un’enorme distesa ghiacciata. Gli esseri viventi, per sopravvivere al gelo estremo presente all’esterno, sono stati costretti a rifugiarsi sotto terra, adattandosi a un nuovo stile di vita. Otto livelli di profondità, ognuno con la propria razza di riferimento e le proprie singolarità legate all’ambiente.
A farmi imprimere nella memoria in modo indelebile l’universo di Arx Fatalis è stato però il mistero e l’ermetismo che avvolgeva ogni cosa. Tutto era estremamente denso di segreti, enigmi e frasi non dette, che mi portarono, al tempo, a elaborare le teorie più strampalate per tentare di unire coerentemente tutti i puntini.
Da adulto, riconosco che molte delle scelte artistiche a cui mi sto riferendo erano in realtà dettate da un basso budget e dai tempi ristretti di pubblicazione richiesti dal publisher. A ogni modo, l’essere spartano e poco rifinito fa indiscutibilmente parte del fascino dell’opera. Non a caso questo è stato uno dei primi titoli a invogliarmi a vedere cosa ci fosse dietro alla produzione e programmazione di un videogioco, cercando di spulciarne i segreti tramite una maldestra e inesperta analisi del codice di gioco.
Il secondo elemento che mi ha fatto amare Arx Fatalis, come precedentemente anticipato, è l’utilizzo della magia. L’apprendimento degli incantesimi avviene tramite alcune rune incise in pietra che è possibile trovare esplorando le mappe. L’aspetto che risalta in tutto questo meccanismo è come vengono combinati i vari simboli. Infatti, per eseguire con successo una magia, sarà necessario disegnare a schermo la sequenza di rune corrispondenti.
Tenendo premuto un tasto specifico la visuale si bloccherà, permettendoci di poter utilizzare il puntatore del mouse per tracciare liberamente i simboli necessari alla realizzazione di una palla di fuoco o di una barriera protettiva. Ricordo ancora i pomeriggi passati a cercare ogni combinazione nascosta, appuntandola poi su un apposito quadernetto.
Ci sarebbe molto altro da dire su Arx Fatalis, ma finirei solamente con il rievocare aneddoti che legano indissolubilmente questo titolo alla mia adolescenza, facendomi trascinare dai ricordi. L’unica cosa che voglio aggiungere è che, osservando il percorso compiuto da Arkane, mi fa sorridere come in Arx Fatalis la build furtiva fosse quella meno efficace in assoluto. Per questo motivo, ho sempre visto Dishonored come la redenzione dello studio nei confronti di chi, come me, preferiva pugnali e grimaldelli al classico spadone.