Shadow of the Colossus, nato nel 2005 per PlayStation 2 e tirato “a ludico” da Bluepoint Games nel 2018 per PlayStation 4, è il capolavoro del game designer/director e artista giapponese Fumito Ueda. Il gioco è il secondo titolo di una sorta di trilogia, composta in ordine di pubblicazione (ma non in ordine narrativo) da ICO, Shadow of the Colossus e The Last Guardian.
Tutti e tre condividono simbologie e stilemi molto simili e non è quindi un caso che Ueda abbia suggerito in modo enigmatico e criptico che anche The Last Guardian sia ambientato nello stesso piano dimensionale di Shadow of The Colossus. Come nei precedenti capitoli i dialoghi dei personaggi sono lingue infatti arcaiche e incomprensibili, come lo sono le architetture delle rovine, antichissime e fatiscenti. Collocare ICO, Shadow of the Colossus e The Last Guardian in un preciso ordine temporale è purtroppo (o per fortuna) impossibile, data la natura controversa degli stessi.
Controversa per la natura di una narrazione completamente fondata sulla tecnica “Show, don’tell“. Avevo citato l’utilizzo di questo artificio narrativo quando ti ho parlato di Silent Hill 2, ma la differenza fondamentale con Shadow of the Colossus è nella quantità d’applicazione: se il capolavoro di Konami ne faceva un utilizzo moderato, quello di Ueda poggia completamente la sua storia sulle capacità deduttive di chi lo sta giocando.
È per questo che al contrario di quanto insinuano giocatori che sono stati disattenti e svogliati nella ricostruzione dei fatti e dei piccoli dettagli, Shadow of the Colossus ha una narrazione, anche molto importante e potente. Chiaramente il gioco lascia anche con molte domande senza risposta, ma questa è, che la si ami o la si odi, la natura della tecnica narrativa Show don’t tell; in fondo, ciò che “non viene detto ” rientra sempre e comunque nella pura speculazione, com’è pur vero che nel caso di SOTC “viene mostrato” davvero molto, quantomeno ciò che basta alla comprensione di una storia che fila.
Mi fermo qui per quanto riguarda un’analisi approfondita del gioco, che vedremo in una seconda battuta.
Per oggi concentriamoci su una visione più ampia e completa del titolo.
Journey to the Forbidden Lands
Senza voler andare per forza sotto la pelle di ciò che è visibile, di che parla questo Shadow of the Colossus? I due poli narrativi che più forniscono dettagli sul chi, cosa e perché si trovano all’inizio e alla fine dell’avventura. L’inizio fornisce fondamentalmente una risposta a tutti e tre gli interrogativi sopra citati: nei panni di Wander e accompagnati dal suo fido destriero Agro, stiamo trasportando il cadavere di una giovane donna su un ponte lunghissimo.
Un passaggio che da l’accesso a una terra che, teoricamente, dovrebbe rimanere inaccessibile ai comuni mortali. Si dice però che in queste terre sia possibile riportare in vita i morti e già da questa premessa si può intuire quanto Wander sia fermamente disposto a tutto pur di riportare in vita la giovane. Non sappiamo e non sapremo mai quale tipo di relazione intercorra fra i due e, forse, non dovrebbe neppure importarci: questo legame è così forte da spingere Wander in una terra in cui gli uomini non dovrebbero osare nell’addentrarsi.
Una volta arrivato alla fine del ponte e entrato nell’enorme tempio che si trova al suo estremo, Wander farà la conoscenza di Dormin, un entità sconosciuta, luminosa e incorporea che gli parlerà attraverso un enorme foro sul soffitto della struttura. Questi proporrà al protagonista un patto, ovvero uccidere con la sua speciale spada i 16 colossi che si aggirano e vagano per le sue terre desolate. Il premio che Wander riceverà in cambio sarà la vita della donna, proprio com’egli desidera. Già da questo incipit, possiamo intuire due cose:
Wander è in possesso dell’unica arma in grado di abbattere i colossi e questo significa che, in qualche modo, è arrivato preparato nelle Terre Proibite. Anche se non sappiamo fino a che punto, il protagonista è conscio di ciò che lo aspetta.
In seconda battuta, e questo è forse il dettaglio che più risulta evidente, è lecito chiedersi chi o cosa sia l’entità che conosceremo come Dormin. Un entità fatta di luce, che parla attraverso molte voci sia maschili che femminili, confinata in una terra proibita e potente al punto da riportare in vita i morti. Già così, Ueda suggerisce indirettamente al giocatore tramite questo incipit e altri escamotage narrativi, che l’epica epopea di Wander non potrà che finire male.
Nonostante Shadow of the Colossus all’inizio si prefiguri come la classica fiaba positiva in cui il protagonista deve salvare la fanciulla, le connotazioni narrative della storia tendono a invertirsi man mano che aiuteremo Wander ad abbattere i i colossi, una tragedia in cui egli è sia eroe che antagonista.
Shadow of the Colossus
Letteralmente “L’ombra dei colossi”, sono loro gli indiscussi protagonisti del gameplay e dell’esperienza ludica di Shadow of the Colossus. Quasi tutti caratterizzati da un design estetico unico e favoloso, potremmo considerarli come delle enormi parti semoventi dell’ambiente. Tranne per qualche eccezione dalle dimensioni “ridotte”, i colossi andranno letteralmente scalati e per farlo bisognerà sempre ingegnarsi, utilizzando la maggior parte delle volte l’ambiente a nostro favore.
Questo rende Shadow of the Colossus, oltre che un vero e proprio platform un puzzle game, visto che i Colossi altro non sono altro che degli enormi enigmi che bisogna necessariamente risolvere per proseguire. Per abbatterli sarà quindi necessario trovare il modo per raggiungere le aree coperte di pelo del loro immenso corpo, aggrapparsi e cercare i punti vitali da pugnalare con la speciale spada. Spada che ha una duplice funzione: oltre a essere in grado di abbattere queste mastodontiche mostruosità, ha la capacità di incanalare i raggi solari creando un fascio di luce in direzione del colosso successivo da cacciare.
Sara proprio durante le uccisioni del colossi che si manifesteranno alcuni degli “escamotage narrativi” di cui parlavo poco sopra. L’inquietante sangue nero che schizza dai colossi dopo averli pugnalati, il silenzio mesto e reverenziale che copre le OST dei colossi poco prima che si schiantino a terra, i tentacoli neri che escono dai loro cadaveri subito dopo averli abbattuti e che sembrano ferire a morte Wander, per poi trovare quest’ultimo che si risveglia al tempio con delle ombre che si stagliano sopra il suo corpo esanime.
Tramite le mani di Wander spezziamo le vite di esseri, si mostruosi, ma che non fanno nulla di male se non vivere; anche se il protagonista ha le sue motivazioni per perpetuare la sua caccia ai giganti, è impossibile non accorgersi come questo stia commettendo un errore nell’abbattere i colossi, che c’è qualcosa di tremendamente sbagliato dietro le loro morti. Per quanto paradossale, viene spesso a crearsi un empatia con gli enormi antagonisti, che il più delle volte sembrano vittime più che carnefici. D’altronde, per quanto pericolosi, saremo sempre noi i cacciatori alla loro ricerca e mai il contrario.
Controller alla mano, riuscire ad abbattere un colosso porta una grande soddisfazione. Il sistema di controllo, spesso macchinoso, rende molto difficile constrollare Wander con precisione. La fatica che si sente nel direzionarlo con tempismo garantisce un grande entusiasmo a scontro concluso. Anche riuscire a capire come salire su un colosso risulta molto stimolante, visto che alcuni fra questi richiedono un particolare impegno mentale per essere “risolti“.
Un trionfo grafico per PlayStation 2
Quando Shadow of the Colossus uscì su PlayStation 2, in pochi riuscivano realmente a realizzare quanto il gioco potesse essere meraviglioso dal punto di vista grafico. Prima di allora, nulla o poco aveva spremuto a tal punto l’hardware di PlayStation 2.
La resa grafica di SOTC riscrisse i canoni che vigevano all’epoca per i videogiochi. Potresti vederla così: anch’esso esclusiva, Shadow of the Colossus portò in alto l’asticella per PlayStation 2 come ha fatto nel 2017 Horizon Zero Dawn per PlayStation 4.
Animazioni ben riuscite e credibili quelle di Wander, del cavallo Agro e dei colossi, con i modelli degli ultimi ispiratissimi. Tutti i colossi sono diversificati nella forma, curati al minimo dettaglio e dotati di un gran numero di poligoni; a conferma del fatto che si possano considerare dei veri e propri ambienti semoventi, sappiamo che per la loro realizzazione il team di sviluppo ha studiato molteplici strutture architettoniche, per poi riprodurle all’interno dei colossi.
Chiaramente, nonostante il bel vedere, non possiamo dimenticarci di citare i limiti dell’amata PlayStation 2. Un aliasing e uno shimmering che non contribuivano a dei contorni di ambienti e personaggi nitidi e un frame rate ballerino nelle situazioni più concitate di gioco (e anche le migliori) rimangono palle al piede di un titolo che, lo si ami o lo si odi, è rimasto e rimarrà nell’immaginario comune dell’era PlayStation 2.