Se parlo spesso di Super Smash Bros. Ultimate non è per il rispetto maniacale che nutro nei confronti di questo titolo, ma per amore nei confronti dei picchiaduro in toto. Non parlo però di quelli più legati alla formula di base, anzi; adoro Tekken e Street Fighter, è vero, ma si può fare molto altro con l’immortale concetto di prendersi a legnate sul grugno. Tra i primi ad iniettare al genere una delle sue prime dosi di fantasia, spezzando le catene del movimento limitato alla posizione del nostro avversario, abbiamo la meteora passeggera firmata da una Koei ancora “nubile”: DeStrega.
Anni prima che Koei divenisse – reciprocamente – sinonimo di Tecmo, infatti, il team di sviluppo ha dato vita ad un fratellino per Dynasty Warriors quando quest’ultima serie era ancora nella sua relativa infanzia. Correva l’anno 1998, quando in una modestissima sordina DeStrega fece il suo ingresso sul mercato. Lo status “oscuro” del titolo lo ha reso molto più che un semplice gioco di nicchia – si parla di un picchiaduro che tuttora riveste un ruolo di nota a piè di pagina quando si discute di Koei, e non si tratta esattamente di una fama meritata. Semmai, è una fama riduttiva.
“Trascendendo la storia e il mondo”… scusate, picchiaduro sbagliato
La trama, tenendo fede agli standard del tempo (e quelli dei picchiaduro in generale), non vanta molto di cui parlare. Koei ha attinto a piene mani dal filone bellico dei suoi Dynasty Warriors, integrando però le differenze di gameplay che contraddistinguono i suoi personaggi in ciò che li vede in guerra tra loro durante le cutscene. Il risultato è una modalità storia paragonabile a quella di tanti altri titoli dello stesso genere, che però risulta appena gradevole e mai uno dei fiori all’occhiello di DeStrega. Il vero oro in questo caso risiede nel gameplay: l’opposto delle esperienze cinematografiche.
Per completezza, comunque, passiamo brevemente in rassegna tropi ed archetipi narrativi che caratterizzano la storia del gioco. Nel mondo di Ipsen, solo gli Strega (chiamati così in ogni doppiaggio del gioco, compreso quello italiano) possiedono il dono del dominio sulla magia. In una versione molto più militaresca dello spartiacque genetico di Harry Potter, gli umani privi di poteri hanno usato le Reliquie create dagli Strega per usare artificialmente per dichiarare guerra ai prescelti. DeStrega ci mostra un mondo già lacerato dal conflitto, in cui guidare la resistenza alla vittoria.
Il resto è molto “by the numbers”: una struttura narrativa mirata a permetterci di padroneggiare l’intero (e modesto, almeno per i canoni odierni) roster del gioco, pepata da un colpo di scena prima che un anticlimatico inserimento del titolo “destrega” ci conduca dritti in direzione dei titoli di coda. Questo ci sembra il momento migliore per citare la localizzazione in italiano: per essere un gioco semisconosciuto, i grandi nomi ci sono tutti, da Andrea Piovan (Dr. N. Tropy, Crash Bandicoot 3; “Il Capo”, Art Attack) ad Alessandro Ricci, passando per Ilaria D’Elia, Benedetta Ferraro e Massimo Marinoni. Il risultato è quanto ci si aspetta da un titolo PlayStation dell’epoca.
Che sberla, DeStrega!
Passiamo alla vera punta di questo diamante grezzo: il gameplay. Nel bene e nel male, siamo in un gioco che precede quella virtù divenuta obbligo nota come doppia leva analogica. Quel che ne deriva è un picchiaduro che prende le arene e le integra nel funzionamento di ogni match. Di nuovo: qui una battuta sulla scena competitiva di Super Smash Bros. calzerebbe a pennello, ma in realtà la strategia nata dal gameplay e dagli scenari di DeStrega lo rende, potenzialmente, uno dei titoli più tecnici del suo genere, a suo tempo. Scopriamo insieme il motivo.
La distinzione tematica che contraddistingue il mondo di gioco fa di DeStrega un gioco molto più vicino al “picchiaduro di Final Fantasy” di quanto non lo sia stato, prima dei Dissidia su PlayStation Portable, Ehrgeiz: God Bless The Ring dalla stessa Square-Enix (al tempo Squaresoft). In realtà il paragone corretto vede DeStrega come un Power Stone nato con un anno di anticipo, privato solo di strumenti e trasformazioni. A discapito della presenza della sola ossatura (senza anime di accompagnamento) di Power Stone, però, gli spazi per affinare le proprie tecniche non mancano, grazie alla versatilità del combattimento.
L’aggancio di DeStrega è quasi basilare: un pulsante per saltare, mentre i vari tipi di pugni e calci vengono assegnati a quadrato, triangolo e cerchio. Una meccanica di stamina, rappresentata dalla piccola barra sotto il nostro indicatore di salute, impedisce alle nostre combo di degenerare nello spam, ma è quando ci allontaniamo dal nostro avversario (o viceversa) che le cose si fanno interessanti. Le nostre mosse corpo a corpo lasciano infatti spazio a magie a lungo raggio, che possono essere a loro volta concatenate con lo scotto da pagare di una ricarica più lunga e, pertanto, di attese maggiori tra una mossa e l’altra.
La chiave di volta che arricchisce il tutto è costituita dalle parate, relegate ai tasti dorsali. Anche nel loro caso esistono una versione normale e un’altra adibita alla repulsione delle magie. I dodici personaggi giocabili si dividono perlopiù in differenti magie elementali, nonché nelle loro “razze” di appartenenza. Per ciascuno di loro è presente un costume segreto ispirato al primo (e, al tempo dell’uscita di DeStrega, unico) Dynasty Warriors, ottenibile nelle varie modalità del menù: arcade, prova a tempo, sopravvivenza, pratica, scontri a squadre e multiplayer. Sono anche presenti le opzioni.
Una reliquia degli anni novanta?
Rivolgiamo ora il nostro occhio critico a DeStrega partendo dal suo motore grafico. Non c’è molto da dire: è un autentico figlio della sua epoca, nel bene e nel male. I modelli 3D “squadrati” non mancano, e sebbene le cutscene della modalità storia li facciano risaltare più del dovuto è pur vero che nel gameplay questa vecchiaia si nota a malapena. Le animazioni rappresentano il fulcro dell’espressività dei personaggi, la cui personalità può risaltare anche per chiunque avesse saltato quel lungo tutorial che è la modalità storia del gioco.
La colonna sonora del gioco sfoggia un approccio “mariesco” con cui il gioco prende un tema principale per poi riarrangiarlo in più modi. Le modalità principali tendono ad associare uno specifico brano al personaggio più consono al mood della traccia in questione. La colonna sonora sposa melodie malinconiche all’uso di molteplici strumenti, uno su tutti la chitarra elettrica. Il risultato conferisce a DeStrega un’identità indistinguibile dall’atmosfera che permeava i pomeriggi in cui chi di noi ricorda il titolo ebbe modo di giocarlo; una capsula del tempo, se vogliamo.
Per quanto concerne gameplay e longevità, non abbiamo molto da aggiungere. Una longplay – video comprensivo di tutto ciò che un videogioco ha da offrire – di DeStrega non raggiunge mai la soglia delle due ore. Si tratta, come spesso avviene in questi casi, di un gioco che vive di multiplayer, per quanto si possano affrontare i bot all’infinito. Con questo non vogliamo dire però che l’idea di base non sia solida; purtroppo però il gioco è ormai fruibile quasi solo tramite emulazione. Se non ti attirano le ricerche su eBay o l’utilizzo di metodi meno convenzionali, ti lasciamo al video qui sotto.
In generale, ho approfittato della rubrica per poterti rendere partecipe di un gioco che mi ha accompagnata per tanti pomeriggi. Non so se questo possa farti interessare a un titolo per la cara vecchia PlayStation, ma se la premessa di base ti può intrigare quanto basta, probabilmente ti affezionerai in parte anche tu a DeStrega (“e anche un pochino a chi l’ha raccomodato” rendendolo appetibile). L’appuntamento con la macchina del tempo di iCrewPlay è previsto per la prossima settimana: mi raccomando, non mancare!